L’assalto del governo americano al popolare “social” cinese TikTok è ripartito a pieno regime in questi ultimi giorni con l’udienza alla Camera dei Rappresentanti di Washington dell’amministratore delegato Shou Zi Chew e la discussione al Congresso di alcune proposte di legge per limitare l’utilizzo dell’app negli Stati Uniti. La pericolosità di questo strumento, che viene senza alcuna prova associato al governo di Pechino, sembra essere ampiamente sopravvalutata, ma la campagna in corso ai limiti dell’isteria ha almeno due obiettivi ben precisi: alimentare il clima di caccia alle streghe contro la “minaccia” cinese e rafforzare il potere di censura e controllo della rete nelle mani del governo americano.
I vari membri della commissione Commercio della camera bassa del parlamento USA intendevano con ogni probabilità mettere alle strette il numero uno di TikTok, dimostrando la pericolosità di un “social” bollato come strumento del Partito Comunista Cinese. Quello che è emerso dall’evento, oltre alla pacatezza con cui Shou Zi Chew ha controbattuto a domande e provocazioni, è stata piuttosto la sostanziale ignoranza dei deputati sul funzionamento del “social” incriminato e di internet in generale.
Non solo, le denunce feroci nei confronti di TikTok hanno finito per evidenziare l’ipocrisia che come sempre contraddistingue le finte crociate della classe politica americana. Se il merito delle imputazioni sollevate per TikTok può essere considerato in parte legittimo, è ancora di più vero che le potenzialità maligne del “social” cinese si ritrovano moltiplicate in strumenti simili ma ancora più diffusi a livello planetario e, soprattutto, di proprietà di soggetti americani, come Google, Facebook, Instagram o Twitter.
Per i politici americani, dunque, TikTok funzionerebbe come una sorta di programma di “sorveglianza di massa” in grado di intercettare i dati personali dei suoi 150 milioni di utenti negli Stati Uniti. Informazioni sanitarie o sui movimenti degli utilizzatori sono tra quelle più sensibili su cui il “social” metterebbe le mani. Il tutto, almeno potenzialmente, nella disponibilità delle autorità della Repubblica Popolare Cinese.
Gli interventi dei deputati americani fanno parte di una campagna coordinata che già l’amministrazione Trump aveva inaugurato qualche anno fa, nel tentativo di bandire il “social” cinese dagli Stati Uniti. I vertici delle principali agenzie della sicurezza nazionale USA hanno a loro volta suonato l’allarme su TikTok. A inizio di questa settimana, ad esempio, il numero uno della cyber-sicurezza per la NSA, Rob Joyce, ha definito il “social” come un “cavallo di Troia” della Cina, utilizzato da Pechino per raccogliere informazioni sugli americani. Secondo Joyce, il governo americano dovrebbe tenere sotto stretto controllo le attività della compagnia che ne detiene la proprietà – la cinese ByteDance – in modo da evitare futuri problemi legati alla sicurezza.
Lo scorso novembre era stato invece il direttore dell’FBI, Christopher Wray, ad avvertire che Pechino poteva sfruttare TikTok per operazioni di spionaggio o, addirittura, per prendere il controllo degli smarthpone su cui è installata l’applicazione. Poco più tardi, l’uso del “social” cinese era stato vietato sui dispositivi aziendali dei dipendenti del governo federale e di una ventina di amministrazioni statali.
Fermo restando che il controllo del governo cinese delle informazioni a cui TikTok potrebbe potenzialmente avere accesso non è stato per ora in nessun modo dimostrato, è evidente che la facoltà di raccogliere informazioni di massa a livello globale è in primo luogo una caratteristica di siti, motori di ricerca e “social network” ideati e di stanza in America. Questi ultimi collaborano oltretutto regolarmente con il governo di Washington, consegnando su richiesta dati ultra-sensibili dei loro utenti, quasi sempre a loro insaputa.
L’uso dei “social” come strumento di propaganda o di controllo dell’informazione è un’altra prerogativa dell’apparato di potere USA. Proprio negli ultimi mesi, Elon Musk ha favorito la pubblicazione in varie tranches dei cosiddetti “Twitter Files”, ovvero trascrizioni di e-mail e comunicazioni varie tra i vertici di Twitter ed esponenti del governo che confermavano come fosse applicata una censura di fatto delle notizie da diffondere tra gli utenti del “social” con sede a San Francisco. Com’è ormai noto, risalgono poi al 2013 le prime rivelazioni di Edward Snowden sulle attività della NSA, impegnata a monitorare virtualmente tutte le comunicazioni elettroniche che avvengono sul territorio americano e non solo.
Al di là del merito delle accuse contro TikTok, è indiscutibile che il governo degli Stati Uniti sia di gran lunga il più attivo nel campo della sorveglianza digitale, del controllo/manipolazione delle informazioni e delle operazioni di propaganda su scala planetaria. Il tentativo di demonizzazione di TikTok, così da scoraggiare gli utenti americani dall’utilizzarlo, appare inoltre insensato anche da un altro punto di vista. In una realtà dove la privacy è ormai un’illusione e il monitoraggio sul web è pervasivo, non è cioè chiaro, come ha spiegato un’analisi della rivista Jacobin, per quale ragione gli utenti americani dovrebbero preoccuparsi maggiormente del controllo (presunto) esercitato dal governo cinese rispetto a quello (dimostrato) del loro governo.
Più in generale, si chiede l’articolo, la preoccupazione più grande per un americano è la “minaccia” di TikTok o “il tentacolare apparato della sicurezza nazionale post-11 settembre”? Apparato che, oltretutto, ha già mostrato le proprie potenzialità autoritarie e repressive negli ultimi due decenni. In definitiva, anche prendendo per vere le accuse rivolte al “social” cinese, si legge in un recente editoriale del sito Tech Policy Press, “TikTok non è un prodotto del comunismo cinese, bensì del capitalismo della sorveglianza americano”. Se il Congresso intende realmente risolvere le minacce insite in questa applicazione, avverte l’articolo, allora “dovrebbe vietare la ‘pubblicità targettizzata’ [da internet] e non TikTok”.
La pericolosità di TikTok è dunque un pretesto che gli Stati Uniti intendono sfruttare per aggiungere un altro tassello alla campagna anti-cinese in atto. L’atmosfera da nuova Guerra Fredda tra Washington e Pechino deve evidentemente permeare tutti gli ambiti e, nel caso del “social” di condivisione di video, si intreccia alla sfida in ambito informatico e tecnologico che da tempo infiamma i rapporti tra le prime due potenze economiche del pianeta.
L’altro aspetto legato alla crociata contro TikTok è il fermento legislativo del Congresso USA per introdurre un nuovo giro di vite sulla libertà di espressione e sul controllo della rete. Una bozza di legge è stata depositata alla Camera (“DATA Act”) e prevede una serie di iniziative decisamente estreme. Una di queste è la possibilità di congelare tutti i beni di quegli americani che “consapevolmente” trasferiscano informazioni personali sensibili a una qualsiasi entità appartenente a un soggetto cinese o semplicemente “sottoposto all’influenza” cinese.
Il testo è così generico da fare immaginare facilmente le possibili implicazioni che ne deriverebbero, tanto più se si considera che la legge dovrebbe essere applicata in qualsiasi parte del mondo. Il risultato potenziale sarebbe il divieto di fatto dell’uso di qualsiasi software di origine cinese in qualunque parte del pianeta, inclusi gli stessi paesi alleati degli Stati Uniti.
Un secondo disegno di legge, con maggiori possibilità di essere approvato, è in discussione al Senato (“RESTRICT Act”) ed è appoggiato dall’amministrazione Biden. Questo provvedimento consegnerebbe all’esecutivo ulteriori poteri di controllo sulle comunicazioni informatiche. Ad esempio, il governo sarebbe tenuto a “proibire” o “limitare” qualsiasi transazione o attività relativa all’ambito delle comunicazioni di compagnie controllate da “avversari stranieri”, se viene rilevata una minaccia alla sicurezza nazionale americana.
Potenzialmente, la legge permetterebbe al governo di vietare a qualsiasi organo straniero di possedere e operare strumenti informatici e delle comunicazioni sul mercato USA, consentendo il ricorso a metodi di censura con ampia discrezione. Sul fronte domestico, nell’ipotesi peggiore e più assurda, un utente americano potrebbe essere incriminato per il solo accesso a piattaforme di paesi ritenuti “nemici” degli Stati Uniti, come ad esempio il servizio di messaggistica cinese WeChat o, appunto, TikTok.
L’opposizione in sede politica negli Stati Uniti a questa deriva semi-totalitaria è decisamente limitata e riguarda quasi soltanto l’ala libertaria del Partito Repubblicano. Il senatore del Kentucky Rand Paul ha infatti introdotto una proposta di legge per bloccare il bando di TikTok e il corollario ultra-repressivo previsto dalle varie proposte in discussione. Il senatore repubblicano, per la sua iniziativa, fa riferimento alle protezioni del Primo Emendamento alla Costituzione americana, relativo alla libertà di parola e di stampa. L’aria che tira a Washington non promette tuttavia nulla di buono ed è probabile che, a breve e in una qualche forma, arriverà una nuova stretta in nome della lotta alla molto presunta minaccia cinese.
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