Domenica l’Opec+, il cartello dei produttori di petrolio con l’aggiunta della Russia e altri nove grandi paesi al centro del mercato dell’oro nero, ha deciso un netto taglio alla produzione. Più di un milione di barili in meno al giorno da maggio alla fine dell’anno, quasi la metà in carico all’Arabia Saudita.
A questo taglio si associa quello di mezzo milione di barili già deciso dalla Russia da marzo fino a giugno, ora allungato fino alla conclusione del 2023. In totale si parla di quantità equivalenti al 3,7% della domanda globale.
I prezzi hanno subito una forte e prevedibile impennata. Il greggio Brent aveva da poco toccato il minimo da 15 mesi a questa parte, mentre ora è tornato ai livelli di inizio marzo. Un aumento significativo c’è stato anche per i prodotti della raffinazione e per il gas, in rialzo dell’8%.
Questo cambio di politica, non prevista dai mercati, secondo Bloomberg si è andata definendosi a partire dal 20 marzo. Una tale mossa è stata fatta in maniera esplicita contro i venditori allo scoperto, che scommettevano sul calo dei prezzi del petrolio in concomitanza con la crisi del settore bancario.
Lo schizzare in alto dei prezzi arriva nel pieno della lotta all’inflazione, su cui i costi dell’energia hanno avuto un ruolo determinante, soprattutto in Europa. La preoccupazione per una possibile recessione in Occidente, prima e più a lungo di quanto si potesse pensare, si va dunque rafforzando.
La critica di Washington sembra scivolare addosso al principe saudita Bin Salman, che pare abbia affermato già dalla fine dello scorso anno che non ha più interesse a compiacere gli Stati Uniti. Inoltre, oggi si incontrano a Pechino i ministri degli Esteri dell’Arabia Saudita e dell’Iran.
Intanto, questo taglio arriva in un momento in cui intorno al petrolio si può vedere l’accelerazione del passaggio a un mondo multipolare. Il 29 marzo è stato annunciato un accordo con il quale la russa Rosfnet venderà petrolio alla Indian Oil Company usando l’asiatico price benchmark dal nome Dubai.
Ma anche all’interno della santa alleanza dei paesi occidentali contro la «giungla» esterna ogni tanto compare qualche crepa. È lo stesso Wall Street Journal a dirlo, commentando la decisione del Giappone di comprare i barili russi oltre il price cap fissato dal G7, pur avendo presente il benestare di Washington.
Ma ancora più epocale è l’accordo della Total francese per l’acquisto di GNL in yuan, dal più grande operatore cinese del settore. Questo evento si pone in scia con l’intesa per l’utilizzo della moneta cinese nella compravendita di petrolio tra il Dragone e Riyad.
Lo yuan è la quinta valuta per pagamenti internazionali (7% del mercato globale), con un repentino aumento negli ultimi tre anni. I progetti pilota della sua versione digitale, con cui sono avvenute transazioni per 300 milioni di dollari, sono un ulteriore tassello dello smottamento del monopolio mondiale della moneta statunitense.
Questo processo ha avuto ulteriori spinte proprio in questi giorni. I vertici economici dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico si sono da poco riuniti per discutere come ridurre la dipende dal dollaro, mentre Cina e Malesia sono tornate a discutere di un Asian Monetary Fund, con lo stesso scopo.
Quando questo agosto si terrà in Sudafrica il prossimo incontro dei BRICS, le cui fila si vanno allargando, potrebbe essere sul tavolo la creazione di una valuta comune. La storia corre, e il senso di marcia è quello di un mondo multipolare, in cui l’opportunità di costruire un’alternativa al dominio euroatlantico si fa raggiungibile. Nessun interessato perda il treno.
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