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30/08/2013

Obama in Siria: una guerra per onore di firma?


 Chissà se nello studio ovale Barack Obama stia rimpiangendo i tempi del “principio di non ingerenza” pre-'89. Di sicuro, la logica concentrica di “ingerenza umanitaria” (democratica) ed “esportazione della democrazia” (repubblicana) lo schiaccia ad una guerra in Siria per la quale viene da più parti descritto come riluttante. Il mondo del 2013 è così diverso da quello clintoniano del Kosovo di 14 anni fa. La credibilità bruciata dai neoconservatori in troppi campi di battaglia nel loro delirio unilateralista lascia il Premio Nobel della pace di fronte ad una non scelta: solo la guerra, non più la diplomazia, rende ancora influente una grande potenza che si è creduta e millantata unica e si riscopre oggi incapace (se non con la forza) anche di far valere un ruolo di primus inter pares in un concerto di grandi potenze o, meglio, in una ONU riformata che superi gli equilibri post-bellici.

Il punto non è la guerra civile siriana (la brutalità di Assad, l’uso di armi chimiche e la conseguente vera o presunta pistola fumante, la deriva jihadista della controparte, le possibilità di escalation e di coinvolgimenti regionali, dal Libano alla Turchia, da Israele all’Iran, l’inutilità criminale dei bombardamenti che aggiungerà sangue su sangue, il partito dello stallo che vuole indebolire Assad per impedirgli di vincere ma neanche perdere). Il punto è se gli Stati Uniti (e alcuni alleati europei, tra i quali in posizione defilata l’Italia) riusciranno a prendere atto delle mutate condizioni della geopolitica mondiale e della necessità di accettare l’aumentato status di potenze globali e regionali (amiche e nemiche, belle e brutte, democratiche e autoritarie), senza le quali ogni tentativo di soluzione di conflitto presente e futuro che non passi per le armi sarà velleitaria. È un contesto, mi si passi il wishful thinking, nel quale perfino la supremazia bellica globale degli Stati Uniti, lungi dal cessare di essere un pericolo e un’abnormità, finisce per apparire un’arma spuntata.

L’Occidente andrà in guerra per l’ennesima volta dal 2 agosto del 1990, e lo farà senza un’agenda definita che non sia un parallelo mix di interessi inconfessabili, imperativi etici quasi wilsoniani che prescindono dallo stato reale delle cose, approssimazione e, soprattutto, la disperata necessità di dimostrare al mondo di esserci ancora, di non essere divenuti ininfluenti. Un disastro.

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