“Quando correvo non ho fatto solo uso di doping. Ho preso anche altra merda: tiravo cocaina per dimagrire, specie in inverno quando è facile mettere su qualche chilo di troppo; mi impasticcavo di anfetamine per fare super allenamenti di molte ore”. Quella dell’ex ciclista professionista Graziano Gasparre (leggi la scheda sulla sua carriera)
è una confessione choc. La prima senza i filtri della televisione o
degli avvocati. Perché dopo anni di droghe e di veleni il fisico
presenta il conto. Tumore alla natica. Per i medici la causa potrebbe
esser stata il doping. Intervento chirurgico ed esami di laboratorio.
Gasparre è salvo, ma ha avuto paura. E ha deciso di parlare. Senza paracadute e in esclusiva a ilfattoquotidiano.it.
Perché racconta tutto proprio ora?
Per
il bene del ciclismo, perché la mia testimonianza possa aiutare gli
altri a non rovinarsi la vita per una stupida soddisfazione personale. A
me è stato asportato un frammento nodulare di quasi 4 cm. L’operazione è
perfettamente riuscita, ora sto bene e nei giorni scorsi ho ricevuto i
risultati dell’esame istologico: il tumore era benigno.
Per
il chirurgo che ha eseguito l’intervento potrebbe essersi trattato di
un effetto collaterale del doping di cui ha abusato per anni.
Esatto:
la formazione è cresciuta proprio nel punto in cui ho fatto tantissime
iniezioni intramuscolari, il mio corpo non è riuscito ad assorbire
quelle schifezze.
Di che schifezze stiamo parlando?
L’epo,
ovviamente; ma anche Gh (l’ormone della crescita) e testosterone. Ma è
quello che fanno un po’ tutti i corridori professionisti, né più né
meno. Avevo un preparatore, da cui andavo un paio di volte al mese, e
insieme alla tabella di allenamento mi somministrava anche i farmaci.
Una preparazione mirata alle gare più importanti della stagione, nulla
di eccezionale nel ciclismo.
Si dice che i ciclisti inizino a drogarsi sin da giovanissimi. E’ vero?
Da
dilettante, quando andavo fortissimo, ero pulito: non posso dire che
corressi a pane e acqua, perché tra vitamine e integratori c’è sempre
una forte componente farmaceutica, ma niente doping. Ho cominciato
quando ho lasciato la Mapei, con la squadra con cui ho corso la
Milano-Sanremo e il Giro d’Italia (il nome non lo fa, ma si tratta della
De Nardi-Colpack, in cui hanno militato alcuni pezzi da novanta del
ciclismo – Honcar e Visconti su tutti – che negli anni successivi hanno
avuto problemi con il doping, nda). In quei due anni ho fatto uso di
sostanze illecite in maniera programmatica.
Come fa un corridore a procurarsi le sostanze illecite?
Fu
un’idea che venne di comune accordo a me e alla squadra. Quando vedi
sfrecciarti davanti corridori che hai sempre battuto, cominci a farti
delle domande. Chiedevo ai miei manager se andassi piano e loro mi
rispondevano di no, che avevo solo bisogno di un aiutino. Uno dei
dirigenti della squadra mi propose: “Perché non proviamo a fare
qualcosina?”. Fu lui a indicarmi il nome di un dottore da cui andare.
Provammo e cominciai a volare. Da allora, finché ho corso per quella
squadra, non ho più smesso.
Quindi la dirigenza della squadra era a conoscenza del doping?
Certo
che sapevano! Ma la responsabilità è tutta dei corridori: il dottore
era a carico mio, anche se erano stati loro ad indicarmelo, ero io a
pagare profumatamente le sue prestazioni e le sostanze. E questo perché
se poi ti pizzicano loro devono uscirne puliti: si scandalizzano, ti
licenziano pure. Funziona così.
Sono le società a organizzare ‘collettivamente’ le assunzioni di sostanze vietate?
A parte i casi di doping di squadra, di solito ognuno se la vede da solo.
Non so, per esempio, se come me anche i miei compagni di allora si
dopassero. Ma dal preparatore che frequentavo ho incontrato spesso altri
ciclisti. Il dottore ci fissava gli appuntamenti in maniera che noi
ciclisti non ci incontrassimo. “Per rispettare la privacy” ci
rassicurava. Ma nel corso di quei due tre anni avrò incontrato una
decina di ciclisti: pezzi da novanta del ciclismo italiano, gente che ha
vinto tappe al Giro d’Italia o prove di Coppa del Mondo, alcuni sono
ancora in attività. Adesso non me la sento di dire chi sono: ci
sarebbero delle ovvie conseguenze, anche legali, e in questo momento io
devo pensare innanzitutto alla mia salute. Quando tutto sarà finito,
farò anche i nomi.
Due anni di doping ‘programmato’ e nessuna positività ai controlli. Come è possibile?
C’è
poco da sorprendersi. Il medico che mi seguiva era bravo, programmava i
trattamenti in modo da non incappare in questo genere di problemi:
assumevo il doping soprattutto in inverno, ed arrivavo in primavera
pulito e al massimo della forma. E i controlli non sono poi così
efficaci: quelli regolari vengono elusi in questa maniera, quelli a
sorpresa spesso non sono davvero a sorpresa…
Significa che i corridori vengono avvisati?
Non
è raro che arrivi la ‘soffiata’. Ricordo un episodio in particolare:
nel 2006 avevo vinto una tappa di una corsa italiana importante e
ricevetti una telefonata da un mio ex compagno di squadra, che mi disse
che il giorno dopo ci sarebbero stati dei test a sorpresa. Era vero. Io
quella volta stavo tranquillo, ero pulito. Ma se non lo fossi stato
avrei potuto salvarmi. Cosa che sicuramente avranno fatto altri.
La lotta al doping senza quartiere condotta dall’Uci è solo una messa in scena?
Non
so se il pesce puzzi dalla testa, o siano solo alcuni ispettori Uci ad
essere conniventi. Di certo ci sono troppi interessi in ballo, che
legano squadre, case farmaceutiche, dirigenti. Per fare un piccolo
esempio, sono quasi certo che il manager che mi fece il nome del medico
da cui mi dopavo, avesse una percentuale sulla sua parcella: più
corridori gli portava, più soldi facevano. La verità è che il doping è
un business, a molti fa comodo che resti in piedi.
Ma c’è qualche mosca bianca o i ciclisti sono davvero tutti dopati?
E’
difficile dirlo. Sicuramente c’è ancora chi crede in uno sport pulito:
incontrare le persone giuste può fare la differenza. Penso a dirigenti
seri, come Giorgio Squinzi, il patron della Mapei. O Ivano Fanini, che
mi diede una chance dopo l’infortunio. Ivano una volta mi mise
addirittura le mani addosso, quando sospettava che mi dopassi: ma ero
pulito, glielo dimostrai e facemmo pace. Con Ivano siamo rimasti
legatissimi, è una delle persone che più mi è stata vicina in questo
periodo difficile. Ma purtroppo sono delle eccezioni. Anche alla Mapei,
nonostante tutti i controlli del professor Sassi, ci sono stati dei casi
di positività. Per questo credo che almeno il 90% dei corridori
professionisti faccia uso di doping: si dopano i capitani per vincere e i
gregari per aiutarli. Nessuno si salva da questo sistema.
E non c’è nessuno che si ribella perché vinto dal rimorso?
Io
non ho mai avuto rimorsi. Quando vai forte ti senti bene, ti dimentichi
di tutto. E’ come andare giù in discesa a 90 all’ora, l’adrenalina
cancella la paura: quando finisci di correre e sei sotto la doccia
magari ci pensi, ma il giorno dopo rifai tutto da capo. Anche perché non
mi sentivo un dopato, non avevo sensi di colpa: mi comportavo come
tutti gli altri, lo facevo solo per competere ad armi pari. Una volta
che cominci e che vedi gli effetti, è difficile uscirne: temi di andare
piano, di restare senza contratto. Chi non l’ha provato probabilmente
non può capire. La squadra ti dà ‘solo’ un consiglio, nessuno ti obbliga
a doparti, ma quando sei in gruppo ti rendi conto che o ti adegui al
sistema o smetti di correre.
Cos’altro imponeva il sistema?
Quando
correvo io non ho fatto uso solo di doping, ho preso anche altra merda,
come cocaina e anfetamine. Nel ciclismo la droga è più diffusa di
quanto si pensi: ho cominciato su consiglio di un compagno di
allenamenti che pure lo faceva, poi è diventato un vizio che mi ha
accompagnato negli anni. E non solo per il gusto dello ‘sballo’, ma
sempre a fini professionali: tiravo per dimagrire, specie in inverno
quando è facile mettere su qualche chilo di troppo; mi impasticcavo per
fare super allenamenti di molte ore. Chi si dopa è in qualche maniera
‘predisposto’ a fare uso di stupefacenti. E pure questa diventa una
dipendenza: il vizio della cocaina mi ha accompagnato negli anni, anche
dopo il 2005. Poi sono riuscito a smettere, di botto, perché stavo
perdendo la mia famiglia, mia moglie e mio figlio, quel che ho di più
caro al mondo. E adesso c’è stato il tumore.
Ora come vive un ex dopato?
Ho
accettato di piegarmi al sistema e di drogarmi per una stupida
soddisfazione personale. Un errore che mi stava distruggendo la vita. E’
una cosa che non può succedere. Per questo oggi parlo. E spero che
qualcuno mi ascolti.
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