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28/09/2013

Uscire dal falso dilemma: considerazioni su Germania ed eurocrisi

Intervista a Raffaele Sciortino(*).

Quello in Germania è un voto che chiaramente rafforza il mandato interno ad Angela Merkel, nel senso della continuità. Tutto sommato, anche la piccola crescita della Spd va in questa direzione: leadership a Merkel, mentre si prepara una grande coalizione. Invece l’esautoramento dei liberali, per la prima volta nella storia della Repubblica federale tedesca, indica che i Monti tedeschi non piacciono, non piace cioè la linea dell'austerity in quanto tale. Ora si tratta di andare al di là dei commenti cronachisti e dell'analisi dei flussi elettorali; tra l’altro questi risultati erano abbastanza attesi, l’unica relativa novità è il quasi riuscito superamento della soglia del 5% di Alternative fuer Deutschland, gli anti-euro.

Allora cosa ci sta dietro? Il rafforzamento del mandato a Merkel rimanda, secondo me, a tre fattori, da approfondire. Innanzitutto, la gestione merkeliana dell’euro-crisi: una gestione a piccoli passi, però sempre molto ferma rispetto ai partner europei, per cui i salvataggi vanno bene ma devono essere condizionati a una linea che dire di austerity è un po’ riduttivo. La linea che sta seguendo – non è solo di Merkel, ma dell’elite politica e imprenditoriale – è quella del non rispondere alla crisi globale come stanno facendo gli Stati Uniti, cioè aumentando il debito. Non si risponde quindi alla crisi da debito inflazionando la moneta.

Come dire, non si risponde alla crisi finanziaria mettendo ancora più finanza?
Esatto. Un dato importante di fondo, che fuori dalla Germania non si valuta bene, è che questa linea ha portato la maggioranza dell’elettorato e dell’opinione pubblica tedesca a un crescente consenso all’euro (nonostante quello che si dica qui), come scelta da un lato irreversibile, dall’altro favorevole agli interessi della Germania. Questo è un piccolo capolavoro di Merkel. È riuscita ad arginare l’euroscetticismo dei paesi benestanti, e che lo faccia la Germania è decisivo per le risposte alla crisi, per gli equilibri politici e geopolitici europei. Il secondo dato – forse ancora più interessante, strettamente intrecciato al precedente – lo dico con una battuta: Merkel è soprannominata “Angela la rossa” dai giornali tedeschi e da parte dell’imprenditoria (c’è un articolo sull’ultimo “Le Monde Diplomatique” che ne dà uno spaccato). Merkel ha avuto il merito – anche rispetto all’elettorato socialdemocratico e dentro un quadro di crisi globale (non è vero che i tedeschi non guardano fuori, valutano e commisurano l’azione del governo rispetto alla relativa buona tenuta della Germania nella crisi globale) – di mantenere gli elementi minimi di un patto sociale, contemporaneamente tentando di incrementare i punti di forza tedeschi. In qualche modo, è quindi riuscita a tenere insieme una relativa preservazione della middle class con una politica di non deindustrializzazione (cioè di delocalizzazioni non a danno dell’industria tedesca e del mantenimento delle sue leve fondamentali). È quello che potremmo definire un neoliberismo ben temperato, che costituisce una sorta di riformismo nel tempo della crisi – e che ovviamente solo un’economia come quella tedesca può permettersi. È interessante che qui in tempo di crisi il riformismo viene portato avanti dal centro-destra e non dal centro-sinistra, da una socialdemocrazia completamente subalterna alla linea politica di Merkel, la quale le ha sottratto anche quegli elementi minimi di patto sociale. Ricordiamo che la socialdemocrazia tedesca sta ancora pagando le politiche di Schroeder: quando si parla di precarizzazione e di costituzione di un mercato del lavoro duale, tutto ciò è opera dei governi socialdemocratici, pesantemente puniti perché l’elettorato tedesco (a differenza di altri elettorati) non ha la memoria corta. Allo stesso modo, Angela Merkel ha riassunto la politica energetica e anti-nucleare dei verdi, che hanno perso.

In un primo tempo era nuclearista, dopo Fukushima ha cambiato rotta...
Viene sempre presentata come pragmatica o tattica, ma mostrando una capacità di modulare la risposta alla crisi, tenendo conto del problema della coesione sociale, di mantenere appunto un minimo patto sociale dentro la crisi.

Questo ovviamente all’interno dei confini tedeschi...
Certo, all’interno dei confini tedeschi, e scaricando ovviamente la crisi sugli altri (su questo ci torniamo, perché è più complicato di quello che sembra). La Cdu torna a essere quello che in Germania chiamano un volkspartei, che potremmo liberamente tradurre in italiano con partito nazional-popolare. Ma la cosa importante per il prosieguo della crisi anche fuori dalla Germania, è che è il centro-destra a fare questo. Vediamo dei segnali anche in altri contesti, in Polonia, in Ungheria e più in generale in Europa dell’est, che ci indicano che il non aprirsi completamente alla finanza e alla speculazione, e quindi tentare di gestire una politica che rimane neoliberista ma ben temperata, si delinea come una possibile strategia di risposta non americanista alla crisi.

Il terzo elemento che secondo me sta dietro al successo e al rafforzamento di Merkel non è di poco conto, per quanto non sia apparso in superficie nel dibattito pubblico: Merkel è stata premiata anche per aver evitato degli avventurismi interventisti in politica estera, per non essersi supinamente adeguata – come invece è successo ai governi francesi – alla politica statunitense. Basti pensare alla Libia, soprattutto adesso al tentato strike obamiano in Siria. E non è di poco conto il dibattito che si è aperto quest’estate in Germania sul Datagate, cioè sull’affare Snowden. Ha dunque intaccato l’immagine non so se degli Stati Uniti, ma sicuramente della presidenza Obama. Questo aprirebbe un ampio discorso geopolitico, perché nell’elite tedesca (e in vari siti iniziano a venir fuori anche i documenti) c’è una riflessione molto interessante sui costi crescenti dell’egemonia statunitense, in termini di strategie politico-militari, ma soprattutto come dicevo prima nei termini di un’errata risposta alla crisi: ripagare il debito con il debito, facendo leva sul dollaro come moneta mondiale. Qui si sta delineando qualcosa di molto interessante, su cui ho insistito molto in questi anni: attenzione, l’eurocrisi è parte della crisi globale, provincializziamo l’eurocrisi e non pensiamo che tutte le responsabilità stiano solo a Berlino.


Questi sono quindi quelli che tu individui come i fattori di fondo del risultato elettorale in Germania. Dal nostro punto di vista, invece, cosa significherà questa riconferma di Merkel, quali cambiamenti o più probabilmente continuità ci saranno nella gestione dell’eurocrisi?
All’interno, in Germania si prepara la grosse koalition, che tra l’altro è voluta anche dalla base dell’Spd, che vede come unica possibilità l’inserimento subalterno nella linea Merkel, per spartirsi i posti e stare dentro le cose che contano. In generale, il rafforzato mandato Merkel indica che non ci sarà un cambiamento sostanziale nell’affrontare la crisi. Anche se proprio questo rafforzamento amplia un pochino i margini di manovra per Berlino e per il governo Merkel nel permettere, soprattutto alla Banca centrale europea, una politica monetaria un minimo meno restrittiva, consentendo di non tirare troppo la corda rispetto alla periferia. Hanno allungato al 2015 il rientro del deficit di Spagna e Francia, vedremo se ci sarà – come è probabile – un nuovo pacchetto di aiuti alla Grecia. Per dirla con una battuta: se a Letta in Italia è consentito di fare il governo del non fare, ovvero di dare un minimo su Imu e forse su Iva e di non proseguire la politica durissima di Monti (ovviamente lasciando al contempo tutti i problemi aperti), questo è possibile grazie a questo relativo allentamento della politica rigorista che Berlino ha concordato con la Banca centrale europea, e nel rapporto con la Federal Reserve e con gli Stati Uniti. Anche qui andrebbe aperta una discussione: questo voto dimostra che alla Germania l’euro interessa eccome, non è cioè una politica suicida di distruzione dell’euro. Però, per la Germania salvare l’euro e l’integrazione europea – ovviamente a propri fini di rafforzamento capitalistico – significa non incrementare il debito che aprirebbe le porte alla speculazione finanziaria transnazionale, come si è visto nella crisi dei debiti sovrani di due anni e mezzo fa.

È un difficilissimo equilibro. Non devono tirare troppo la corda rispetto alla periferia, perché se in Grecia hanno potuto fare quello che hanno fatto in quanto è piccola, di poco conto e isolata, è chiaro che se la linea di faglia si sposta sul fronte Spagna e Italia, nell’approfondimento dell’eurocrisi questa è la vera variabile. Il quadro di crisi globale peggiora: abbiamo visto il rallentamento anche nei paesi emergenti, gli Stati Uniti non sanno bene cosa fare, la Federal Reserve una settimana dice che ritira parzialmente il quantitative easing e la settimana dopo lo riconferma, è un indice appunto del non sapere cosa fare. In questo quadro, è chiaro che non è facile l’equilibrio merkeliano, il non tirar troppo la corda rispetto ai paesi della periferia europea, in particolare Spagna e Italia. Se saltano questi due la Germania non è in grado di salvarli, ed è chiaro che da un punto di vista sociale e politico si sconquassa l’integrazione europea. Se quindi da un lato l’obiettivo di Merkel è di non cambiare la politica europea, allentando un minimo i margini dell'austerity, dall’altro le variabili decisive non sono decise da Merkel. Dipendono da come va avanti la crisi globale, da cosa faranno gli Stati Uniti, cioè che tipo di instabilità ri-esporteranno. Questo è un punto importante, perché il successo elettorale di Merkel e questa relativa pausa dal punto di vista capitalistico dell’eurocrisi, sono stati possibili proprio perché la Germania ha contenuto le pressioni americane a una politica monetaria espansiva favorevole all’esportazione della crisi attraverso l’immissione di liquidità. Stoppato questo, gli Stati Uniti rientrano pesantemente in una situazione di instabilità interna, lo abbiamo visto anche nella vicenda siriana.

Come cercheranno di scaricare la crisi gli Stati Uniti, visto che Obama non è finora riuscito a risolverla all’interno? 
Qui abbordiamo il nostro campo politico. Siccome la crisi è solo momentaneamente in standby, con tutte le conseguenze sociali che però comporta nello sfarinamento della società, nella precarizzazione e in tutto quello che sappiamo, allora noi osserviamo – in Italia e in tutto il fronte sud europeo – che si sta diffondendo un umore crescente anti-Merkel, anti-Germania e anti-euro. Questo è davvero il punto di debolezza della Germania. La Germania è fin qui riuscita a evitare la precipitazione della crisi, ma non è in grado da sola di rilanciare la crescita. Su questo bisognerebbe aprire una parentesi polemica verso tutti gli economisti di sinistra: nella divisione internazionale europea del lavoro, la Germania – per quello che è il suo apparato produttivo – per quanto potrebbe fare una politica meno rigorista e un po’ più keynesiana, ma comunque non sarebbe questo il fattore decisivo di una ripresa di consumi e di crescita per tutta l’Europa. Con questi umori crescenti anti-Germania e anti-euro dovremo farci i conti quando la crisi ritornerà in un girone più serio.


Secondo te queste sono delle scorciatoie della sinistra?
Da un lato sono delle reazioni comprensibili e legittime a una situazione di crisi irrisolta e in un certo senso irrisolvibile. Dall’altro, sono però come dicevi tu delle scorciatoie e delle vie di fuga. Come risposta antagonista a questo quadro, noi siamo un po’ chiusi in un falso dilemma. Da una parte ci sono gli europeisti a prescindere: non parlo degli europeisti borghesi, ma di quella parte che nel movimento e nella discussione a sinistra dice “salviamo l’Europa a prescindere, anche questa Europa, perché rappresenta un terreno di conflitto più ampio, altrimenti torniamo a una guerra di tutti contro tutti, al nazionalismo, ecc.”. Questo è vero, ma ovviamente non convince, perché nelle lotte non si può essere europeisti a prescindere. Dall’altra parte ci sono questi umori profondi, che sono l’altra faccia del successo tedesco e il suo elemento di fragilità. Questi umori anti-Germania e anti-euro per ora sono contenuti: anche nelle lotte in Grecia la gente non voleva e non vuole uscire dall’euro, perché si rende conto che il problema è contrattare al massimo un aggancio, altrimenti è ancora peggio. Qui andrebbe fatta un’analisi anche sugli interessi dei differenti strati sociali. Dal mio punto di vista, però, anche l’anti-europeismo, l’anti-tedeschismo e l’anti-eurismo sono una scorciatoia perché ributtano semplicemente all’esterno il problema di fare i conti con il proprio governo, con la propria classe politica, con la propria classe dirigente, con la propria classe imprenditoriale. È quindi una scorciatoia nazionalista o sub-nazionalista che non permette di fare i conti con i nodi politici della crisi e del conflitto. Il problema, difficile, è allora come non farsi incastrare tra queste due posizioni e cercare una “terza via” antagonista. Chiaramente, in questo momento non siamo noi, i movimenti e le lotte in grado di imporre il terreno: se l’euro si sfascia dovremo prendere la situazione per quella che è, però stando attenti a costruire una visione di lotta che sfugga a questo dilemma.

(*) Sbobinatura a cura di Commonware dell'intervista realizzata ai microfoni di Radio Blackout (http://radioblackout.org/2013/09/germania-la-merkel-fa-tris/)

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