Siamo a un brutto tornante della storia dell'umanità, per colpa del capitalismo e della sua assurda molla primitiva (l'accumulazione crescente per pura fame di profitto), ma che non diventerebbe migliore neppure con la scomparsa immediata del capitalismo stesso. Certo, sarebbe una bella boccata d'ossigeno, ma il problema centrale resterebbe quasi intatto: abbiamo un sistema produttivo e più in generale di vita incentrato sostanzialmente sull'uso di energia ricavata da idrocarburi fossili. Petrolio, in primo luogo.
Per avere la quantità di greggio che esisteva prima della nascita dell'attuale modo di produzione (Marx non ne aveva ancora neppure avuto notizia come "fattore della produzione") sono occorsi alcune decine di milioni di anni. Con la "terza rivoluzione industriale", la meccanizzazione dell'agricoltura, e poi quella informatica che ha robotizzato allo spasimo il ciclo, ce ne siamo sparata una metà in circa 100 anni.
Ne resta ancora metà, si dice sempre, quindi... Quindi un cavolo. In primo luogo "la crescita" e l'accumulazione richiedono quantità crescenti di energia fossile (anche per sostituire e svalorizzare il lavoro umano), perciò il bisogno futuro dovrebbe logicamente essere ben più alto dell'attuale, ma soprattutto immensamente superiore a quello del primi 60 anni di "civiltà petrolifera".
In secondo luogo, il greggio è un materiale naturale non riproducibile che se ne sbatte dei bisogni umani, e persino di quelli capitalistici. Perciò, quando un pozzo viene svuotato per metà la produzione inizia a decrescere; in ogni caso nessun pozzo può essere svuotato completamente, perché oltre una certa soglia diventa necessaria un'energia finalizzata all'estrazione superiore a quella che sarà poi utilizzabile con il greggio estratto. Insomma, a un certo punto diventa conveniente smettere e abbandonare quel pozzo. Questa legge fisica, come tutte le leggi, vale per un singolo pozzo come per tutta la somma dei pozzi esistenti nel mondo. Secondo un gruppo di ricercatori tedeschi indipendenti questa soglia del 50% globale è stata superata nel 2012.
La produzione di "petrolio convenzionale" (facile da estrarre e relativamente/variabilmente appesantito da componenti costose da eliminare con la raffinazione) è in calo comunque da qualche anno. Il livello di estrazione complessivo è però rimasto complessivamente stabile (ma non è più aumentato) grazie a tre fattori: la crisi economico-finanziaria, che ha ridotto i consumi sia produttivi che sociali; l'intensificazione della produzione su pozzi in via di esaurimento grazie a nuove tecnologie estrattive; lo sfruttamento del "petrolio non convenzionale" (scisti e sabbie bituminose, giacimenti sottomarini a grande profondità, ecc.), diventato economicamente redditizio da quando il prezzo del greggio è salito stabilmente sopra i 100 dollari al barile.
Di questo greggio "non convenzionale" abbiamo sentito parlare come il nuovo Eden, in grado di scacciare i fantasmi della "fine del petrolio". Tra tutti, visto che sono soprattutto gli Stati Uniti ad aver avviato l'estrazione massiccia, il più osannato è stato lo shale gas, estratto con la tecnica del fracking. Ovvero distruggendo grandi porzioni di territorio (in superficie o nel sottosuolo, vedi la foto) per cavarne fuori materiale terroso o roccioso intriso di bitume; che va a sua volta scaldato, lavato, raffinato e infine portato nelle raffinerie vere e proprie per trasformarlo in benzina, diesel, avio, ecc.
Bene, uno studio scientifico statunitense ha accertato proprio oggi che questa tecnica, alla lunga, provoca o facilita i terremoti. Quindi è una cazzata anche pericolosa. Ne dà il triste annuncio, in Italia (in realtà nel mondo il pericolo era già noto e denunciato, ma se non lo affermano gli americani non può esser "vero"), il quotidiano di Confindustria. Che tanto si era speso per glorificare questo nuovo "miracolo" a favore della continuità del capitalismo.
Ripetiamo. Non c'è nulla da gioire.
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Shale gas, studio Usa: «L'estrazione prolungata causa terremoti»
L'America di Barack Obama sogna di sostituirlo al petrolio per segnare «un nuovo secolo americano». E persino la chiesa d'Inghilterra vi vede una possibile via per la salvezza (dal caro bolletta). Eppure, lo shale gas – l'energia che si ottiene dalle argille iniettando acqua ad alta pressione - è prima di tutto l'energia della discordia.
Non solo gli ambientalisti di tutto il mondo l'attaccano, da sempre, definendo il "fracking" devastante per l'ambiente. Ora ci si mettono anche gli scienziati, lanciando l'allarme su una possibile correlazione tra estrazione di shale gas e terremoti. A dirlo è uno studio che sarà pubblicato sulla rivista «Earth and planetary science letters», anticipato dal «Wall Street Journal».
Secondo gli autori, la grande quantità di shale gas estratta nel sud del Texas dal giacimento dell'area denominata «Eagle Ford shale» sarebbe la causa di un'ondata di piccoli terremoti registrati nella zona.
Il motivo è dovuto al metodo di produzione, che prevede perforazioni della roccia verticali e orizzontali e frantumazioni idrauliche (fracking). Dopo l'estrazione del gas e il suo progressivo esaurimento, dicono gli studiosi, i liquidi (gas e acqua) presenti nelle rocce limitrofe si stabilizzano, innescando una serie di piccole scosse che sono spesso troppo deboli per essere avvertite in superficie. Ma non per questo meno dannose, sul lungo periodo.
Lo studio però non fornisce prove, se non nella forma di connessioni indirette. A cominciare dai piccoli terremoti che sono stati regolarmente registrati, fin dal 1970, nei pressi della cittadina di Fashing, in Texas, non lontana da un centro di estrazione di shale gas.
In passato altri studi hanno collegato l'attività svolta nei pozzi con un aumento dell'attività sismica: tra questi il rapporto «US Geological Survey 2012». Ma quello che sarà pubblicato sulla «Earth and planetary science letters» è il primo a correlare l'aumento di terremoti con l'esaurimento dei giacimenti.
da IlSole24Ore
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