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19/08/2013

Egitto e governance globale

di Fabrizio Casari

Il massacro quotidiano di islamici in onda nelle piazze d’Egitto genera sdegno diffuso. Al quale ovviamente non c’è seguito, dal momento che l’opinione pubblica internazionale non ha nessun ruolo attivo possibile nella vicenda egiziana e le autorità internazionali sono ferme al balbettio sterile. Non solo perché incapaci di intervenire celermente in quella che ormai è una autentica guerra civile, bensì perché in qualche modo le grandi potenze occidentali sono soddisfatte.
Vorrebbero certo maggiore attenzione, meno macelleria è più discrezione, ma il risultato finale - l’uscita di scena dei Fratelli Musulmani - è obiettivo condiviso con i generali egiziani. Le minacce della UE, circa l’interruzione delle forniture di armi al Cairo fanno ridere: non solo perché il principale fornitore di armi sono gli USA, ma perché l’Egitto fabbrica da solo una quota consistente del suo apparato bellico. La Bonino, che vanta una approfondita conoscenza del paese arabo, dovrebbe saperlo.

Protagonisti principali della rivolta popolare che diede il via alla cacciata di Mubarak, le organizzazioni islamiche non hanno certo dato il meglio alla prova del governo e, vinte di stretta misura le elezioni, sono stati svelti a ricorrere anch’essi alla repressione dinanzi alle manifestazioni antigovernative che chiedevano le dimissioni di Morsi. La presidenza di quello che è sembrato più un funzionario della confraternita che non il leader di una nazione, è stata un disastro totale.
Centrifugati in una dinamica di crescente islamizzazione della legislazione, indifferenti al dramma socio-economico del Paese, i Fratelli Musulmani sono risultati incapaci e ingenui nella lettura della fase politica e, una dimostrata inclinazione verso l’autoritarismo crescente, ha determinato progressivamente il venir meno del consenso ottenuto durante la rivolta e nelle elezioni ad essa succedutesi.

Pensavano forse che chiudere i varchi attraverso i quali giungevano i riferimenti al governo palestinese e ad Hamas in particolare, oppure schierarsi al fianco dei ribelli siriani, gli avrebbe garantito le simpatie israelo-statunitensi e che la nomina del generale al-Sisi, gradito all’establishmente militare dell’Occidente e da Morsi considerato “un buon musulmano”, avrebbe ulteriormente rafforzato l’appoggio di Washington.

Ma il miliardo e mezzo di dollari che gli USA versano annualmente all’Egitto è destinato proprio alle loro forze armate e la scelta di al-Sisi, da parte di Morsi, è stato un errore clamoroso. Ricorda tristemente quella di Allende che nel Cile del ‘73 nel pieno della campagna orchestrata da Kissinger e Nixon contro il governo di Unidad Popular, decise di nominare Pinochet al vertice delle forze armate; era convinto della sua lealtà alla Costituzione e che avrebbe utilizzato i suoi buoni rapporti con il Pentagono per ridurre la pressione della Casa Bianca sulla Moneda.
Ingenuità che si pagano a caro prezzo: i militari che si formano nelle accademie degli eserciti dove gli USA svolgono il ruolo di direzione politica e militare, obbediscono al Pentagono, non alla propria Carta Costituzionale. Non c’è nemmeno il doppio livello d’obbedienza tipico dei paesi europei, ma solo uno: quello verso gli USA.

Si possono analizzare diversi aspetti della cosiddetta “primavera” egiziana, finita sotto i cingoli dei carri armati e nel mirino dei cecchini in uniforme, e si può anche registrare un quadro d’insieme che va ben oltre la vicenda politica interna del più grande paese arabo. Nello scontro definitivo tra i militari e la porzione laica della popolazione da una parte e i Fratelli Musulmani dall’altra, non c’è infatti solo la resa dei conti interna tra le diverse componenti del Paese; l’eco di quanto accade al Cairo o ad Alessandria si riflette anche sul riposizionamento del quadro regionale, che vede i rispettivi sponsor - Arabia Saudita al fianco dei militari e Qatar che sostiene i Fratelli Musulmani - ridefinire attraverso l’affaire Egitto il ruolo di direzione politica nel Golfo Persico.

Il generale al-Sisi ordina ora la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani, così come fece Nasser 85 anni fa. Ma se il disegno del leader panarabista era comunque dotato di una vision mediorientale, quello di al-Sisi è puro impulso da sbirro. Inutile fu metterli fuorilegge allora e inutile è riproporlo adesso: i Fratelli Musulmani rappresentano comunque una parte importante della popolazione e sono insediati in maniera profonda nelle viscere del paese. Sono privi di classe dirigente, di classe imprenditoriale e di appartenenti alla casta militare, ma non per questo non sono in grado d’incidere.
Magari non sanno governare, ma sanno benissimo come impedire di governare agli altri. Per l’Egitto si apre dunque uno scenario difficilissimo e gli inviti alla riconciliazione sono parole al vento degne di un enciclica più che di un disegno politico.

Il dato ineludibile che una onesta analisi dei fatti dovrebbe considerare, è comunque quello della governance internazionale. Risulta evidente l’incompatibilità tra il controllo politico occidentale sull’area e la democrazia. La democrazia, anche quella formale, è ormai insostenibile per un modello di governance che non prevede aree di autonomia politica ma solo l’adesione assoluta al comando unico globale. L’Occidente, per riottenere il controllo quando la situazione gli sfugge, ricorre da diversi anni alla stessa mossa sullo scacchiere: quando ha bisogno di destabilizzare paesi non conformi al suo modello di comando internazionale lancia grandi campagne sui diritti umani.

Lo fa con una notevole faccia di bronzo, giacché chiede diritti umani mentre difende regimi barbari ed anacronistici come gli Emirati che i diritti umani li calpestano quotidianamente. Sceicchi pieni di oro ed ignoranza tribale che coniugano complotti e repressione per rimanere saldamente in sella.
Nella consapevolezza di essere solo tribù sedute su giacimenti di petrolio, alla ricerca di una leadership regionale, lanciano offensive politiche in tutto il Medio Oriente che prevedono guerre e destabilizzazioni ovunque. Non è un caso che, anche nella vicenda egiziana, l’Arabia Saudita sia pronta a sopperire immediatamente con le proprie risorse all’eventuale riduzione degli aiuti americani.

C’è poi l’altra opzione occidentale, normalmente utilizzata quando si ritiene di dover solo abbattere governi ritenuti ostili o non più utili allo scopo; si da respiro internazionale al malcontento e alle proteste e, quando si ritiene che il momento del ribaltamento sia giunto, sì invocano democrazia ed elezioni. Anche qui l’ipocrisia regna, dal momento che le elezioni sono riconosciute e rispettate solo se terminano con il successo degli amici e la sconfitta dei nemici.

Dalla Turchia del colpo di Stato (Nato) del 1980 all’Algeria del 1991, fino alla storia di questi giorni, ci sono esempi impossibili da non considerare. Ovunque le elezioni vengono vinte dai partiti islamici, dal giorno seguente comincia il processo di delegittimazione, normalmente articolato in due grandi linee: o un intervento dei militari che ripristina immediatamente il controllo dell’Occidente, o, nel caso non siano propizie le condizioni, l’inizio di una enorme campagna di delegittimazione delle formazioni religiose vincitrici delle elezioni, allo scopo di creare le condizioni per una protesta di massa che veda poi l’intervento dei militari come ineludibile.
Le due diverse strade con le rispettive tempistiche vengono perseguite a seconda di quali siano i rapporti di forza interni e si misurano soprattutto con il grado di affidabilità dei vertici militari locali, cioè la disponibilità delle autorità castrensi ad allinearsi sotto il comando unico dell’Occidente.

In molti sostengono che Obama ha sbagliato tutte le mosse: con Mubarak prima, con Morsi poi e con al-Sisi ora. Che la sua confusione ed indecisione politica abbia dato alibi alle giravolte della società e dell’establishment egiziano causando il disordine di oggi. Certo, Obama non ha dimostrato grande abilità nella geopolitica all’epoca del 2.0. La questione di fondo sembrerebbe però una: possono dei partiti religiosi aspirare a governare con il consenso dell’Occidente in generale e degli USA in particolare?
La possibilità di sorvolo dello spazio aereo egiziano, necessaria per i rifornimenti alle truppe in Afghanistan, il controllo del Canale di Suez e la necessità di controllare strettamente il più grande paese arabo anche in funzione di protezione di Israele, possono essere garantite da un governo islamico, a maggior ragione in un momento in cui la guerra in Siria rischia di far deflagrare ulteriormente il caos nella regione?

Una lettura semplificata della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi maggiordomi europei potrebbe indurre a ritenere di no, in forza di una considerazione apparentemente logica: da sempre, in particolare dopo l’11 Settembre, l’impegno dell’Occidente è rivolto alla lotta contro il fondamentalismo islamico e non sarebbe realistico ipotizzare un qualunque consenso da parte statunitense ad un governo islamista.

Niente di più inesatto. Gli Stati Uniti, dagli anni ’80 in poi, hanno sempre avuto rapporti strettissimi ed intese ampie con il mondo islamico, anche con le fazioni più radicali. La condizione necessaria e sufficiente di ogni patto tra gli USA e gli islamici è determinato dall’essere questi ultimi fermamente contrari ad ogni orientamento progressista.
E’ con l’Islam laico e con venature socialiste (vedi Baath in Iraq e Siria o OLP in Palestina) che gli Stati Uniti sono entrati da sempre in rotta di collisione. Prima per la partita con i sovietici in Medio Oriente, poi, dopo la caduta dell’Urss, per ridisegnare la mappa in funzione delle esigenze parallele dei suoi amici israeliani e sauditi. Gli uni decisi a mantenere il controllo militare sul Medio Oriente, gli altri impegnati a costruire a suon di dollari la loro leadership politica sul mondo musulmano.

A ben vedere, la vicinanza tra Washington e l’Islam radicale è stata una costante dell’ultimo trentennio. Cominciò con il sostegno sfacciato delle monarchie saudite, proseguì con l’alleanza con Teheran per la fornitura di armi ai Contras in Nicaragua e con il finanziamento e l’addestramento dei mujaheddin afgani in guerra contro i sovietici prima e contro i serbi in Bosnia poi. Insieme a questo - e forse sopra - il sostegno al Pakistan in funzione di antagonista principale dell’India (un tempo leader dei Non Allineati e vicina a Mosca), quindi l’aiuto diretto alle milizie jahidiste libiche e irachene. Washington, insomma, non ha mai avuto scrupoli ad allearsi tatticamente e strategicamente con l’Islam, per radicale che fosse.

E il fatto che le monarchie del Golfo siano finanziatrici di ogni fazione islamica in armi, che il regime pakistano organizzi l’addestramento e la struttura d’intelligence dei talebani contro i quali l’Occidente combatte in Afghanistan e che i ribelli in Siria (come accadde in Libia) siano diretti in buona parte da quella al-Queda che dovrebbe essere l’obiettivo principale della “war on terror”, sono dettagli che non turbano affatto i piani statunitensi di controllo geostrategico dell’area. Solo una pubblicistica sdraiata e velinara può bypassare tutto ciò.

D’altra parte, se davvero gli USA avessero voluto ridurre l’influenza dell’Islam nel movimento politico mediorientale, non avrebbe dichiarato guerra ad Iraq, Libia e Siria, dove i regimi di Saddam, Gheddafi e Assad hanno sempre rappresentato un nemico giurato degli integralisti islamici.
Ma, appunto, il timore dell’America non è l’integralismo islamico, ma le sue derivazioni politiche che coniugano l’irredentismo e l’anti-imperialismo con la fede, che tengono insieme la solidarietà sociale insita nella cultura islamica e l’individuazione dell’Occidente come usurpatore di risorse e libertà.

Sarebbe quindi sbagliato accusare Obama di confusione ed inadeguatezza con la vicenda egiziana nel modo in cui ha affrontato la rivolta prima, le elezioni poi e la guerra civile ora. Obama è figlio legittimo di quel complesso militare-industriale che decide quali siano gli interessi politici ed economici da tenere sotto controllo ed alla sua logica ispira la sua politica estera. La guerra permanente, oltre a riaffermare il ruolo di leadership militare degli USA, rappresenta la possibilità di allungare le mani sulle risorse dei paesi coinvolti ed è, ancora oggi, il miglior volano per l’economia del paese.
Lì risiede la garanzia di sopravvivenza e crescita del settore militare e dell’intelligence statunitense, vero cuore pulsante di un sistema che, senza contrappesi né bilanciamenti, ha assunto ormai il volto di un regime. Che si serve del terrore e delle guerre per ridefinire ed aggiornare la sua identità. Invasivo verso l’interno ed invasore all’esterno.

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