Nonostante i 90 anni suonati, Henry Kissinger è ancora un uomo politico rispettato e ascoltato.
Le sue doti di analista e di fine conoscitore dei gangli del potere
sono apprezzati tanto dall’opinione pubblica che da enti istituzionali. Recentemente
l’ex segretario di stato americano – uno dei più influenti della storia
degli Stati Uniti – è stato invitato dalla Ford School Public Policy ad un convegno volto a celebrare il centenario della nascita del presidente Gerald Ford.
In occasione dell’evento, Kissinger ha dedicato qualche passaggio del suo discorso alla crisi siriana,
che mai come in questo momento ha rappresentato una priorità per la
Casa Bianca. “Ci sono tre possibili risultati. La vittoria di Assad. La
vittoria sunnita. O un risultato in cui le varie entità
concordano di coesistere, ma in regioni più o meno autonome, in modo che
non possano opprimersi a vicenda. Questo è il risultato che io
preferirei vedere. Ma questo non è un’opinione popolare”.
Kissinger ha contestualizzato la guerra civile in corso in
un’evoluzione storica che affonda le sue radici nella fondazione della
Repubblica Araba di Siria: “Prima di tutto, la Siria non è uno
stato storico. E’ stato creato nella sua forma attuale nel 1920, e le è
stata data questa forma in modo da facilitare il controllo del paese da
parte della Francia, cosa accaduta dopo il mandato delle
Nazioni Unite. Anche al paese vicino, l’Iraq, è stata data una forma
strana, per facilitarne il controllo da parte dell’Inghilterra. E la
forma di entrambi i paesi è stata progettata per rendere più difficile
per uno di loro dominare la regione”.
Questo processo storico si riflette nella mancanza di
un’unità nazionale, o, per dirla meglio, di un’unità artificiosa frutto
dell’unione di tribù e gruppi etnici differenti. “[La crisi
siriana] è raccontata dalla stampa americana come la lotta tra la
democrazia e un dittatore – un dittatore che sta uccidendo il suo stesso
popolo e che noi dobbiamo punire. Ma questo non è ciò che sta
succedendo. Potrebbe essere stato iniziato da alcuni attivisti per la
democrazia. Ma si tratta fondamentalmente di un conflitto settario ed
etnico”.
Ecco, quindi, che vengono a mancare le basi per l’applicazione del paradigma dell’intervento
umanitario. Quel concetto sviluppato dalla fine degli anni ’90 che ha
permesso ai governi occidentali – principalmente attraverso la forza
militare della NATO – di intervenire in paesi interessati da una guerra
civile. Che diventava un affare di interesse della comunità
internazionale in virtù delle gravi violazioni dei diritti umani che vi
avevano luogo.
La Siria, per Henry Kissinger, non è la Libia (dove si combatteva un dittatore), non è il Kosovo (dove si doveva sventare un genocidio), non è neanche l’Iraq
(dove un rais con un ego sproporzionato minacciava il mondo con
presunte armi di distruzioni di massa). I 90.000 e passa morti non
rappresentano una violazione dei diritti umani. La Siria è
semplicemente un paese in cui è in corso una guerra tra bande che
aspirano al potere. Meglio, allora, moltiplicare le poltrone e i
confini.
Partendo dal presupposto che le basi della dottrina dell’intervento
umanitario sono molto deboli e talvolta contestabili (perché la sua
adozione presuppone l’impegno di intervenire in qualunque paese in cui
si combatta una guerra civile che provoca un alto numero di morti e
perché la decisione di intervenire è a discrezione di un ristretto club
di potenze mondiali), l’ironia vuole che a mettere in dubbio l’opportunità di un intervento esterno in un paese terzo sia proprio Henry Kissinger.
Per compiere un altro scatto nella riflessione, fa sorridere
che l’uomo che più di tutti ha fatto del paradigma della potenza il
credo della propria politica (si interviene con ogni mezzo in qualunque
parte del mondo rappresenti un interesse per l’America) ricorra ora a
motivazioni più o meno filosofiche. Sarebbe stato più coerente
dire che agli Stati Uniti non conviene intervenire in Siria vista
l’impossibilità di prevedere con certezza gli esiti di una transizione
di potere e visto che lo status quo assicura a Washington, in questo
momento, maggiori garanzie di un cambio di regime. E, soprattutto, visti
i recenti fallimenti delle campagne di Libia, Iraq e Afghanistan.
Si sarebbe potuto anche non essere d’accordo nel merito, ma
almeno si era sicuri di non sentire puzza di ipocrisia. Da uno come lui,
spesso senza peli sulla lingua né tantomeno sullo stomaco, c’era da
aspettarsi di meglio.
Fonte
L'articolo in se e per se mi fa abbastanza cagare perché troppo mellifluo, è tuttavia utile per ampliare il discorso sul trapasso degli Stati Uniti da potenza mondiale assoluta a impero in decadenza per l'implosione economico - sociale interna e per le spinte esterne di nuove potenze che si affacciano sulla scacchiere internazionale (Russia e Cina in primis). Le parole di
Henry Kissinger dimostrano, quindi, che all'interno della classe dirigente statunitense ferve il dibattito su come gestire questo passaggio che sicuramente porterà un numero incalcolabile di sciagure tanto agli statunitensi quanto alle popolazioni del resto del mondo.
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