di Fabrizio Casari
Il massacro
quotidiano di islamici in onda nelle piazze d’Egitto genera sdegno
diffuso. Al quale ovviamente non c’è seguito, dal momento che l’opinione
pubblica internazionale non ha nessun ruolo attivo possibile nella
vicenda egiziana e le autorità internazionali sono ferme al balbettio
sterile. Non solo perché incapaci di intervenire celermente in quella
che ormai è una autentica guerra civile, bensì perché in qualche modo le
grandi potenze occidentali sono soddisfatte.
Vorrebbero certo maggiore attenzione, meno macelleria è più
discrezione, ma il risultato finale - l’uscita di scena dei Fratelli
Musulmani - è obiettivo condiviso con i generali egiziani. Le minacce
della UE, circa l’interruzione delle forniture di armi al Cairo fanno
ridere: non solo perché il principale fornitore di armi sono gli USA, ma
perché l’Egitto fabbrica da solo una quota consistente del suo apparato
bellico. La Bonino, che vanta una approfondita conoscenza del paese
arabo, dovrebbe saperlo.
Protagonisti principali della rivolta
popolare che diede il via alla cacciata di Mubarak, le organizzazioni
islamiche non hanno certo dato il meglio alla prova del governo e, vinte
di stretta misura le elezioni, sono stati svelti a ricorrere anch’essi
alla repressione dinanzi alle manifestazioni antigovernative che
chiedevano le dimissioni di Morsi. La presidenza di quello che è
sembrato più un funzionario della confraternita che non il leader di una
nazione, è stata un disastro totale.
Centrifugati in una dinamica di crescente islamizzazione della
legislazione, indifferenti al dramma socio-economico del Paese, i
Fratelli Musulmani sono risultati incapaci e ingenui nella lettura della
fase politica e, una dimostrata inclinazione verso l’autoritarismo
crescente, ha determinato progressivamente il venir meno del consenso
ottenuto durante la rivolta e nelle elezioni ad essa succedutesi.
Pensavano
forse che chiudere i varchi attraverso i quali giungevano i riferimenti
al governo palestinese e ad Hamas in particolare, oppure schierarsi al
fianco dei ribelli siriani, gli avrebbe garantito le simpatie
israelo-statunitensi e che la nomina del generale al-Sisi, gradito
all’establishmente militare dell’Occidente e da Morsi considerato “un
buon musulmano”, avrebbe ulteriormente rafforzato l’appoggio di
Washington.
Ma il miliardo e mezzo di dollari che gli USA versano
annualmente all’Egitto è destinato proprio alle loro forze armate e la
scelta di al-Sisi, da parte di Morsi, è stato un errore clamoroso.
Ricorda tristemente quella di Allende che nel Cile del ‘73 nel pieno
della campagna orchestrata da Kissinger e Nixon contro il governo di Unidad Popular,
decise di nominare Pinochet al vertice delle forze armate; era convinto
della sua lealtà alla Costituzione e che avrebbe utilizzato i suoi
buoni rapporti con il Pentagono per ridurre la pressione della Casa
Bianca sulla Moneda.
Ingenuità
che si pagano a caro prezzo: i militari che si formano nelle accademie
degli eserciti dove gli USA svolgono il ruolo di direzione politica e
militare, obbediscono al Pentagono, non alla propria Carta
Costituzionale. Non c’è nemmeno il doppio livello d’obbedienza tipico
dei paesi europei, ma solo uno: quello verso gli USA.
Si possono
analizzare diversi aspetti della cosiddetta “primavera” egiziana, finita
sotto i cingoli dei carri armati e nel mirino dei cecchini in uniforme,
e si può anche registrare un quadro d’insieme che va ben oltre la
vicenda politica interna del più grande paese arabo. Nello scontro
definitivo tra i militari e la porzione laica della popolazione da una
parte e i Fratelli Musulmani dall’altra, non c’è infatti solo la resa dei
conti interna tra le diverse componenti del Paese; l’eco di quanto
accade al Cairo o ad Alessandria si riflette anche sul riposizionamento
del quadro regionale, che vede i rispettivi sponsor - Arabia Saudita al
fianco dei militari e Qatar che sostiene i Fratelli Musulmani -
ridefinire attraverso l’affaire Egitto il ruolo di direzione politica
nel Golfo Persico.
Il generale al-Sisi ordina ora la messa
fuorilegge dei Fratelli Musulmani, così come fece Nasser 85 anni fa. Ma
se il disegno del leader panarabista era comunque dotato di una vision
mediorientale, quello di al-Sisi è puro impulso da sbirro. Inutile fu
metterli fuorilegge allora e inutile è riproporlo adesso: i Fratelli
Musulmani rappresentano comunque una parte importante della popolazione e
sono insediati in maniera profonda nelle viscere del paese. Sono privi
di classe dirigente, di classe imprenditoriale e di appartenenti alla
casta militare, ma non per questo non sono in grado d’incidere.
Magari non sanno governare, ma sanno benissimo come impedire di
governare agli altri. Per l’Egitto si apre dunque uno scenario
difficilissimo e gli inviti alla riconciliazione sono parole al vento
degne di un enciclica più che di un disegno politico.
Il dato
ineludibile che una onesta analisi dei fatti dovrebbe considerare, è
comunque quello della governance internazionale. Risulta evidente
l’incompatibilità tra il controllo politico occidentale sull’area e la
democrazia. La democrazia, anche quella formale, è ormai insostenibile
per un modello di governance che non prevede aree di autonomia politica
ma solo l’adesione assoluta al comando unico globale. L’Occidente, per
riottenere il controllo quando la situazione gli sfugge, ricorre da
diversi anni alla stessa mossa sullo scacchiere: quando ha bisogno di
destabilizzare paesi non conformi al suo modello di comando
internazionale lancia grandi campagne sui diritti umani.
Lo
fa con una notevole faccia di bronzo, giacché chiede diritti umani
mentre difende regimi barbari ed anacronistici come gli Emirati che i
diritti umani li calpestano quotidianamente. Sceicchi pieni di oro ed
ignoranza tribale che coniugano complotti e repressione per rimanere
saldamente in sella.
Nella consapevolezza di essere solo tribù sedute su giacimenti di
petrolio, alla ricerca di una leadership regionale, lanciano offensive
politiche in tutto il Medio Oriente che prevedono guerre e
destabilizzazioni ovunque. Non è un caso che, anche nella vicenda
egiziana, l’Arabia Saudita sia pronta a sopperire immediatamente con le
proprie risorse all’eventuale riduzione degli aiuti americani.
C’è
poi l’altra opzione occidentale, normalmente utilizzata quando si
ritiene di dover solo abbattere governi ritenuti ostili o non più utili
allo scopo; si da respiro internazionale al malcontento e alle proteste
e, quando si ritiene che il momento del ribaltamento sia giunto, sì
invocano democrazia ed elezioni. Anche qui l’ipocrisia regna, dal
momento che le elezioni sono riconosciute e rispettate solo se terminano
con il successo degli amici e la sconfitta dei nemici.
Dalla
Turchia del colpo di Stato (Nato) del 1980 all’Algeria del 1991, fino
alla storia di questi giorni, ci sono esempi impossibili da non
considerare. Ovunque le elezioni vengono vinte dai partiti islamici, dal
giorno seguente comincia il processo di delegittimazione, normalmente
articolato in due grandi linee: o un intervento dei militari che
ripristina immediatamente il controllo dell’Occidente, o, nel caso non
siano propizie le condizioni, l’inizio di una enorme campagna di
delegittimazione delle formazioni religiose vincitrici delle elezioni,
allo scopo di creare le condizioni per una protesta di massa che veda
poi l’intervento dei militari come ineludibile.
Le due diverse strade con le rispettive tempistiche vengono
perseguite a seconda di quali siano i rapporti di forza interni e si
misurano soprattutto con il grado di affidabilità dei vertici militari
locali, cioè la disponibilità delle autorità castrensi ad allinearsi
sotto il comando unico dell’Occidente.
In molti sostengono che
Obama ha sbagliato tutte le mosse: con Mubarak prima, con Morsi poi e
con al-Sisi ora. Che la sua confusione ed indecisione politica abbia
dato alibi alle giravolte della società e dell’establishment egiziano
causando il disordine di oggi. Certo, Obama non ha dimostrato grande
abilità nella geopolitica all’epoca del 2.0. La questione di fondo
sembrerebbe però una: possono dei partiti religiosi aspirare a governare
con il consenso dell’Occidente in generale e degli USA in particolare?
La
possibilità di sorvolo dello spazio aereo egiziano, necessaria per i
rifornimenti alle truppe in Afghanistan, il controllo del Canale di Suez
e la necessità di controllare strettamente il più grande paese arabo
anche in funzione di protezione di Israele, possono essere garantite da
un governo islamico, a maggior ragione in un momento in cui la guerra in
Siria rischia di far deflagrare ulteriormente il caos nella regione?
Una
lettura semplificata della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi
maggiordomi europei potrebbe indurre a ritenere di no, in forza di una
considerazione apparentemente logica: da sempre, in particolare dopo
l’11 Settembre, l’impegno dell’Occidente è rivolto alla lotta contro il
fondamentalismo islamico e non sarebbe realistico ipotizzare un
qualunque consenso da parte statunitense ad un governo islamista.
Niente
di più inesatto. Gli Stati Uniti, dagli anni ’80 in poi, hanno sempre
avuto rapporti strettissimi ed intese ampie con il mondo islamico, anche
con le fazioni più radicali. La condizione necessaria e sufficiente di
ogni patto tra gli USA e gli islamici è determinato dall’essere questi
ultimi fermamente contrari ad ogni orientamento progressista.
E’ con l’Islam laico e con venature socialiste (vedi Baath in Iraq e
Siria o OLP in Palestina) che gli Stati Uniti sono entrati da sempre in
rotta di collisione. Prima per la partita con i sovietici in Medio
Oriente, poi, dopo la caduta dell’Urss, per ridisegnare la mappa in
funzione delle esigenze parallele dei suoi amici israeliani e sauditi.
Gli uni decisi a mantenere il controllo militare sul Medio Oriente, gli
altri impegnati a costruire a suon di dollari la loro leadership
politica sul mondo musulmano.
A ben vedere, la vicinanza tra
Washington e l’Islam radicale è stata una costante dell’ultimo
trentennio. Cominciò con il sostegno sfacciato delle monarchie saudite,
proseguì con l’alleanza con Teheran per la fornitura di armi ai Contras
in Nicaragua e con il finanziamento e l’addestramento dei mujaheddin
afgani in guerra contro i sovietici prima e contro i serbi in Bosnia
poi. Insieme a questo - e forse sopra - il sostegno al Pakistan in
funzione di antagonista principale dell’India (un tempo leader dei Non
Allineati e vicina a Mosca), quindi l’aiuto diretto alle milizie
jahidiste libiche e irachene. Washington, insomma, non ha mai avuto
scrupoli ad allearsi tatticamente e strategicamente con l’Islam, per
radicale che fosse.
E il fatto che le monarchie del Golfo siano
finanziatrici di ogni fazione islamica in armi, che il regime pakistano
organizzi l’addestramento e la struttura d’intelligence dei talebani
contro i quali l’Occidente combatte in Afghanistan e che i ribelli in
Siria (come accadde in Libia) siano diretti in buona parte da quella
al-Queda che dovrebbe essere l’obiettivo principale della “war on
terror”, sono dettagli che non turbano affatto i piani statunitensi di
controllo geostrategico dell’area. Solo una pubblicistica sdraiata e
velinara può bypassare tutto ciò.
D’altra
parte, se davvero gli USA avessero voluto ridurre l’influenza
dell’Islam nel movimento politico mediorientale, non avrebbe dichiarato
guerra ad Iraq, Libia e Siria, dove i regimi di Saddam, Gheddafi e Assad
hanno sempre rappresentato un nemico giurato degli integralisti
islamici.
Ma, appunto, il timore dell’America non è l’integralismo islamico, ma
le sue derivazioni politiche che coniugano l’irredentismo e
l’anti-imperialismo con la fede, che tengono insieme la solidarietà
sociale insita nella cultura islamica e l’individuazione dell’Occidente
come usurpatore di risorse e libertà.
Sarebbe quindi sbagliato
accusare Obama di confusione ed inadeguatezza con la vicenda egiziana
nel modo in cui ha affrontato la rivolta prima, le elezioni poi e la
guerra civile ora. Obama è figlio legittimo di quel complesso
militare-industriale che decide quali siano gli interessi politici ed
economici da tenere sotto controllo ed alla sua logica ispira la sua
politica estera. La guerra permanente, oltre a riaffermare il ruolo di
leadership militare degli USA, rappresenta la possibilità di allungare
le mani sulle risorse dei paesi coinvolti ed è, ancora oggi, il miglior
volano per l’economia del paese.
Lì risiede la garanzia di sopravvivenza e crescita del settore
militare e dell’intelligence statunitense, vero cuore pulsante di un
sistema che, senza contrappesi né bilanciamenti, ha assunto ormai il
volto di un regime. Che si serve del terrore e delle guerre per
ridefinire ed aggiornare la sua identità. Invasivo verso l’interno ed
invasore all’esterno.
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