Fa abbastanza specie che nel piccolo mondo dei social network frequentato da quelli ddesinistra abbia avuto un discreto successo questo articolaccio di Puglisi.
Per chi avesse la fortuna di non conoscerlo, Puglisi, a parti i rari
momenti che usa per esercitare la sua professione di ricercatore presso
l’Università di Pavia, è una twistar (cioè, ha un sacco di
follower su Twitter) che passa la maggior parte del suo tempo a
castigare la presenza al mondo di persone che ancora non seguone il
verbo dell’economia liberista.
L’articolo vorrebbe partire da un dato inoppugnabile: la generazione del ’68 detiene
una fetta maggiore del reddito rispetto alle altre generazioni. La
forza bruta dei numeri sembrebbe dare ragione a Puglisi ma, come mi ha
insegnato un altro professore dell’Università di Pavia che non
ringrazierò mai abbastanza, senza una teoria interpretativa un dato non
significa nulla.
La teoria di Puglisi è implicita (daltronde, da neoliberista qual è,
non prende in considerazione l’idea che possano essercene altre) è che
la generazione del ’68 con il suo protagonismo abbia distorto il
meccanismo tecnico della distribuzione intergenerazionale accaparrandosi
troppo reddito lasciando così le generazione successive con troppo
poco. La prova di questo potere distorsivo dei sessantottini rispetto
alla natura evoluzione del mercato sarebbe la presenza dei leader e
leaderini dell’epoca un po’ ovunque ci sia potere.
Ora, l’onnipresenza dei capi e capetti di quella stagione è
innegabile, Puglisi però sorvola allegramente sul fatto che la maggior
parte dei personaggi che cita hanno aderito al suo campo e sono fautori
anch’essi dei meccanismi di mercato. Basta pensare a quanto all’epoca
furono contigui alla lotta armata e oggi rievocano il pericolo di nuovi anni di piombo non appena si sviluppa un minimo di conflitto sindacale.
Il fatto, ovviamente, è che ci sono ben altre e più convincenti spiegazioni.
La generazione del ’68 è stata, all’incirca, l’unica
generazione a godere appieno dell’agibilità sindacale (lo Statuto dei
Lavoratori venne approvato nel ’79), dei risultati delle lotte sul
salario indiretto (leggasi, i servizi pubblici) e del salario differito
(leggasi, sono riusciti, i più stagionati, ad andare in pensione prima
delle controriforme di centrodestra e centrosinistra). Le generazioni
successive invece queste cose le hanno godute per meno tempo o
addirittura per nulla. Questo sicuramente spiega perchè i padri hanno più dei figli,
dato che i figli non hanno avuto la possibilità di guadagnare così
tanto. Certo, rimane un’obiezione sensata: tutte le generazioni sono
divise in classi, com’è che comunque i padroni di quella generazione
guadagnano (si presume che guadagnino, i dati di Puglisi non sono
disaggregatri) più dei padroni odierni. Forse la risposta sta nella
gerontocrazia delle classi dominanti italiane, basta pensare all’età
media del salotto buono della finanza o all’età dei governanti e degli intellettuali organici alla borghesia.
Insomma, se Puglisi è veramente interessato a una distribuzione
intergenrazionale più equa sia del salario dei lavoratori che dei
profitti dei capitalisti, farebbe comunque meglio a rivolgersi al suo
campo, non a quello di una presunta sinistra sessantottina (quantomeno,
non a quella che è rimasta a sinistra…)
Ma soprattutto, se si è ddesinistra, quindi presumibilmente
interessati a spezzare i meccanismi che da 30 anni danno sempre più
reddito ai padroni e sempre meno ai lavoratori, e se si è ggiovaniddesinistra,
quindi particolarmente interessati sulla propria pelle al reddito dei
giovani lavoratori, sarebbe veramente ora di rottamare gli articoli come
quelli di Puglisi e tutto il discorso liberista che ancora trova sponde
involontarie anche nel nostro campo.
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