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24/09/2013

Il baratro del PD

di Fabrizio Casari

Chi pensava che il PD non era riuscito a vincere le elezioni per pochi voti e per colpa di una legge elettorale assurda, da oggi può consolarsi. Il PD non riesce ad avere la maggioranza degli aventi diritto al voto nemmeno all’interno dei suoi organismi dirigenti, così da non riuscire a cambiare uno Statuto che ormai sembra non piacere più a nessuno.
Davvero triste assistere alla lenta e penosa agonia di un partito che ha nella sua storia lontana il DNA di un modello politico ed organizzativo straordinario e che oggi non riesce nemmeno a convocare la maggior parte del suo gruppo dirigente. Che senso ha scannarsi se non si riesce nemmeno a parlarsi?

Lo scontro interno tra le correnti fatte e quelle in via di formazione in vista del Congresso, ha ormai letteralmente bloccato ogni pur timida capacità di presentarsi con una proposta politica agli elettori e persino ai suoi stessi iscritti e, proprio nel momento nel quale la destra si trova al bivio tra la sua rifondazione e la sua scomparsa, riesce a dare il peggio della sua storia, offrendo al fotofinish del berlusconismo una ciambella di salvataggio.

E’ sempre buona norma non ironizzare e non banalizzare i conflitti politici interni ai partiti, a condizione però che siano il risultato di lacerazioni ideali, scelte programmatiche, ipotesi politiche diverse. Quanto avviene all’interno del Partito Democratico, invece, con tutto questo non ha niente a che vedere. Trattasi esclusivamente di scontro di potere, con un giovanotto che non dice niente ma sa dirlo bene, ansioso di salire sul podio del partito, del paese e della storia; contro di lui un gruppo dirigente che non pensa ma parla, da lui destinato alla rottamazione e che non ci sta ad abbandonare il campo.

Non c’è nessuna significativa divaricazione politica: l’idea che Renzi ha della sinistra italiana diverge solo per alcuni aspetti di dettaglio da quella dei vari Violante, D’Alema, Veltroni ed ex associati. La differenza - quando c’è - attiene solo ad una impostazione più o meno laica del costume, più liberale o più cattolico-papalina dell’impianto giuridico che determina i diritti individuali. In alcuni casi possono apparire sulla scena reminescenze di teorie socialdemocratiche, ma sono mal comprese e peggio recitate.

Tutti costoro ritengono inutile, superata nella sostanza, l’idea di una sinistra come motore della trasformazione sociale, politica e culturale. Chiusi nel baule prima i principi della rivoluzione bolscevica, poi anche quelli della Rivoluzione francese, quindi per inerzia anche quelli della socialdemocrazia europea, tutti ritengono che la supremazia del mercato sull’organizzazione socioeconomica del paese non sia discutibile, tutt’al più emendabile.
E abbandonate anche le tesi europeiste del Manifesto di Ventotene, ritengono altresì che il disegno europeo non debba essere un progetto unitario ed inclusivo su base continentale, alternativo all’unipolarismo statunitense, bensì la fine del modello renano e l’applicazione di un modello economico dogmatico e sconfitto dalla storia recente. Nuotando a favor di corrente, ripropongono un disegno monetarista indigeribile e fallimentare che resti comunque saldamente in mano delle lobbies finanziarie internazionali.
Risale alla Bolognina l’ultimo - pur se sbagliato  - tentativo di analisi politica profonda dei mutamenti storici, sociali e politici in forza dei quali un partito di governo dovrebbe aggiornare proposte e linea politica. Dal 1991, con lo scioglimento del PCI e la nascita del PDS in quel di Rimini, il maggior partito della sinistra italiana non ha mai prodotto un’analisi approfondita sia dei mali della società italiana che delle contraddizioni stridenti del modello di governance internazionale affidata agli Usa. Si è evitato anche un ragionamento serio sull’ingovernabilità delle contraddizioni profonde insite ed esplicite del modello finanziario imperante, che distrugge il lavoro e riduce al minimo gli ammortizzatori sociali, un tempo cerniera di riequilibrio di fronte alle sperequazioni che pure un modello economico inclusivo inevitabilmente produceva.
Il che ha permesso e permette la coesistenza nello stesso conglomerato di tutto e il contrario di tutto, di un arcobaleno di storie, posizioni politiche ed identità ideologiche che, come una maionese impazzita, nello stare insieme in funzione di un progetto esclusivamente governista hanno prodotto un partito privo di senso, anche di quello del ridicolo.

Di fronte all’assoluta incapacità di osare pensare e proporre, di rileggere in controluce la società italiana, il PD si candida ormai solo ad amministrare la cosa pubblica con persone diverse, non con idee diverse. Non ha nulla da obiettare sulle ricette amare e fallimentari intraprese dai governi Monti e Letta, rispettivamente sostenuti e partecipati, e limita a qualche esternazione di Fassina le ipotetiche misure diverse delle quali si farebbe portatore.

Il che non toglie che la vittoria di Renzi archivierebbe per sempre quanto resta dell’identità di sinistra ospite del PD, ma si tratterebbe solo della formalizzazione di un progetto di nuovo partito centrista a vocazione progressista come è già oggi. Dunque nessuna particolare novità, semmai solo maggiore efficienza nel comunicare.

Forse proprio perché cresciuto all’ombra della berlusconizzazione della società italiana, il PD sembra averne subito il contagio nell’idea della funzione storica di un partito. Mentre l’Italia precipita verso il basso, mentre il lavoro muore, il welfare scompare, la stessa idea di paese crolla, così come la destra si è asserragliata nel castello a difesa delle aziende del suo capo, il PD non trova di meglio che discutere da sei mesi delle postille del suo statuto, del nominalismo ipocrita delle sue cariche, delle rese dei conti interni e dei suoi veleni di palazzo.
Incapace di un colpo di reni in avanti, non in grado di ritornare a parlare al paese e ai suoi elettori, ha nelle sue misere vicende interne l’unico obiettivo della sua azione politica quotidiana.

Ma se la disputa congressuale sarà anche dirimente per i ruoli e gli stipendi dei suoi protagonisti, all’Italia questo PD non serve più. E’ persino dannoso oltre che inutile, perché dona di riflesso alla destra, magari involontario, una luce che altrimenti non avrebbe. Porta infatti al voto milioni di elettori di destra più spaventati per una eventuale vittoria del PD che convinti dalla bontà del progetto berlusconiano.

E’ arrivato quindi il momento di staccare la spina. Quando un partito è diviso in correnti di potere prive di contenuto, è ora di prendere atto di un fallimento politico. Il Partito Democratico, semplicemente, non c’è più.

Per quanto con dolore, dovrebbero prenderne atto militanti ed elettori visto che i dirigenti, abbarbicati al potere e al denaro, alla fama e ai privilegi che ne caratterizzano lo stile di vita, si guardano bene dall’ammettere il loro fallimento.
E di fronte alla fine di Berlusconi, alla crisi di una destra che ha tutte le caratteristiche per divenire terminale, il PD - che negli ultimi venti anni altro non è stato se non una opposizione (blanda) al berlusconismo, comunque un ostacolo per il tentativo di trasformare il paese in una holding della famiglia dei rifatti e dei misfatti, è ora divenuto un elemento inutile nel panorama politico italiano, persino dannoso sotto certi aspetti.

E’ dannoso anche perché drena le residue, romantiche illusioni di chi da una vita intera in quella storia, nonostante tutte le inversioni a 360 gradi succedutesi, in qualche modo si è riconosciuto, convinto che, in fondo, l’identità della sinistra non poteva essere scomparsa del tutto.
Il panorama politico della sinistra è oggi rappresentato da SEL e dal Movimento 5 Stelle, nonostante la prima sia decisamente al di sotto delle necessità e quest’ultimo rifiuti di essere catalogato a sinistra, benché ne occupi lo spazio. Ma almeno il M5S è vivo: non è all’altezza di quello che servirebbe, ma è vivo.

E’ nato proprio grazie ad una sinistra sterile, non in grado di assolvere il compito storico di cui ci sarebbe così tremendamente bisogno, scomparsa sotto i piedi di chi, ossessionato dal suo ego celebrato nei salotti e privo di senso della storia, ha deciso di schiacciarla sotto i suoi piedi nel bel mezzo dell’indifferenza generale.
Quello che abbiamo davanti non è un gran bel panorama e la prossima volta, per decidere chi votare, ci toccherà dotarci di robuste lenti a specchio, che almeno ci obblighino ad una reazione, rimandandoci addosso l’immagine della nostra impotenza.

Fonte

Un'analisi impietosa, che fa male ma talmente realista da non poter essere ignorata anche volendo mettere la testa sotto la sabbia.

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