Sei mesi lassù bastano per logorare un insieme di nostalgici sbandati con scarse cognizioni sui compiti di un governo e senza alcuna visione, almeno di medio periodo.
Accantonate senza gloria le sparate securitarie (i rave, gli anarchici, ecc.), pressoché archiviati i tentativi di buttarla sulla negazione di diritti civili scontati (riconoscimento dei figli, matrimoni, ecc.), sommersi dai naufraghi che si diceva potessero essere fermati col “blocco navale” o “impedendo le partenze”, ora si vede chiaro e tondo che l’ostacolo vero è il PNRR. Ossia il governo dell’economia sotto il controllo occhiuto della UE.
Come si era del resto facilmente previsto già sei mesi fa...
Nonostante il crono-programma e le misure relative fossero state già scritte dall’Unione Europea e supervisionate nientepopodimeno che da Mario Draghi, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni non riesce sul piano meramente esecutivo a fare granché.
I dati parlano di solo il 6% dei progetti previsti che hanno almeno tagliato il nastro di partenza, mentre all’arrivo ce n’è solo l’1%. Impossibile coprire la voragine con la solita tiritera di menzogne studiate dagli spin doctor (ormai spremuti al punto da sembrare John Belushi...), specie davanti alla Commissione Europea che, nella sua immensa crudeltà “austera”, comunque sa di cosa si sta parlando.
Sono almeno tre i versanti di possibile crisi che stanno circondando il governo Meloni.
Il primo, e forse più facile da risolvere, riguarda le nomine nelle grandi aziende partecipate dallo Stato. Qui il gioco è leggibile in base al solito manuale Cencelli di democristiana memoria, appena complicato dalla necessità di trovare qualcuno che non sia impantanato nella sua pochezza come il “capo” scelto per Tre I, e soprattutto dagli appetiti di una Lega risollevata dai risultati delle regionali in Friuli.
Resurrezione salviniana in fondo alla base anche dei dubbi sulla possibilità di mantenere gli impegni presi con la UE proprio sul PNRR. Aveva cominciato il ministro per gli affari europei, Raffaele Fitto, a dire che era impossibile rispettare i tempi previsti.
Ieri ci si è aggiunto il capogruppo leghista e salviniano di ferro, Riccardo Molinari, che ha proposto di rinunciare ad una parte dei fondi europei (per la parte “in prestito”, mantenendo solo quelli “a fondo perduto”), trincerandosi dietro giochi di parole: «Ha senso indebitarsi con l’Ue per fare cose che non servono?».
Inutile dire che da Palazzo Chigi hanno fatto subito sentire la propria voce, necessaria se non altro per rassicurare i superiori di Bruxelles.
Ma ormai il problema è sul tavolo, non si può rimettere sotto il tappeto. E infatti fioccano le indiscrezioni su quali progetti sarebbero rinviabili, secondo i leghisti (e non solo loro, pare): il raddoppio delle ferrovie Orte-Falconara e Roma-Pescara, la “riqualificazione degli asili nido” e la piantumazione di milioni di alberi, le borse di studio per i dottorati di ricerca in “materie innovative”, ecc.
La “qualità” – si fa per dire – della risposta meloniana è misurabile in quella ridicola proposta del “liceo per il made in Italy”, che però chiarisce bene il tipo di scuola superiore che abita la testa dei post-fascisti: tutta una serie di “istituti tecnici” per sfornare aspiranti lavoratori pronti da mandare nelle fabbrichette.
Stando così le cose, è inevitabile che ai “piani alti” siano preoccupati e che, quindi, si comincino a muovere i primi passi per una correzione in corsa. Che, detto brutalmente, metterebbe in discussione il governo Meloni o comunque la sua attuale composizione.
Le voci sulla visita al Quirinale da parte di Mario Draghi e Paolo Gentiloni sono state così insistenti da rendere necessaria una curiosa smentita da parte dell’ufficio stampa di Mattarella. Curiosa perché di fatto è sembrata una conferma, anche se con date diverse (e precedenti) a quelle segnalate dai rumors.
Qualcuno davvero pensava che un governo così malmesso potesse davvero durare cinque anni?
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