Ah, l’infanzia.
Ricordo ancora i pomeriggi a giocare a Road Rash sul buon vecchio Pentium 133 MHz,
agli esordi della mia carriera di videogiocatore. Corse clandestine di
moto con botte da orbi, sicuramente un grande inizio. Per non parlare
della colonna sonora, piena di pezzoni rock anni ’90 che all’epoca non potevo ancora apprezzare fino in fondo.
Ma i Soundgarden, quelli di Outshined e Kickstand... beh,
loro sono riusciti a rimanere impressi in modo indelebile nella mia
memoria d’infanzia e si sa, certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano.
Dieci giorni fa Superunknown, album che contiene alcuni di quei pezzoni, ha compiuto la bellezza di trent’anni di età. E non li dimostra proprio.
Conosciuti come una delle band più importanti della scena grunge degli anni ’90, i Soundgarden si sono sempre contraddistinti per un approccio più aggressivo, con riff cupi e cadenzati chiaramente ispirati ai Black Sabbath, ma con su ricamata la voce alta e graffiante di Chris Cornell,
che qualcuno (mio padre N.d.A.) ha giustamente definito l’unico degno
erede di Robert Plant. L’apice di quel suono si trova in Badmotorfinger, album che ha rappresentato la consacrazione dei quattro ragazzi di Seattle.
Superunknown, invece, è stato un disco spartiacque, che sicuramente avrà destabilizzato lo zoccolo duro dei fan di Chris Cornell e soci. Non è sorprendente: il suono heavy dei lavori precedenti è stato decisamente messo da parte per battere territori meno esplorati, toccando la psichedelia fino ad arrivare al pop.
Un chiaro esempio è il singolo per eccellenza, Black Hole Sun. Cosa dire di uno dei pezzi più iconici della musica rock anni ’90 che non sia stato già detto? Decisamente poco, se non altro che non sia neanche lontanamente il miglior brano del disco. Stesso dicasi per Spoonman, altra canzone arcinota, che ha un gran tiro ed è catchy al punto giusto con quel groove letteralmente suonato con cucchiai ed ispirato ad Artis the spoonman, altro artista in voga nella Seattle di quel periodo.
L’album si apre con Let me drown e My wave, due tipici pezzi rock anni ’90 di grande impatto, ma è con la successiva Fell on black days che sale il livello. Canzone tipicamente Cornelliana, ne rappresenta l’anima più crepuscolare e malinconica, nelle liriche come nelle musiche, ed è probabilmente una delle sue migliori interpretazioni vocali.
A momenti più heavy vicini al passato (Mailman, 4th of July) o punk (la già citata Kickstand), si associano pezzi in cui i Soundgarden riescono ad unire un sapore country a sonorità psichedeliche in un mix tanto inusuale quanto personale e riuscito (Head Down, Half).
Gli arrangiamenti sono più ricercati ed elaborati che in passato (Superunknown, The day I tried to live o la meravigliosa Limo wreck), andando a rafforzare ancora di più il contrasto tra vecchio e nuovo che c’è in questo disco e, ancora di più nel successivo Down on the upside, che però non riuscirà, almeno a parere di chi scrive, a bissarne il successo qualitativo. Qualcuno (stavolta non ricordo chi N.d.A.) ha scritto che i Soundgarden fossero diventati in quel momento un po’ come “i Black Sabbath che suonano i Beatles” e trovo che sia una definizione piuttosto azzeccata, per quanto sottovaluti una componente molto personale della band che la fa brillare di luce propria.
Anche la produzione è un piccolo miracolo di compromesso: decisamente più ripulita che in passato, ma riesce a non snaturare o plastificare troppo la musica della band, evitando l’alone di suono grunge tipicamente del periodo e risultando fresca ancora oggi.
Superunknown è stato, a detta dello stesso Cornell, il primo album in cui abbia lasciato maggiormente il timone compositivo agli altri membri della band e, nonostante questo, è stato anche l’inizio della fine dei Soundgarden, divisi tra la voglia di esplorare nuovi lidi e sonorità sempre più morbide del frontman, in contrasto con l’anima più legata al sound tradizionale del resto del gruppo.
Ma probabilmente è proprio questo contrasto, come spesso accade, a regalare le opere d’arte migliori.
La compattezza ritmica di Matt Cameron alla batteria e Ben Shepard al
basso sorreggono alla grande i riff più istrionici ed i soli di chitarra
sloppy e caotici di Kim Thayil.
Ma è Chris Cornell quello sugli scudi. Con il suo
timbro caratteristico e graffiante, riconoscibile tra mille, regala una
prestazione magistrale e sofferta, soprattutto nei pezzi più intimi e
cupi, come la già citata Fell on black days, che racconta la depressione che gli toglierà la vita diversi anni più tardi.
Definire Superunknown uno dei migliori album grunge sarebbe allo stesso tempo sbagliato e riduttivo.
Sbagliato perché è un album che le sonorità grunge se le è messe
decisamente alle spalle, riduttivo perché un disco del genere non può
risaltare solo all’interno di una corrente musicale e rappresenta la summa di tutti gli elementi che hanno reso Cornell e compagni un pezzo di storia della musica contemporanea.
E se ne possono dire tante... Chris calante dal vivo, Kim Thayil sporco e rumoroso e chi più ne ha, più ne metta. Ma quando i quattro ragazzi di Seattle ci si mettevano, la magia era inevitabile. E lo è ancora oggi, trent’anni dopo.
PS: nel caso non fosse chiaro, dal 18 Maggio 2017 sono un po’ in lutto.
E non sembra destinato a finire.
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