Daphne Leef, leader degli "indignati" israeliani, contesta il governo ma non prende posizione sulla colonizzazione che sottrae enormi risorse al paese oltre a colpire i palestinesi.
Daphne Leef qualche settimana fa ha aperto un piccolo ufficio in
un palazzo di Tel Aviv, in Via Ben Yehuda. Spoglia e disordinata, questa
unica stanza è il quartier generale della leader di J14, il movimento
degli indignados locali che due anni fa, cominciando con un campo di
tende in Viale Rothschild a Tel Aviv, riuscì in pochi giorni a
mobilitare centinaia di migliaia di israeliani stanchi del carovita, di
affitti insostenibili, di abitazioni dal costo stratosferico. Raduni e
cortei che furono segnati dal suicidio di un manifestante che si diede
fuoco come il tunisino Mohamed Bouazizi.
Il caro alloggi resta
al centro delle battaglie della 27 enne Leef, impegnata in questi giorni
a promuovere proteste contro la legge di bilancio e il ministro delle
finanze Yair Lapid, abile come molti suoi colleghi europei solo a
tagliare le spese sociali per «tenere i conti in ordine».
«Lapid
ha costruito il successo elettorale del suo partito (Yesh Atid) proprio
sulle proteste degli israeliani che chiedevano una politica economica
nuova e misure per proteggere le famiglie sempre più in affanno», ci
dice Leef che tiene a precisare la sua «distanza» dalla destra e dalla
sinistra. «Socialismo e capitalismo hanno fallito, occorre lanciare una
nuova politica, per la gente e non a beneficio dei partiti e degli
uomini di potere», proclama ripetendo slogan in voga anche dalle nostre
parti, che tradiscono una conoscenza alquanto limitata di problemi di
eccezionale importanza. Certo anche la giovane età conta, non basta il
piglio deciso che mette in mostra l'attivista israeliana.
Rispondendo alle nostre domande Leef ribadisce più volte che Lapid
è un «ingannatore che presto sarà smascherato» e che il premier
Netanyahu «porta avanti una linea totalmente sbagliata che non tiene
conto dei bisogni reali della gente». Non sa spiegarci però, se non in
termini vaghi, perché la protesta «della gente» e del movimento J14 si
sia spenta dopo le grandi manifestazioni del settembre 2011 a Tel Aviv e
in altre città. Più di tutto l'attivista israeliana evita di entrare in
quelle che definisce «le decisioni di politica estera» del governo,
ossia la linea di Netanyahu nei confronti dei palestinesi sotto
occupazione e le ricadute che essa comporta nella vita del cittadino
israeliano medio.
Eppure, facciamo notare, i miliardi di dollari
spesi a sostegno delle politiche di occupazione hanno garantito
infrastrutture e case a basso costo ai coloni insediati nella terra di
un altro popolo, sottraendo risorse fondamentali per assicurare servizi,
abitazioni e lavoro a chi ne ha più bisogno in Israele. «Non mi occupo
di politica estera, del conflitto con i palestinesi e non intendo
rispondere a domande sui negoziati e cose simili», ci dice perentoria
Leef. Ammette tuttavia che «sarebbe stato meglio» investire in Israele
le decine di miliardi di dollari spesi dal 1967 a oggi per i coloni.
L'incapacità di comprendere la vastità e la gravità del problema
della colonizzazione per le sorti non solo dei palestinesi ma anche per
il loro Paese, è alquanto diffusa tra gli israeliani «liberal», quelli
che, come Daphne Leef, proclamano che farebbero volentieri a meno
dell'occupazione. Lo conferma, ad esempio, l'assenza di reazioni
significative alla decisione presa domenica dal governo Netanyahu di
approvare una nuova mappa di aree di «priorità nazionale» che include,
nelle centinaia di località scelte, anche 20 insediamenti colonici in
Cisgiordania e comunità abitate da ex coloni di Gaza.
Con la
decisione le aree individuate sono eleggibili per ottenere aiuti
statali nei settori dell'edilizia, delle infrastrutture,
dell'educazione, della cultura e della sicurezza. Non solo ma 15 delle
20 comunità che potranno ottenere lo status di «priorità nazionale» sono
roccaforti di "Focolare Ebraico", partito ultranazionalista
(fondamentale per la maggioranza di governo) guidato da Naftali Bennett e
schierato contro la creazione di uno Stato palestinese. Esiste peraltro
un accordo sottobanco per placare l'irritazione di "Focolare Ebraico"
per la ripresa dei negoziati tra Israele e Autorità nazionale
palestinese. Netanyahu, riferiva a fine luglio il giornale Maariv,
avrebbe offerto al partito di Bennett l'approvazione di oltre 5mila
nuove case per coloni nei quartieri di Gerusalemme Est e negli
insediamenti in Cisgiordania, in cambio del suo sì al rilascio di 104
prigionieri palestinesi detenuti prima degli Accordi di Oslo: mille case
subito, altre 4.500 nei prossimi mesi.
Certo, il governo ha spiegato che la ragione della scelta di
inserire nella lista della "priorità nazionale" diversi insediamenti in
Cisgiordania è dovuta solo a "motivi di sicurezza" ma i fatti dicono
altro. E' una scelta ideologica, che rappresenta anche una "risposta"
alla recente decisione dell'Unione europea di interrompere qualsiasi
progetto di cooperazione con le colonie e che costerà non poco a
Israele. La Banca di Investimento Europea dovrebbe bloccare prestiti e
finanziamenti per centinaia di milioni di euro destinati a enti
pubblici, ministeri, banche e imprese private che operano nelle colonie.
In ogni caso gli insediamenti dei nazionalisti più oltranzisti
ottengono garanzie di ogni tipo e generosi finanziamenti mentre due
comunità di ebrei ultraortodossi (divenuti avversari del governo in
carica) sono state cancellate dalla lista. Le località della periferia
del Paese quei fondi possono solo sognarli. A maggior ragione se sono
centri abitati da palestinesi con cittadinanza israeliana. Resta isolata
la protesta del movimento «Peace now» che ha spiegato come la nuova
mappa approvata dal governo «incentiva e incoraggia i cittadini
israeliani a emigrare negli insediamenti, specialmente in quelli più
isolati che non saranno inclusi in alcun accordo di pace (con i
palestinesi)». Ammesso che l'inconsistente e sbilanciato negoziato
israelo-palestinese, ripreso su insistenza degli Stati Uniti, porti
davvero a un accordo.
Fonte
Indignati ma senza uno straccio di cultura e progettualità politica.
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