di Fabrizio Casari
Chi pensava che
il PD non era riuscito a vincere le elezioni per pochi voti e per colpa
di una legge elettorale assurda, da oggi può consolarsi. Il PD non
riesce ad avere la maggioranza degli aventi diritto al voto nemmeno
all’interno dei suoi organismi dirigenti, così da non riuscire a
cambiare uno Statuto che ormai sembra non piacere più a nessuno.
Davvero triste assistere alla lenta e penosa agonia di un partito che
ha nella sua storia lontana il DNA di un modello politico ed
organizzativo straordinario e che oggi non riesce nemmeno a convocare la
maggior parte del suo gruppo dirigente. Che senso ha scannarsi se non
si riesce nemmeno a parlarsi?
Lo scontro interno tra le correnti
fatte e quelle in via di formazione in vista del Congresso, ha ormai
letteralmente bloccato ogni pur timida capacità di presentarsi con una
proposta politica agli elettori e persino ai suoi stessi iscritti e,
proprio nel momento nel quale la destra si trova al bivio tra la sua
rifondazione e la sua scomparsa, riesce a dare il peggio della sua
storia, offrendo al fotofinish del berlusconismo una ciambella di
salvataggio.
E’ sempre buona norma non ironizzare e non
banalizzare i conflitti politici interni ai partiti, a condizione però
che siano il risultato di lacerazioni ideali, scelte programmatiche,
ipotesi politiche diverse. Quanto avviene all’interno del Partito
Democratico, invece, con tutto questo non ha niente a che vedere.
Trattasi esclusivamente di scontro di potere, con un giovanotto che non
dice niente ma sa dirlo bene, ansioso di salire sul podio del partito,
del paese e della storia; contro di lui un gruppo dirigente che non
pensa ma parla, da lui destinato alla rottamazione e che non ci sta ad
abbandonare il campo.
Non c’è nessuna significativa divaricazione
politica: l’idea che Renzi ha della sinistra italiana diverge solo per
alcuni aspetti di dettaglio da quella dei vari Violante, D’Alema,
Veltroni ed ex associati. La differenza - quando c’è - attiene solo ad
una impostazione più o meno laica del costume, più liberale o più
cattolico-papalina dell’impianto giuridico che determina i diritti
individuali. In alcuni casi possono apparire sulla scena reminescenze di
teorie socialdemocratiche, ma sono mal comprese e peggio recitate.
Tutti
costoro ritengono inutile, superata nella sostanza, l’idea di una
sinistra come motore della trasformazione sociale, politica e culturale.
Chiusi nel baule prima i principi della rivoluzione bolscevica, poi
anche quelli della Rivoluzione francese, quindi per inerzia anche quelli
della socialdemocrazia europea, tutti ritengono che la supremazia del
mercato sull’organizzazione socioeconomica del paese non sia
discutibile, tutt’al più emendabile.
E abbandonate anche le tesi europeiste del Manifesto di Ventotene,
ritengono altresì che il disegno europeo non debba essere un progetto
unitario ed inclusivo su base continentale, alternativo all’unipolarismo
statunitense, bensì la fine del modello renano e l’applicazione di un
modello economico dogmatico e sconfitto dalla storia recente. Nuotando a
favor di corrente, ripropongono un disegno monetarista indigeribile e
fallimentare che resti comunque saldamente in mano delle lobbies
finanziarie internazionali.
Risale alla Bolognina l’ultimo - pur se sbagliato - tentativo di
analisi politica profonda dei mutamenti storici, sociali e politici in
forza dei quali un partito di governo dovrebbe aggiornare proposte e
linea politica. Dal 1991, con lo scioglimento del PCI e la nascita del
PDS in quel di Rimini, il maggior partito della sinistra italiana non ha
mai prodotto un’analisi approfondita sia dei mali della società
italiana che delle contraddizioni stridenti del modello di governance
internazionale affidata agli Usa. Si è evitato anche un ragionamento
serio sull’ingovernabilità delle contraddizioni profonde insite ed
esplicite del modello finanziario imperante, che distrugge il lavoro e
riduce al minimo gli ammortizzatori sociali, un tempo cerniera di
riequilibrio di fronte alle sperequazioni che pure un modello economico
inclusivo inevitabilmente produceva.
Il
che ha permesso e permette la coesistenza nello stesso conglomerato di
tutto e il contrario di tutto, di un arcobaleno di storie, posizioni
politiche ed identità ideologiche che, come una maionese impazzita,
nello stare insieme in funzione di un progetto esclusivamente governista
hanno prodotto un partito privo di senso, anche di quello del ridicolo.
Di fronte all’assoluta incapacità di osare pensare e proporre,
di rileggere in controluce la società italiana, il PD si candida ormai
solo ad amministrare la cosa pubblica con persone diverse, non con idee
diverse. Non ha nulla da obiettare sulle ricette amare e fallimentari
intraprese dai governi Monti e Letta, rispettivamente sostenuti e
partecipati, e limita a qualche esternazione di Fassina le ipotetiche
misure diverse delle quali si farebbe portatore.
Il che non
toglie che la vittoria di Renzi archivierebbe per sempre quanto resta
dell’identità di sinistra ospite del PD, ma si tratterebbe solo della
formalizzazione di un progetto di nuovo partito centrista a vocazione
progressista come è già oggi. Dunque nessuna particolare novità, semmai
solo maggiore efficienza nel comunicare.
Forse proprio perché
cresciuto all’ombra della berlusconizzazione della società italiana, il
PD sembra averne subito il contagio nell’idea della funzione storica di
un partito. Mentre l’Italia precipita verso il basso, mentre il lavoro
muore, il welfare scompare, la stessa idea di paese crolla, così come la
destra si è asserragliata nel castello a difesa delle aziende del suo
capo, il PD non trova di meglio che discutere da sei mesi delle postille
del suo statuto, del nominalismo ipocrita delle sue cariche, delle rese
dei conti interni e dei suoi veleni di palazzo.
Incapace di un colpo di reni in avanti, non in grado di ritornare a
parlare al paese e ai suoi elettori, ha nelle sue misere vicende interne
l’unico obiettivo della sua azione politica quotidiana.
Ma se
la disputa congressuale sarà anche dirimente per i ruoli e gli stipendi
dei suoi protagonisti, all’Italia questo PD non serve più. E’ persino
dannoso oltre che inutile, perché dona di riflesso alla destra, magari
involontario, una luce che altrimenti non avrebbe. Porta infatti al voto
milioni di elettori di destra più spaventati per una eventuale vittoria
del PD che convinti dalla bontà del progetto berlusconiano.
E’
arrivato quindi il momento di staccare la spina. Quando un partito è
diviso in correnti di potere prive di contenuto, è ora di prendere atto
di un fallimento politico. Il Partito Democratico, semplicemente, non
c’è più.
Per
quanto con dolore, dovrebbero prenderne atto militanti ed elettori
visto che i dirigenti, abbarbicati al potere e al denaro, alla fama e ai
privilegi che ne caratterizzano lo stile di vita, si guardano bene
dall’ammettere il loro fallimento.
E di fronte alla fine di Berlusconi, alla crisi di una destra che ha
tutte le caratteristiche per divenire terminale, il PD - che negli
ultimi venti anni altro non è stato se non una opposizione (blanda) al
berlusconismo, comunque un ostacolo per il tentativo di trasformare il
paese in una holding della famiglia dei rifatti e dei misfatti, è ora
divenuto un elemento inutile nel panorama politico italiano, persino
dannoso sotto certi aspetti.
E’ dannoso anche perché drena le
residue, romantiche illusioni di chi da una vita intera in quella
storia, nonostante tutte le inversioni a 360 gradi succedutesi, in
qualche modo si è riconosciuto, convinto che, in fondo, l’identità della
sinistra non poteva essere scomparsa del tutto.
Il panorama politico della sinistra è oggi rappresentato da SEL e dal
Movimento 5 Stelle, nonostante la prima sia decisamente al di sotto
delle necessità e quest’ultimo rifiuti di essere catalogato a sinistra,
benché ne occupi lo spazio. Ma almeno il M5S è vivo: non è all’altezza
di quello che servirebbe, ma è vivo.
E’ nato proprio grazie ad
una sinistra sterile, non in grado di assolvere il compito storico di
cui ci sarebbe così tremendamente bisogno, scomparsa sotto i piedi di
chi, ossessionato dal suo ego celebrato nei salotti e privo di senso
della storia, ha deciso di schiacciarla sotto i suoi piedi nel bel mezzo
dell’indifferenza generale.
Quello che abbiamo davanti non è un gran bel panorama e la prossima
volta, per decidere chi votare, ci toccherà dotarci di robuste lenti a
specchio, che almeno ci obblighino ad una reazione, rimandandoci addosso
l’immagine della nostra impotenza.
Fonte
Un'analisi impietosa, che fa male ma talmente realista da non poter essere ignorata anche volendo mettere la testa sotto la sabbia.
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