Al di là della retorica greenwashing si moltiplicano i segnali di difficoltà enormi per il capitalismo neoliberista occidentale nel passare ad un sistema industriale meno energivoro, con forti riduzioni delle emissioni climalteranti e quant’altro promesso – ma mai realizzato – dalle varie Cop (numero crescente).
I responsabili politici discettano a lungo, ma quando le loro proposte devono passare alla fase operativa concreta tutto si ferma davanti alle resistenze del “mercato”. Cioè delle aziende che dovrebbero introdurre nuove tecniche produttive e “prodotti green”, ma non hanno intenzione o possibilità reali di finanziare la ristrutturazione degli impianti, né tanto meno di garantire merci finali ad un costo vicino a quello dei prodotti old style.
Uno degli esempi fulminanti arriva dal settore che ha segnato tutta l’evoluzione capitalistica degli ultimi 120 anni, fungendo da “pivot” intorno a cui ruotava un indotto di dimensioni sistemiche crescenti: l’automotive.
A livello europeo sappiamo tutti che lo sforzo “normativo” della UE si è concentrato nel fissare una serie di step in cui le emissioni dovevano calare in modo radicale e progressivo. Tutti abbiamo familiarità con sigle come “euro 1”, “euro 3”, ecc. fino all’”euro 6”.
Il problema è – dicono le industrie automobilistiche – che questa corsa verso le “emissioni zero” è impossibile da portare a termine, con i motori a combustione interna alimentati a benzina, gasolio o anche gpl. Al punto che già il prossimo obiettivo – “euro 7” – diventa utopistico, perché «impone vincoli irrealistici all’industria e rallenterebbe addirittura la spinta alla decarbonizzazione».
Lo scrive Luca de Meo, a.d. della Renault e presidente dell’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili (Acea), in una lettera aperta ai decisori politici europei. «La conformità all’Euro 7 comporterebbe un aumento dei costi che potrebbe dissuadere i clienti dall’acquistare queste nuove auto». Di conseguenza «Questo potrebbe allungare la vita del parco auto: le auto più vecchie, con emissioni più elevate, rimarrebbero più a lungo sulle strade».
E quindi «Noi sosteniamo che potremmo ottenere un rapporto costi-benefici di gran lunga migliore se riorientassimo gli ingenti investimenti che l’Euro 7 richiederebbe verso l’elettrificazione, rendendo i veicoli elettrici più accessibili e sviluppando tecnologie a zero emissioni per migliorare il parco auto».
Si potrebbe pensare, leggendo, che i costruttori di automobili siano improvvisamente diventati più ambientalisti dei Verdi (non ci vorrebbe neanche molto...), ma in realtà la parolina magica è “riorientare verso l’elettrificazione gli ingenti investimenti che l’Euro 7 richiederebbe”. Ed è magica perché nasconde sapientemente la richiesta che quegli investimenti arrivino dal “pubblico”, sia questo lo Stato nazionale (come negli Usa) oppure un sistema di Stati, come l’Unione Europea.
Il messaggio ai decisori politici è esplicito: «La nostra industria ha goduto a lungo di un vantaggio competitivo lungo tutta la catena del valore dei veicoli con motore a combustione interna». Ovvero nel ‘900 e nei primi due decenni del terzo millennio.
Ma «Questo non sarà più il caso dei veicoli elettrici, almeno nel breve periodo. I nostri concorrenti hanno molte carte in mano che noi non abbiamo ancora, in particolare a monte della catena di fornitura dei veicoli elettrici a batteria. Inoltre, il loro sostegno da parte delle autorità nazionali e locali è stato massiccio e sta ancora aumentando in Cina e negli Stati Uniti».
Eh già, perché nonostante la sbandierata “superiorità del libero mercato” di cui Washington è da sempre l’alfiere, «attraverso l’Inflation Reduction Act (IRA), vediamo che gli Stati Uniti stimolano la loro industria nella transizione verde, mentre l’approccio dell’Europa è quello di regolamentare l’industria – spesso in modo non sincronizzato».
Traduciamo in termini espliciti: fin qui l’Unione Europea ha spinto sul pedale della “regolamentazione”, sia del settore automobilistico che di altri comparti industriali, fornendo in modo soft “incentivi” per raggiungere gli obiettivi di volta in volta fissati. Senza però intervenire direttamente nelle dinamiche del “mercato”, con investimenti o acquisizioni, in obbedienza alla “regola aurea” del neoliberismo imperante.
Le industrie hanno risposto cercando di limitare i costi della ricerca per rispettare ogni step, o addirittura truccando le centraline per certificare livelli di emissioni lontani dalla realtà (lo scandalo “dieselgate” ha rischiato di travolgere Volkswagen, mica un nanerottolo...). Ma in questo modo è stato solo rinviato il momento del redde rationem, che ora è arrivato.
L’auto elettrica potrebbe forse essere una soluzione (non mancano dubbi e problemi, in proposito), ma su questo i cinesi sono molto più avanti (grazie a una politica industriale pianificata e alla programmazione), ed anche gli Stati Uniti hanno capito che i tempi del neoliberismo e della “globalizzazione” sono definitivamente finiti.
E infatti Biden ha presentato un piano di finanziamenti da 369 miliardi di dollari (l’Inflation Reduction Act) in sussidi per progetti e prodotti di energia pulita. Soldi freschi, non “regole”...
Due vie diverse – pianificazione in Cina, sussidi alle imprese in Usa – per cercare di ottenere lo stesso risultato. Impossibile, insomma, che l’Unione Europea non faccia proprio nulla e lasci al “mercato” il compito di reperire le risorse. Chi perde questo treno è finito...
Anche perché il piano statunitense mira esplicitamente a premiare quelle imprese che riporteranno o manterranno la loro produzione negli States. Un calcio nei denti, insomma, alla sponda “euro” dell’Atlantico, sferrato proprio mentre si inchioda questa parte di mondo a sostegno dell’Ucraina, costringendola a rinunciare ai rapporti storici con la Russia e dintorni, che avevano fin qui assicurato energia abbondante e a buon mercato, oltre che sbocchi rilevanti per le proprie esportazioni.
E infatti Ursula von der Leyen, a capo della Commissione, ha rapidamente raccolto un nuovo “Green Deal Industrial Plan”, che prevede finanziamenti per 250 miliardi a favore delle imprese (non solo automobilistiche, naturalmente) e addirittura la creazione di un “fondo sovrano europeo” entro l’estate.
“Il punto di partenza del piano è la necessità di aumentare in modo massiccio lo sviluppo tecnologico, la produzione manifatturiera e l’installazione di prodotti net zero e la fornitura di energia nel prossimo decennio, nonché il valore aggiunto di un approccio a livello della Ue per affrontare insieme questa sfida“.
Tutto risolto, allora? O almeno ben impostato?
Non proprio. Intanto, e per restare solo al settore dell’automotive, molti dei progetti europei per il passaggio all’auto elettrica stanno svanendo ancora prima di cominciare.
A Blyth, nel Nord dell’Inghilterra, dove si pensava di installare la “Motor Valley” inglese, è fallita Britishvolt, una start-up che progettava la più grande gigafactory di tutta Europa; avrebbe servito anche le case automobilistiche continentali. I massicci investimenti di capitale che sarebbero stati necessari non si sono mai fatti vedere, e dunque i quintali di “rendering” elaborati dalla start up sono rimasti su carta o su file.
Anche in Italia cose del genere sono finite quasi subito. Una fabbrica automobilistica – la Silk-Faw – doveva essere costruita a Gavassa, alle porte di Reggio Emilia. Ma le tante promesse della joint venture sino-americana non si sono mai tradotte in atti concreti.
A Scarmagno, nell’area industriale della ex Olivetti (mai nessuno che abbia chiesto conto a Debenedetti della sua distruzione), la Italvolt doveva costruire una gigafactory per la costruzione delle potenti batterie necessarie a far muovere un’auto elettrica. Qui i problemi sono stati un po’ diversi; l’area non è adeguata a sostenere le esigenze di una produzione ad alta intensità energetica come quella delle batterie. Ma l’imprenditore – Lars Carlstrom – è lo stesso di Blyth...
Insomma, tra il dire e il fare – la transizione all’auto elettrica o ad altre tecnologie produttive – c’è di mezzo un sacco di problemi, specie se continui ad affidarti all’inventiva di imprenditori comunque avidi di profitti immediati, senza un piano industriale organico, di lungo periodo e dimensioni quantomeno europee.
Ma più in generale le scelte politiche di Usa e Ue – finanziare “piani di innovazione industriale” già ora in concorrenza tra loro – sollevano domande piuttosto complesse sul futuro nell’Occidente neoliberista, che appare incapace di “cambiare modello” in piena corsa.
Se vieni da 30 anni di abbattimento degli ostacoli alle imprese (e a maggior ragione al capitale finanziario, dai fondi di investimento in giù), di demolizione delle capacità di guida economica degli Stati, di eliminazione di ogni “piano” che vada al di là del “fate come vi pare”, di moderazione salariale che riduce i consumi interni... non è per nulla semplice inventarsi strumenti efficaci per “orientare” le scelte imprenditoriali in un senso o nell’altro. Men che mai per obiettivi comuni vitali come la lotta al cambiamento climatico...
Sul tema, non a caso, si concentra una lunga analisi pubblicata su Foreign Affairs, che abbiamo velocemente tradotto. Vista l’origine, il testo è decisamente “ottimistico”, quasi esortativo nei confronti della possibile “complementarità” delle iniziative euro-atlantiche.
Ma non mancano le notazioni davvero interessanti, come quel lapidario “la globalizzazione non funziona”, che chiude definitivamente la breve era del mercato unico mondializzato e apre quella della frammentazione iper-competitiva, con sullo sfondo i conflitti armati.
O quella per cui la “frammentazione” rischia a questo punto di prodursi anche tra Europa e Usa.
Buona lettura.
I responsabili politici discettano a lungo, ma quando le loro proposte devono passare alla fase operativa concreta tutto si ferma davanti alle resistenze del “mercato”. Cioè delle aziende che dovrebbero introdurre nuove tecniche produttive e “prodotti green”, ma non hanno intenzione o possibilità reali di finanziare la ristrutturazione degli impianti, né tanto meno di garantire merci finali ad un costo vicino a quello dei prodotti old style.
Uno degli esempi fulminanti arriva dal settore che ha segnato tutta l’evoluzione capitalistica degli ultimi 120 anni, fungendo da “pivot” intorno a cui ruotava un indotto di dimensioni sistemiche crescenti: l’automotive.
A livello europeo sappiamo tutti che lo sforzo “normativo” della UE si è concentrato nel fissare una serie di step in cui le emissioni dovevano calare in modo radicale e progressivo. Tutti abbiamo familiarità con sigle come “euro 1”, “euro 3”, ecc. fino all’”euro 6”.
Il problema è – dicono le industrie automobilistiche – che questa corsa verso le “emissioni zero” è impossibile da portare a termine, con i motori a combustione interna alimentati a benzina, gasolio o anche gpl. Al punto che già il prossimo obiettivo – “euro 7” – diventa utopistico, perché «impone vincoli irrealistici all’industria e rallenterebbe addirittura la spinta alla decarbonizzazione».
Lo scrive Luca de Meo, a.d. della Renault e presidente dell’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili (Acea), in una lettera aperta ai decisori politici europei. «La conformità all’Euro 7 comporterebbe un aumento dei costi che potrebbe dissuadere i clienti dall’acquistare queste nuove auto». Di conseguenza «Questo potrebbe allungare la vita del parco auto: le auto più vecchie, con emissioni più elevate, rimarrebbero più a lungo sulle strade».
E quindi «Noi sosteniamo che potremmo ottenere un rapporto costi-benefici di gran lunga migliore se riorientassimo gli ingenti investimenti che l’Euro 7 richiederebbe verso l’elettrificazione, rendendo i veicoli elettrici più accessibili e sviluppando tecnologie a zero emissioni per migliorare il parco auto».
Si potrebbe pensare, leggendo, che i costruttori di automobili siano improvvisamente diventati più ambientalisti dei Verdi (non ci vorrebbe neanche molto...), ma in realtà la parolina magica è “riorientare verso l’elettrificazione gli ingenti investimenti che l’Euro 7 richiederebbe”. Ed è magica perché nasconde sapientemente la richiesta che quegli investimenti arrivino dal “pubblico”, sia questo lo Stato nazionale (come negli Usa) oppure un sistema di Stati, come l’Unione Europea.
Il messaggio ai decisori politici è esplicito: «La nostra industria ha goduto a lungo di un vantaggio competitivo lungo tutta la catena del valore dei veicoli con motore a combustione interna». Ovvero nel ‘900 e nei primi due decenni del terzo millennio.
Ma «Questo non sarà più il caso dei veicoli elettrici, almeno nel breve periodo. I nostri concorrenti hanno molte carte in mano che noi non abbiamo ancora, in particolare a monte della catena di fornitura dei veicoli elettrici a batteria. Inoltre, il loro sostegno da parte delle autorità nazionali e locali è stato massiccio e sta ancora aumentando in Cina e negli Stati Uniti».
Eh già, perché nonostante la sbandierata “superiorità del libero mercato” di cui Washington è da sempre l’alfiere, «attraverso l’Inflation Reduction Act (IRA), vediamo che gli Stati Uniti stimolano la loro industria nella transizione verde, mentre l’approccio dell’Europa è quello di regolamentare l’industria – spesso in modo non sincronizzato».
Traduciamo in termini espliciti: fin qui l’Unione Europea ha spinto sul pedale della “regolamentazione”, sia del settore automobilistico che di altri comparti industriali, fornendo in modo soft “incentivi” per raggiungere gli obiettivi di volta in volta fissati. Senza però intervenire direttamente nelle dinamiche del “mercato”, con investimenti o acquisizioni, in obbedienza alla “regola aurea” del neoliberismo imperante.
Le industrie hanno risposto cercando di limitare i costi della ricerca per rispettare ogni step, o addirittura truccando le centraline per certificare livelli di emissioni lontani dalla realtà (lo scandalo “dieselgate” ha rischiato di travolgere Volkswagen, mica un nanerottolo...). Ma in questo modo è stato solo rinviato il momento del redde rationem, che ora è arrivato.
L’auto elettrica potrebbe forse essere una soluzione (non mancano dubbi e problemi, in proposito), ma su questo i cinesi sono molto più avanti (grazie a una politica industriale pianificata e alla programmazione), ed anche gli Stati Uniti hanno capito che i tempi del neoliberismo e della “globalizzazione” sono definitivamente finiti.
E infatti Biden ha presentato un piano di finanziamenti da 369 miliardi di dollari (l’Inflation Reduction Act) in sussidi per progetti e prodotti di energia pulita. Soldi freschi, non “regole”...
Due vie diverse – pianificazione in Cina, sussidi alle imprese in Usa – per cercare di ottenere lo stesso risultato. Impossibile, insomma, che l’Unione Europea non faccia proprio nulla e lasci al “mercato” il compito di reperire le risorse. Chi perde questo treno è finito...
Anche perché il piano statunitense mira esplicitamente a premiare quelle imprese che riporteranno o manterranno la loro produzione negli States. Un calcio nei denti, insomma, alla sponda “euro” dell’Atlantico, sferrato proprio mentre si inchioda questa parte di mondo a sostegno dell’Ucraina, costringendola a rinunciare ai rapporti storici con la Russia e dintorni, che avevano fin qui assicurato energia abbondante e a buon mercato, oltre che sbocchi rilevanti per le proprie esportazioni.
E infatti Ursula von der Leyen, a capo della Commissione, ha rapidamente raccolto un nuovo “Green Deal Industrial Plan”, che prevede finanziamenti per 250 miliardi a favore delle imprese (non solo automobilistiche, naturalmente) e addirittura la creazione di un “fondo sovrano europeo” entro l’estate.
“Il punto di partenza del piano è la necessità di aumentare in modo massiccio lo sviluppo tecnologico, la produzione manifatturiera e l’installazione di prodotti net zero e la fornitura di energia nel prossimo decennio, nonché il valore aggiunto di un approccio a livello della Ue per affrontare insieme questa sfida“.
Tutto risolto, allora? O almeno ben impostato?
Non proprio. Intanto, e per restare solo al settore dell’automotive, molti dei progetti europei per il passaggio all’auto elettrica stanno svanendo ancora prima di cominciare.
A Blyth, nel Nord dell’Inghilterra, dove si pensava di installare la “Motor Valley” inglese, è fallita Britishvolt, una start-up che progettava la più grande gigafactory di tutta Europa; avrebbe servito anche le case automobilistiche continentali. I massicci investimenti di capitale che sarebbero stati necessari non si sono mai fatti vedere, e dunque i quintali di “rendering” elaborati dalla start up sono rimasti su carta o su file.
Anche in Italia cose del genere sono finite quasi subito. Una fabbrica automobilistica – la Silk-Faw – doveva essere costruita a Gavassa, alle porte di Reggio Emilia. Ma le tante promesse della joint venture sino-americana non si sono mai tradotte in atti concreti.
A Scarmagno, nell’area industriale della ex Olivetti (mai nessuno che abbia chiesto conto a Debenedetti della sua distruzione), la Italvolt doveva costruire una gigafactory per la costruzione delle potenti batterie necessarie a far muovere un’auto elettrica. Qui i problemi sono stati un po’ diversi; l’area non è adeguata a sostenere le esigenze di una produzione ad alta intensità energetica come quella delle batterie. Ma l’imprenditore – Lars Carlstrom – è lo stesso di Blyth...
Insomma, tra il dire e il fare – la transizione all’auto elettrica o ad altre tecnologie produttive – c’è di mezzo un sacco di problemi, specie se continui ad affidarti all’inventiva di imprenditori comunque avidi di profitti immediati, senza un piano industriale organico, di lungo periodo e dimensioni quantomeno europee.
Ma più in generale le scelte politiche di Usa e Ue – finanziare “piani di innovazione industriale” già ora in concorrenza tra loro – sollevano domande piuttosto complesse sul futuro nell’Occidente neoliberista, che appare incapace di “cambiare modello” in piena corsa.
Se vieni da 30 anni di abbattimento degli ostacoli alle imprese (e a maggior ragione al capitale finanziario, dai fondi di investimento in giù), di demolizione delle capacità di guida economica degli Stati, di eliminazione di ogni “piano” che vada al di là del “fate come vi pare”, di moderazione salariale che riduce i consumi interni... non è per nulla semplice inventarsi strumenti efficaci per “orientare” le scelte imprenditoriali in un senso o nell’altro. Men che mai per obiettivi comuni vitali come la lotta al cambiamento climatico...
Sul tema, non a caso, si concentra una lunga analisi pubblicata su Foreign Affairs, che abbiamo velocemente tradotto. Vista l’origine, il testo è decisamente “ottimistico”, quasi esortativo nei confronti della possibile “complementarità” delle iniziative euro-atlantiche.
Ma non mancano le notazioni davvero interessanti, come quel lapidario “la globalizzazione non funziona”, che chiude definitivamente la breve era del mercato unico mondializzato e apre quella della frammentazione iper-competitiva, con sullo sfondo i conflitti armati.
O quella per cui la “frammentazione” rischia a questo punto di prodursi anche tra Europa e Usa.
Buona lettura.
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Una storia di due politiche industriali
Una storia di due politiche industriali
Come l’America e l’Europa possono trasformare le tensioni commerciali in progressi climatici
da Foreign Affairs del 26 gennaio 2023
All’inizio di questo mese, le tensioni hanno agitato gli incontri annuali del World Economic Forum di Davos. Diplomatici e dirigenti d’azienda ansiosi si sono chiesti se la Cina e gli Stati Uniti potessero attenuare il confronto e seppellire l’ascia di guerra.
Mentre continuano a sopportare una pandemia che ha sconvolto la vita quotidiana per anni, gli europei hanno affrontato le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina sotto forma di una crisi del costo della vita senza precedenti.
Ma il forum è stato anche testimone di un confronto più sorprendente. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si sono trovati in disaccordo sulla recente legislazione economica statunitense.
I politici europei hanno avvicinato il senatore Joe Manchin, democratico della Virginia Occidentale, per il suo ruolo nel finalizzare l’Inflation Reduction Act del presidente americano Joe Biden. Oltre a espandere la capacità di riscossione delle imposte del governo federale e a dare il via libera ad alcuni controlli sui prezzi dei farmaci, l’IRA ha autorizzato almeno 369 miliardi di dollari in sussidi per progetti e prodotti di energia pulita.
Gli europei si oppongono alle clausole della legge, che impone alle aziende che ricevono molti di questi sussidi di produrre negli Stati Uniti. Manchin ha risposto rimproverando gli europei per le loro tariffe già elevate sulle automobili statunitensi e per aver privilegiato la regolamentazione e la tassazione delle industrie inquinanti rispetto agli incentivi per lo sviluppo di quelle più pulite.
Il battibecco rifletteva divisioni molto più profonde. I sostenitori dell’IRA negli Stati Uniti celebrano la legge per aver fornito investimenti pubblici per stimolare interi settori di una nuova economia verde. Le reazioni europee a questo abbraccio americano di un ruolo più proattivo del governo nell’economia sono, nel migliore dei casi, divise.
Da quando il Congresso degli Stati Uniti ha approvato l’IRA, alla fine del 2022, alcuni europei hanno lanciato l’allarme, accusando gli Stati Uniti di iniziare una nuova guerra commerciale. Questa reazione è stata un po’ sorprendente, dato che l’Europa desidera da tempo che gli Stati Uniti affrontino più seriamente il problema del cambiamento climatico.
Tuttavia, i critici europei della proposta di legge temevano che il metodo scelto da Biden per decarbonizzare l’economia statunitense avrebbe minacciato le imprese europee, già duramente colpite dalla guerra in Ucraina. A dicembre, il presidente francese Emmanuel Macron ha messo in guardia dalla perdita di posti di lavoro in Europa, affermando che l’IRA avrebbe “frammentato l’Occidente“.
Altri leader europei sono poi saliti sul carro dei vincitori. La più importante è stata la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che si è impegnata a rispondere agli sforzi degli Stati Uniti con un piano a livello europeo che incoraggerebbe la produzione e l’uso di energia pulita nel continente.
Ma questa proposta si scontra con diversi ostacoli, in quanto i Paesi più piccoli all’interno dell’UE temono che le loro aziende e i loro lavoratori non beneficino del programma e che la Germania, lo Stato membro più ricco dell’UE, non voglia sottoscrivere uno sforzo continentale. Altri, come i Paesi Bassi, si oppongono in linea di principio a maggiori spese dell’UE.
Alcuni osservatori potrebbero vedere in queste tensioni e conflitti ribollenti il declino dell’ordine economico internazionale, provocato dagli shock della presidenza di Donald Trump, dall’uscita del Regno Unito dall’UE e dall’invasione russa dell’Ucraina.
Ma il quadro non deve essere così cupo. Le democrazie su entrambe le sponde dell’Atlantico possono superare le controversie odierne, coniugando un maggiore coinvolgimento degli Stati nei mercati nazionali con nuove forme di cooperazione all’estero. Non sarà facile, ma gli europei potrebbero mantenere la promessa della von der Leyen di eguagliare il tipo di investimenti verdi a cui si sono impegnati gli Stati Uniti e i Paesi del G7 potrebbero iniziare a collaborare per la transizione verso economie verdi, dando priorità alle esigenze dei lavoratori e costruendo la resilienza economica delle democrazie alleate.
La virtù della spesa
I politici di tutto il mondo hanno imparato a proprie spese che la globalizzazione non funziona. Negli ultimi 30 anni, il tenore di vita è aumentato per molte persone, ma le disuguaglianze sono aumentate all’interno dei Paesi.
I neoliberisti immaginavano che le riforme democratiche si sarebbero diffuse sulla scia del libero scambio e che paesi come la Cina, la Russia e altri paesi autocratici sarebbero diventati più democratici e meglio integrati nell’ordine internazionale liberale. Invece, è accaduto il contrario: gli autocrati si sono rafforzati negli ultimi anni e ora cercano di rivedere l’ordine globale a loro vantaggio.
Negli Stati Uniti, in gran parte dell’Europa e anche nelle democrazie in via di sviluppo come il Brasile e l’India, le strutture democratiche sono state svuotate. Il neoliberismo ha permesso al capitale di dilagare e ha prodotto un lungo periodo di aumento delle disuguaglianze, la perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero e una crescente rabbia e polarizzazione politica che hanno alimentato e dato potere all’estrema destra ovunque.
Biden ha compreso da anni i danni provocati dallo sventramento del settore manifatturiero statunitense. Come vicepresidente, dopo la crisi finanziaria del 2008-9, è stato incaricato di guidare la ricostruzione del settore manifatturiero statunitense e la salvaguardia della classe media. Da presidente, ha cercato di utilizzare i soldi delle tasse per sostenere i prodotti senza emissioni di carbonio fabbricati negli Stati Uniti.
L’approccio riformista di Biden si basa sul lavoro di alcuni importanti accademici e ricercatori, tra cui Joseph Stiglitz, Dani Rodrik e Mariana Mazzucato. Da tempo sostengono che maggiori investimenti statali nelle capacità produttive delle economie occidentali sono fondamentali per ridurre le disuguaglianze, aumentare la resilienza delle catene di approvvigionamento e avviare la transizione energetica pulita.
Tutti concordano sul fatto che gli accordi commerciali che si limitano ad abbassare le barriere a condizioni favorevoli alle multinazionali sono nel migliore dei casi insufficienti e nel peggiore profondamente dannosi, in quanto tendono a ridistribuire il reddito verso l’alto.
Spinti dai giovani elettori e dai movimenti sociali che chiedevano un’agenda progressista per il clima, Biden e il suo team hanno abbracciato queste idee durante il ciclo elettorale del 2020, soprattutto quando si è trattato di capire come “vendere” al pubblico statunitense l’azione per il clima.
Per affrontare il cambiamento climatico, l’amministrazione Biden ha puntato meno sulla regolamentazione e più sulla spesa pubblica. Lo ha fatto in parte a causa della debolezza istituzionale degli Stati Uniti.
I difetti della democrazia americana – tra cui l’influenza debilitante delle lobby aziendali e dell’elettoralismo dell’industria dei combustibili fossili, nonché una Corte Suprema soffocata da nomine a vita che ha manifestato una crescente ostilità nei confronti della regolamentazione ambientale – hanno permesso al Partito Repubblicano di impegnarsi risolutamente a bloccare qualsiasi regolamentazione sul clima.
Grazie a questa implacabile opposizione, una politica proattiva sul cambiamento climatico può avere successo nel breve periodo solo se incentiva il settore pubblico e quello privato a cambiare il proprio comportamento, piuttosto che imporre semplicemente dei limiti a ciò che questi settori possono fare.
Insieme ad altre leggi approvate sotto l’amministrazione Biden, tra cui il Chips and Science Act del 2022 e la Bipartisan Infrastructure Law del 2021, l’IRA offre a consumatori e produttori pagamenti e incentivi per abbandonare i combustibili fossili e acquistare o produrre beni negli Stati Uniti.
Questa legislazione mira a promuovere una rinascita manifatturiera che aiuti a ricostruire le comunità degli Stati Uniti lasciate indietro dalla globalizzazione, sperando a sua volta di creare buoni posti di lavoro, alimentare industrie competitive e facilitare la completa decarbonizzazione dell’economia statunitense. L’enfasi sugli investimenti pubblici aiuta anche a guidare la politica climatica dell’amministrazione oltre gli ostacoli dell’opposizione politica.
Per evitare l’antico ostruzionismo del Senato, la legislazione sul clima deve adottare un approccio incentrato sulla spesa. La Corte Suprema, ora dominata dai conservatori, ha bocciato molte forme di regolamentazione, ma non ha mai bocciato una legge federale sulla spesa.
Una risposta europea
La nuova politica industriale americana ha trovato estimatori in Europa. Per anni, gli europei hanno pensato a sistemi di tariffazione del carbonio e a sussidi che spingessero i consumatori ad acquistare prodotti ecologici fabbricati sia in Europa che altrove. La scorsa settimana il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire ha annunciato che l’Europa “deve fare la stessa cosa” degli Stati Uniti: “Se vogliamo competere, dobbiamo avere una politica industriale molto forte, efficace e rapida“.
Allo stesso modo, le imprese e gli investitori europei hanno elogiato l’IRA per la sua ambizione e semplicità, rimproverando al contempo i politici europei per aver criticato l’IRA invece di semplificare ed espandere le proprie politiche.
L’annuncio della Von der Leyen di una politica industriale verde dell’UE è un inizio promettente. Questa nuova politica industriale avrà quattro pilastri. In primo luogo, l’Europa accelererà la diffusione dell’energia pulita accelerando i processi di autorizzazione in alcuni settori chiave, come l’energia eolica, l’energia solare, le pompe di calore e l’idrogeno pulito.
Il secondo pilastro è quello finanziario, con una serie di nuovi sussidi e modifiche normative che consentiranno agli Stati membri di sostenere i produttori nazionali senza incorrere nelle restrizioni di spesa dell’UE. Gli Stati membri meno ricchi possono attingere a un Fondo europeo per la sovranità per ottenere ulteriori risorse.
Il terzo e il quarto punto della proposta di Von der Leyen sono il miglioramento della formazione dei lavoratori e le misure per proteggere l’Europa da quelle che considera pratiche commerciali cinesi sleali.
Si tratta di segnali incoraggianti. Una nuova era di investimenti pubblici può rendere il progresso climatico fattibile sia in termini politici che logistici.
Negli Stati Uniti, almeno 44 Stati e 141 distretti congressuali dispongono già di strutture che producono o potrebbero produrre beni per le catene di approvvigionamento di energia verde. Con un totale di 50 Stati e 435 distretti congressuali, gli Stati Uniti sono già sulla buona strada per trovare una base per un sostegno bipartisan all’azione per l’energia pulita in entrambe le camere.
L’Europa desidera da tempo un alleato affidabile negli Stati Uniti in materia di clima. Se i benefici dell’energia verde e i posti di lavoro verdi diventeranno parte dell’economia degli Stati Uniti rossi e viola, così come di quelli blu, la politica climatica americana si stabilizzerà anche quando uno dei due principali partiti politici negherà la realtà del cambiamento climatico. In Europa, il passaggio a una maggiore centralizzazione dei finanziamenti comunitari eliminerà uno dei principali ostacoli all’azione da parte europea.
Una nuova era di investimenti pubblici può rendere possibile il progresso climatico
Contrariamente ai timori europei, l’IRA potrebbe favorire le imprese e i lavoratori europei. La spinta di Biden al “Make in America” non richiede che i prodotti siano realizzati in America da aziende americane. La catena di approvvigionamento dei prodotti energetici puliti negli Stati Uniti è composta da aziende di oltre 20 Paesi, tra cui molte filiali europee negli Stati Uniti; queste aziende e altre potranno beneficiare dei nuovi crediti d’imposta dell’IRA e avranno nuove opportunità di crescita.
La nuova legislazione europea può fare lo stesso per le aziende statunitensi che operano in Europa. Questi benefici possono estendersi anche ai lavoratori. La ricerca economica suggerisce che alcuni investimenti diretti all’estero possono contribuire ad alimentare la creazione di posti di lavoro in patria, ad esempio quando le aziende realizzano economie di scala che generano entrate che possono essere condivise con i lavoratori. E più in generale, politiche industriali solide e finanziate con fondi pubblici andranno a vantaggio dei lavoratori europei, consentendo una maggiore influenza democratica sulla struttura dei mercati che altrimenti operano solo con l’interesse di massimizzare i profitti.
L’Europa e gli Stati Uniti possono aiutarsi a vicenda nell’attuazione delle rispettive politiche industriali verdi. In entrambi i paesi potrebbero essere sviluppate nuove regole per sostenere queste politiche. Si pensi all’Accordo globale sull’acciaio e l’alluminio sostenibili, un accordo attualmente in fase di sviluppo.
Questa iniziativa congiunta USA-UE promette di sfruttare le dimensioni del mercato transatlantico per premiare i produttori di metalli che riducono o eliminano le emissioni di carbonio e penalizzare quelli che non lo fanno. I produttori di acciaio degli Stati Uniti e dell’UE sono più puliti della media mondiale, quindi questo nuovo accordo premierà le loro aziende e i loro lavoratori.
A dicembre, gli Stati Uniti hanno condiviso con l’UE una prima bozza di un accordo globale “ad alta ambizione” che prevede l’imposizione di tariffe sui prodotti provenienti dalla Cina e da altri Paesi realizzati con elevati livelli di carbonio. L’UE ha risposto con entusiasmo ed entrambe le parti dovrebbero lavorare per finalizzare questo accordo nel 2023.
L’Europa dovrebbe abbracciare questa iniziativa per il bene dei propri esportatori e produttori, e gli Stati Uniti e l’UE dovrebbero lavorare per replicare questo modello in altri settori ad alta intensità di carbonio, magari attraverso tariffe congiunte sul carbonio per una gamma più ampia di prodotti.
Alcune di queste misure potrebbero essere contrarie alle regole commerciali dell’OMC, che vietano di trattare i produttori stranieri in modo meno favorevole rispetto a quelli nazionali. Ma o l’OMC si adegua o la sua intransigenza alimenterà ulteriori richieste e pressioni per una riforma radicale dell’organismo.
Meglio insieme
Il fatto che gli Stati Uniti e l’UE abbraccino un autentico sforzo di collaborazione o si trovino in una corsa competitiva al vertice dipende in parte dal fatto che gli europei raccolgano il ramoscello d’ulivo di Washington e accettino l’insistenza dei politici statunitensi sul fatto che non stanno guidando il Paese verso l’isolazionismo.
Dato che settori come l’idrogeno verde e l’energia eolica offshore galleggiante sono ancora agli inizi, i mercati sono lontani dall’essere inondati da troppi prodotti verdi. Gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero fare una “pace verde” sui sussidi, accettando piuttosto che guerreggiare sui rispettivi programmi fino a quando le industrie a zero emissioni di carbonio non raggiungeranno la portata e l’ambito necessari per soddisfare la domanda dei consumatori.
La task force congiunta USA-UE istituita lo scorso anno per risolvere le divergenze dovrebbe orientare le discussioni in questa direzione. Se alcuni paesi chiave del G7 e dell’OCSE saranno d’accordo, questo sforzo potrebbe anche essere portato al livello dell’OMC.
Per essere competitiva, tuttavia, l’Europa dovrà continuare a compiere i suoi ardui progressi verso la raccolta e l’erogazione di fondi a livello continentale. Gli individui e i Paesi ricchi devono assumersi la loro parte di oneri e garantire agli Stati membri a basso reddito i fondi di cui hanno bisogno.
È fondamentale che qualsiasi consenso internazionale sul clima e sul commercio incentivi pratiche di lavoro e di produzione eque e fornisca finanziamenti ai Paesi poveri e in via di sviluppo del mondo. Se gli Stati Uniti e i loro alleati europei raggiungono una pace verde sui sussidi e sulle tariffe per il carbonio, devono tenere conto degli incentivi economici e della sensibilizzazione politica nei confronti dei Paesi al di fuori del G7.
A questo proposito, l’impegno preso all’ultimo vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima di fornire maggiori fondi ai Paesi in via di sviluppo è un cambiamento gradito.
La visione dell’amministrazione Biden è lodevole. Lasciate ai capricci del mercato, le tecnologie e l’energia verdi probabilmente non crescerebbero con la rapidità e la scala necessarie per combattere in modo significativo il cambiamento climatico.
Washington sta cercando di creare un’economia globale che differisce in modo importante da quella che prevaleva prima della pandemia: un’economia che utilizza meno carbonio, più dinamica e più equa.
Gli investimenti governativi sono necessari per orientare il settore privato e per far uscire l’intera economia mondiale dalla stagnazione secolare e dall’aumento delle disuguaglianze che hanno afflitto gran parte degli ultimi due decenni. Ma gli Stati Uniti non possono organizzare questo cambiamento da soli.
Far salire a bordo l’Europa sarà un primo passo fondamentale per forgiare un ordine internazionale più forte e, in ultima analisi, per decarbonizzare il mondo.
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