Giorgia Meloni ha visitato la Cina e ha incontrato Xi Jinping, in un viaggio che è durato molto più a lungo di quanto inizialmente previsto. Quello che doveva essere un tour di due giorni si è poi deciso di farlo cominciare sabato per farlo finire ieri, dopo un passaggio a Shangai.
Il vertice di Palazzo Chigi ha deciso di usare la figura di Marco Polo per raccontare la funzione della sua visita. Ha così presenziato all’inaugurazione della mostra sul mercante veneziano, al Millennium Museum di Pechino, dicendo che vuole tenere aperta la strada che unisce Italia e Cina.
Infatti, era da cinque anni che un capo di governo non si recava nel paese del Dragone, e l’ultima volta era stato Conte, che aveva posto la firma sul memorandum per la Nuova Via della Seta.
La Meloni ne ha fatto uscire il paese alla fine dello scorso anno, ma il dialogo con Pechino è rimasto importante, come conferma anche la recente visita di Urso.
L’Italia in questo momento si muove sul filo tra promozione di interessi economici e ostilità geopolitica. In una complessa serie di mosse politiche che non possono essere ridotte a una semplice dicotomia tra fame di investimenti cinesi e innalzamento della pressione militare su quello che è considerato un avversario strategico.
Roma ha votato a favore dei dazi sulle auto elettriche cinesi, salvo poi mandare Urso a parlare direttamente con le case produttrici. Il governo cerca una leva di pressione su Stellantis – pronta ad assemblare le vetture di Leapmotor in Polonia – e allo stesso di tempo di attirare investimenti per la produzione in loco, così da garantirsi uno spazio meno marginale nella filiera di settore.
Meloni e compagnia, già al momento dell’uscita dalla Belt and Road Initiative, avevano dichiarato che non avrebbero però trascurato le relazioni bilaterali (perché non ne potrebbero fare a meno). Insieme al primo ministro cinese Li Qiang, la capa del governo nostrano ha aperto il settimo business forum Italia-Cina.
Con Qiang è stato firmato un piano triennale di cooperazione, dalla sicurezza alimentare all’istruzione. I dossier economici sono di certo i più importanti, con la volontà espressa dalla Meloni di bilanciare il divario tra import ed export (47,5 contro 19 miliardi), facendo un riferimento velato anche ai dazi: “se vogliamo un mercato libero, quel mercato deve essere anche equo”.
I due capi di governo hanno firmato un memorandum proprio sulla mobilità elettrica e sulle rinnovabili. E hanno parlato anche di Intelligenza Artificiale, automazione, condivisione di tecnologie, e sullo sfondo è sempre rimasto il nodo degli investimenti diretti reciproci.
Per il nostro paese sono pari a 15 miliardi di euro, con oltre 1.300 aziende italiane attive in Cina. Gli investimenti di quest’ultima in Italia si sono invece fermati a 2,7 miliardi nel 2023, con un rapporto della società Kpmg che parlava di operazioni ridotte a un terzo di quelle del 2017.
Diplomatici cinesi hanno lamentato che questo minore interesse a impegnarsi nel Bel Paese deriva dalla penalizzazione provata per una serie di applicazioni del Golden Power, il potere di veto all’acquisizione della maggioranza di imprese considerate di interesse nazionale.
Ovviamente, Meloni esalta il libero mercato quando viene comodo a lei, mentre Roma, come farebbe qualsiasi paese, impone il controllo politico sui settori strategici (anche se non ovviamente in favore della collettività, ma di pochi gruppi imprenditoriali). Difficile immaginarlo equo un mercato così, tanto più di fronte alla quantità di sanzioni imposte a Pechino.
Ma Meloni è andata in Cina anche come agente dell’imperialismo euroatlantico, e quindi della sua scelta di imboccare la strada dello scontro con il mondo multipolare.
Oltre alla riforma dell’ONU e del suo Consiglio di Sicurezza, costruito in un’epoca che non esiste più, l’incontro con Xi Jinping ha toccato le questioni Russia e Medio Oriente.
Riguardo alla prima, Meloni ha ribadito al presidente cinese che il desiderio occidentale è che Pechino non sostenga in alcun modo lo sforzo industriale russo che, in un qualche modo, può aver effetto sulla guerra.
Mentre per la questione palestinese si è concentrata su Hezbollah, e sulle pressioni che vorrebbe che la Cina facesse attraverso l’Iran sull’organizzazione libanese, per fermare gli attacchi a Israele.
Una serie di pretese che rimandano all’idea di una “alleanza del male” di cui Xi Jinping è il massimo esponente, quando l’origine del problema è il genocidio perpetrato da Tel Aviv e il sostegno diplomatico e militare fornito dall’Occidente a Israele. Un copione già sentito, anche dai cinesi.
I quali, però, qualche utilità da questa visita, richiesta dallo stesso Li Qiang, devono pure averla immaginata. Del resto, Giorgia Meloni ha la presidenza di turno al G7, ed entro ottobre a Bruxelles ci si dovrà esprimere in via definitiva sui dazi da poco imposti dalla UE: come sempre, a Pechino guardano alla concretezza delle cose.
L’impressione è che la guida di Fratelli d’Italia sia voluta andare in Cina per sventolare un peso internazionale che in molti davano per sminuito dopo la diatriba sull’elezione della von der Leyen.
La figura che ha fatto è quella di un capo di governo col cappello in mano, che ha pure il coraggio di voler dettare legge alla seconda potenza mondiale. Non esattamente il profilo di un grande statista.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento