Troppo poco, troppo tardi. Non c’è altro modo di qualificare la verecondia delle parole di Emmanuel Macron di fronte alla guerra genocida che continua nella striscia di Gaza.
Prima mormora un desiderio pio, evidentemente falso: “Tutte le operazioni militari a Rafah devono cessare”. Ma contrariamente a quanto il presidente francese possa affermare laconico, è da mesi che non c’è più un posto sicuro per i palestinesi.
Chi ricorda quando il presidente Emmanuel Macron aveva dichiarato che Rafah era “una linea rossa”?
Ottenuto l’appoggio della Germania alla sua posizione, ha poi sempre indietreggiato di fronte a ogni nuova violazione da parte di Israele.
Ligio ai suoi principi, ha ricordato “il diritto di Israele a difendersi” – come se il diritto internazionale potesse concepire che qualcuno si difenda da un occupante – ma, soprattutto, ha puntato il dito contro un unico colpevole: “Hamas è responsabile di questa situazione”. La “chutzpah” israeliana viene esportata anche in Francia.
Un linguaggio vuoto
Siamo chiari: la Francia “ufficiale” è complice di quanto sta accadendo a Gaza. Giustificando il genocidio in corso in questo modo ha fornito, insieme ai membri della maggioranza e spesso dell’opposizione di destra e di estrema destra – ma a volte anche di sinistra – tutti gli argomenti utilizzati nella riabilitazione del governo di Benjamin Netanyahu.
La Francia di Emmanuel Macron non ha adottato nessuna misura concreta per fermare questa offensiva. Sanzioni economiche, misure simboliche per censurare la bandiera, il boicottaggio dello sport alla vigilia dei Giochi Olimpici, la questione delle armi: tutti questi provvedimenti valgono solo per la Russia. Di fronte a Tel Aviv, la fantasia viene a mancare.
Finora la diplomazia francese non ha ritenuto opportuno reagire all’ordine della CIG. Ci sono voluti quattro giorni e qualche altro massacro perché il Capo di Stato – e solo il Capo di Stato – menzionasse, senza commentare, la sentenza del massimo organo giudiziario internazionale, le cui decisioni sono vincolanti per gli Stati membri dell’ONU.
Per tutti tranne che per Israele, che sta violando il diritto internazionale e umanitario. Per tutti tranne che per i suoi alleati, come Stati Uniti e Francia, la cui complicità nel genocidio in corso è schiacciante.
A immagine e somiglianza dell’Eliseo, o meglio per suo volere, il Quai d’Orsay non è più l’organismo che vent’anni fa, per voce del suo ministro, fece onore alla Francia opponendosi all’invasione americana dell’Iraq in sede ONU; né l’uomo che, nel 1980, portò l’Europa a riconoscere il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e a negoziare con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, all’epoca denunciata da Israele e dagli Stati Uniti come “organizzazione terroristica”.
E adesso, nel suo ultimo comunicato stampa, si ripiega su un linguaggio vuoto: “gravità della situazione”, “indignazione”. Sembra che la Francia non sia più un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la cui credibilità Parigi sta contribuendo a minare, come ha fatto con l’UNRWA, seguendo la linea israeliana.
Ci vorrà più di qualche tardivo e puramente declamatorio appello al cessate il fuoco. Ci vorrà più di qualche voto alle Nazioni Unite sull’ammissione della Palestina, accompagnato dal rifiuto di riconoscere lo Stato palestinese; Spagna, Irlanda e Norvegia non hanno avuto questo pudore.
Ci vorrà di più del verboso comunicato del Quai d’Orsay sulla proposta del procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) di emettere mandati di cattura contro i leader israeliani e palestinesi, accompagnato da circonlocuzioni che suggeriscono che Israele stesso potrebbe occuparsi di perseguire i responsabili dei crimini commessi dal suo esercito, rendendo superflui tali mandati, quando per decenni gli alti ufficiali militari non sono mai stati puniti dalla giustizia israeliana.
Attendiamo le reazioni e le proteste di Parigi di fronte alla campagna condotta negli ultimi dieci anni per screditare il tribunale e minacciare i suoi dirigenti, appena rivelata dal quotidiano israeliano +972.
Il 22 maggio, il ministro degli Esteri francese Stéphane Séjourné ha ricevuto a Parigi Israel Katz, il suo omologo israeliano. Katz è uno dei pochi leader citati dalla CIG per aver rilasciato dichiarazioni che equivalgono a un invito al genocidio.
Il 13 ottobre 2023, Israel Katz ha dichiarato su X: “Combatteremo l’organizzazione terroristica Hamas e la distruggeremo. A tutta la popolazione civile di Gaza è stato ordinato di andarsene immediatamente. Noi vinceremo. Non riceveranno una goccia d’acqua o una sola batteria finché non lasceranno il mondo”.
Katz ha ringraziato il suo omologo francese per la sua opposizione al riconoscimento di uno Stato palestinese e per il suo rifiuto di equiparare Hamas e Israele, come aveva fatto il procuratore della Corte penale internazionale. Questa calorosa accoglienza è avvenuta in un momento in cui Israele stava intensificando i suoi massacri a Gaza, in particolare a Rafah.
Un partner securitario di prima scelta
Cosa può fare la Francia per fare pressione su Israele affinché cessi le sue operazioni nella Striscia di Gaza?
Mentre il 35% delle esportazioni israeliane è destinato all’Europa, questa possibile leva economica non viene nemmeno menzionata; non si parla di bloccare le consegne di armi, i componenti di produzione (per le quali le cifre delle esportazioni francesi rimangono poco chiare) o le munizioni; né c’è la minima intenzione di garantire il rispetto del diritto internazionale, sanzionando le aziende francesi come Carrefour o Alstom, presenti nei territori occupati.
Tel Aviv rimane anche un partner di Parigi per la sicurezza, sia per le telecamere di sorveglianza dotate di software di riconoscimento facciale che saranno utilizzate per le Olimpiadi, sia per la produzione di droni di sorveglianza, utilizzati in particolare per controllare il confine meridionale dell’Europa.
Sul piano europeo, Parigi si oppone a coloro che vogliono sospendere gli accordi di associazione con Israele, mentre nella vicina Vallonia agli aerei che trasportano armi per Israele è ora vietato il transito all’aeroporto di Liegi.
E quando gli studenti di Sciences Po, della École normale supérieure (ENS) o della École des hautes études en sciences sociales (EHESS) occupano pacificamente i locali delle loro istituzioni per chiedere la sospensione degli accordi di cooperazione con le università israeliane, spesso legate all’industria della difesa e delle armi, vengono licenziati manu militari, accusati ingiustamente di antisemitismo e di aver dato “fuoco” alla loro istituzione.
Tuttavia, solo misure concrete che facciano pagare a Israele il prezzo della sua avventura possono cambiare la strategia di sterminio di massa del suo esercito. La Francia è ora in coda al gruppo dei Paesi europei per quanto riguarda il sostegno al diritto internazionale e ai diritti dei palestinesi.
La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio richiede a tutti gli Stati firmatari di adottare misure per “prevenire il genocidio in corso”, anche quando non è in corso sul loro territorio.
Rifiutandosi di farlo, la Francia, Paese firmatario, si espone a essere perseguita per le sue mancanze. Tuttavia, vi si oppone con un assioma che tenta vigliaccamente di sfruttare il senso di colpa storico per la Shoah: “Accusare lo Stato ebraico di genocidio significa superare una soglia morale”.
Grida di rabbia a Parigi e altrove
Bisogna prendere atto dell’’immagine della Francia nei Paesi del Sud del Mondo: l’ambasciata francese a Beirut è stata presa a sassate, le grida di rabbia dei manifestanti davanti all’Istituto francese di Tunisi, la delusione dei palestinesi, un tempo così pronti a rendere omaggio al paese di De Gaulle e Jacques Chirac.
Sul fronte interno, il divario si allarga ogni giorno di più tra la linea istituzionale e una parte della popolazione che, inorridita da questo assegno in bianco concesso a Israele, si precipita in strada per gridare la propria disperazione e il proprio sgomento.
Da lunedì sera a Parigi, diverse migliaia di persone sono scese in strada in manifestazioni praticamente spontanee che si sono trasformate in cortei di rivolta in diverse zone della città. Le bandiere francesi si sono mescolate a quelle della Palestina, del Sudafrica e di Kanaky, portate dai cittadini che si sono rifiutati di permettere al loro governo e al loro presidente di legittimare quasi otto mesi di genocidio in loro nome.
In un momento in cui l’estrema destra sta prendendo d’assalto il Parlamento europeo, utilizzando ogni mezzo possibile per alimentare il senso di identità degli elettori, nostalgici della “grandeur” di un tempo, c’è solo un modo per restare dalla parte giusta della Storia: prendere una posizione concreta per fermare il primo genocidio del XXI secolo.
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