L’affare
Snowden sta facendo da rilevatore di dinamiche geopolitiche cruciali
che la crisi globale catalizza e rende sempre meno gestibili. Dunque gli
States, cuore della finanza transnazionale, sono il centro di una rete
globale di controllo. (Del resto la finanza non è fatta solo di click
nello spazio virtuale, ha bisogno di complessi apparati
territorializzati, economici politici militari, di consenso ecc.). Ma controllo, attenzione, non solo su nemici e avversari bensì su gran parte degli stessi alleati.
La questione va ben oltre la libertà della rete, questa macchina delle macchine che con tutte le sue ambivalenze appalesa un dispositivo di comando, tutt’altro che piatto
come si vede, che sembra sfidare le più fosche distopie. Né è
liquidabile - secondo la linea di difesa prontamente assunta sulla
scorta di Obama dai filoatlantici europei - con l’argomento “così fan
tutti” (i governi: pur vero, tra l'altro molte delle “vittime”, o suoi
apparati, sono al tempo stesso consapevoli collaboratori del big boss)
o “tanto si sapeva” (vedi già il caso Echelon). Perché è cambiato il
contesto complessivo - segnato oggi, nella crisi, dagli effetti destrutturanti per il sistema di questo concentrato di potenza - e con esso il grado dei contrasti tra gli attori, a tutti i livelli, e non da ultimo è mutata l’attenzione e la percezione da parte delle “plebi” su quanto sta accadendo.
Tre le questioni geo/politiche più rilevanti dell’affaire che qui è possibile solo sfiorare.
Innanzitutto, il colpo subito dal soft power statunitense: spiare le vite degli altri prima o poi ha un costo. Colpo grave alla luce della marcia di Washington, tortuosa ma inequivocabile, verso il contenimento
della potenza cinese con tutto il contorno che giusto in questi giorni
ci si dipana sotto gli occhi (offensiva di Obama in Africa, piani per un
trattato transatlantico, destabilizzazione dall’interno e dall’esterno
di aspiranti attori regionali nella cerniera che va dal Mediterraneo
all’Asia Centrale passando per il Medio Oriente).
Secondo,
la crisi sociale e morale degli Stati Uniti che Obama non solo non ha
saputo stoppare ma ha in qualche modo aggravato, subordinandosi
totalmente alla finanza too big to fail e alle esigenze di uno stato-guarnigione, inizia a produrre dei disertori se non ancora dei disfattisti all’interno della potenza imperiale stessa, e tra insospettabili bianchi.
È vero, manca ancora quasi del tutto la forza d’urto di classe e di
colore, ma il primo presidente americano nero della storia farebbe bene a
cogliere l’avvertimento di Django Unchained, quasi complemento per ora virtuale di OWS.
Ma veniamo al terzo elemento, forse il più interessante. “Semplicemente” tra i paesi più spiati dagli Usa c’è la Germania,
al livello di Pechino e Teheran, ed è tutto dire. In “fascia uno” come
obiettivo quantitativo e qualitativo dell’attività di spionaggio dell’Agenzia di sicurezza Usa, Berlino al tempo stesso risulta collocata dai
documenti interni statunitensi nella “terza categoria” dei partners,
in pratica un potenziale nemico o comunque avversario. Non in termini
militari, al momento, ma è significativa la messa sotto controllo degli
snodi più sensibili dei dati relativi alle decisioni di finanza e
imprese oltre che politiche. Nel paese questo sta scatenando una
reazione ampia di cui non è ancora possibile prevedere gli effetti
(anche sulle elezioni di settembre): in un certo senso l’opinione
pubblica tedesca viene catapultata per questa porta geopolitica nello
spazio di instabilità prodotto dalla crisi globale, dopo averne
percepito solo indirettamente gli effetti economici rovesciati sulla
pelle delle “cicale” del fianco sud dell’Europa. E non è detto che
questa non sia la premessa di un coinvolgimento più diretto stanti le
nubi che si ri addensano minacciose sull’economia globale.
Anche
a causa di questi umori sociali il governo tedesco si è trovato
costretto ad assumere toni formalmente duri (“ci trattano come i nemici
durante la Guerra Fredda”) quali non si erano dati durante i precedenti,
e non insignificanti, dissidi con Washington in questioni di politica
estera (guerra in Iraq, dieci anni fa, aggressione alla Libia, sfumature
differenti sulla Siria) e soprattutto di strategie di uscita dalla
global crisis. Mentre i socialdemocratici cercano maldestramente di
lucrare sull’affare in vista del voto, una parte dei circoli economici
che contano - cui dà voce la testata conservatrice Faz -
consiglia invece understatement in vista di una maggiore contrattualità
nei negoziati per un accordo di libero scambio transatlantico (sulla cui
valenza anti-cinese e comunque di tentativo statunitense di
ricompattamento della propria traballante egemonia in ultima istanza a
danno della stessa autonomia europea, non è dato sapere quanto abbiano
le idee chiare a Berlino).
Cambiamo bruscamente visuale e vediamo sul tema la discussione a sinistra (da noi, ma il discorso potrebbe e dovrebbe allargarsi alla sinistra europea pur nella problematicità di tale categoria).
Troviamo
su questo versante analisi sui dispositivi di controllo nonché sui
meccanismi di sfruttamento economico dei dati digitalizzati della Rete,
denunce dell’intera operazione come conferma della non autonomia del
progetto europeista verso Washington così come più scontati
dietrologismi sul personaggio Snowden, riflessioni sul Grande Fratello,
ecc. Ma a uno sguardo onesto non sfugge che l’aspetto del Datagate
sottaciuto, o comunque non soppesato, praticamente da tutti è proprio
il terzo che abbiamo richiamato. Eppure è così grosso che non sembra
eccessivo parlare di vera e propria rimozione.
Interessante politicamente è provare a chiedersi cosa c’è dietro il rimosso.
Mettiamola così, pur in termini un po’ rozzi: il rimosso permette di non
vedere la dinamica di divaricazione tra Washington e Berlino su tutti i
nodi cruciali posti dalla crisi globale e in particolare lo scontro
dollaro/euro, rendendo così possibile ridurre l’eurocrisi essenzialmente
a una questione di egoismo/miopia/rigidità tedesca nei confronti del
sud Europa. Praticamente la rimozione porta a concentrarsi su di una soluzione di compromesso:
lottare “contro l’austerity” (e va bene!) ma in nome della (vecchia)
ricetta keynesista che chiede all’Europa di creare moneta garantita
dalla Bce come prestatore di ultima istanza. Fate come la Fed e riavremo la crescita!, diventa lo slogan, esplicito o implicito, da imporre in primis contro Berlino.
Già,
peccato che nelle attuali condizioni creare moneta per l’Europa - e non
per gli States che maneggiano il dollaro moneta mondiale! - equivale a
creare debito da garantire con ulteriori espropriazioni dei
beni comuni e, posto che vi si riesca, con una “crescita” resa possibile
da un incremento senza precedenti dello sfruttamento e
dell’impoverimento. Oltretutto con la quasi garanzia di esporsi ancor di
più agli artigli della finanza transnazionale che stando ai segnali a
breve potrebbe puntare nuovamente sull’Europa (e sull’Italia in
particolare). La “soluzione”, come in una nevrosi da manuale che intravede
l’oggetto del desiderio ma su un piano sfasato, è non solo illusoria ma
riproduce senza volerlo il meccanismo che la assoggetta. Senza contare
poi le inevitabili “cattive compagnie” (da Soros a Berlusca… che si
leccano i baffi a ogni iniezione di liquidità della Bce mentre alzano la
voce contro Berlino) o ambivalenti “compagni di strada” che portando
alle estreme conseguenze proprio il ragionamento di cui sopra spingono o
spingeranno, in ottica nazionalista o peggio, per una fuoriuscita
dall’euro. Convergendo gli uni e gli altri di fatto con i piani oltre
Atlantico di dollarizzazione della sponda sud-europea (p.es. con
acquisti in dollari creati ex nihilo dei titoli di stato italiani e
spagnoli, come da indiscrezioni).
Fuor di metafora: non
ci sono scorciatoie, lottare contro la crisi non è facile né come
percorso di ricomposizione di soggetti né come programma e alternativa. È
certo necessario scoprire le carte schifose e ipocrite di questa Europa
ma non è sufficiente, tanto meno se si mette tra parentesi lo scontro
con gli States. In gioco è la ricerca di una via autonoma,
di classe e di parte, che invece di rincorrere (improbabili) briciole
da un rinnovato indebitamento e da vecchie ricette provi con percorsi
anche inediti di lotta a riappropriarsi della
ricchezza. Per una “crescita” della nostra capacità di produrre
relazioni sociali che rompano il meccanismo del mercato e del potere, e
non come ulteriore sottomissione ad essi. Se e in che misura questo
percorso può intrecciarsi con la costituzione di una sinistra in Europa e
a quali condizioni, è un discorso che andrà ripreso.
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