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27/09/2013

In gas we trust

A largo di Livorno c’è un’isola artificiale che ha le sembianze di una nave. Ma quella ancorata a 22 chilometri dalla costa toscana, in realtà, è una “grande opera”, un rigassificatore. L’impianto “FSRU Toscana” è arrivato per mare a fine luglio: riconvertire la Golar Frost, una nave gasiera, in un impianto in grado di trasformare il gas liquido (LNG) in forma gassosa, sono stati spesi 800 milioni di euro.
Il rigassificatore offshore ha una "capacità" di 11 milioni di metri cubi di gas al giorno, che verrebbero immessi - e venduti - attraverso la rete di distribuzione nazionale. Il progetto è costato oltre il doppio rispetto alle stime iniziali, e anche rispetto ad altri impianti simili costruiti negli ultimi anni, e rappresenta un esempio di grande opera che mai si sarebbe potuta costruire senza un deciso e sostanzioso sostegno pubblico. Finanziario e politico.

Per questo, vale la pena ricostruirne tutta la storia, che inizia nel 2002. Quell’anno, a Livorno si inizia a parlare del rigassificatore. Nel frattempo, il progetto è stato rivisto, il suo schema finanziario è cambiato e sono mutati i soci della OLT, una sigla che sta per Offshore LNG Toscana, l’azienda creata per costruire il rigassificatore (la società che ha originariamente sviluppato il progetto oggi detiene appena il 3,73% delle azioni della società, controllata da E.On e Iren). A guidare i lavori, e a spendersi per trovare le risorse, è stata da principio la società di servizi Iride, che già nel 2008 ha presentato una richiesta di finanziamento alla Banca europea degli investimenti (BEI), la più grande istituzione finanziaria pubblica europea. Poi Iride è divenuta Iren, e la nuova multiutility ha fatto suo il progetto di Livorno, assieme alla tedesca E.On. La BEI, invece, non ha creduto subito nel progetto, e forse nel piano di rientro dal prestito proposto da OLT, e nella formula del project finance, sulla cui base anche altre banche private avrebbero dovuto prestare a OLT.

Qualcosa quindi non funziona: OLT fatica a trovare i fondi, e negli anni successivi cambia drasticamente il piano finanziario. E.On e Iren finanziano con risorse proprie il rigassificatore (nel caso di Iren, soprattutto attraverso Iren Mercato) fino al 2012, quando a fine dicembre la BEI approva un prestito di ben 240 milioni di euro all’azienda, nell’area corporate finance. Insomma, Iren ci ha messo la faccia, pur di portare a termine la costruzione del rigassificatore: peccato non fosse la sua. Mentre la BEI continuava a prestare risorse pubbliche a Iren (non solo per il rigassificatore), infatti, la società - su spinta degli enti locali azionisti, tra cui i Comuni di Torino, Genova, Piacenza, Parma e Reggio Emilia - fa di fatto dividend lending: punta, cioè, sul valore della propria quotazione in Borsa per ricapitalizzare l’azienda e distribuire dividendi ai soci, ricorrendo al prestito per gli investimenti. Pochi mesi dopo l’arrivo del prestito BEI, nel maggio del 2012,  si verifica il crollo finanziario di Iren. Cala il prezzo di listino - meno 20 per cento a Piazza Affari -, mentre escono i dati economici che descrivono un’azienda sotto-capitalizzata e altamente indebitata (per circa 3 miliardi di euro, in quel momento), che però continua a distribuire dividendi agli azionisti, e per farlo intacca anche le proprie riserve

Anche se le basi di Iren sono poco solide, il prestito della BEI era garantito: ci ha pensato il governo italiano, tramite la Sace (ora controllata da Cassa depositi e prestiti). Questo significa che la realizzazione di questo progetto è stata favorita da un prestito pubblico europeo con garanzia pubblica italiana. Tutto ciò a conferma che solido o no, pericoloso o meno, il rigassificatore andava fatto...
Questa grande opera, costruita nello spirito del “libero mercato”, per spezzare il monopolio di Eni nella distribuzione e diversificare la fornitura di gas, ha ricevuto un ulteriore aiuto da parte dello Stato, questa volta per mano dell’Autorità per l’energia e il gas (AEEG): una decisione di qualche anno fa stabilisce che lo Stato si farà carico, in ogni caso, della copertura del 71,5 per cento dei ricavi “attesi” dagli impianti di rigassificazione (calcolati sulla capacità di rigassificazione, e indipendenti dalle operazioni effettive). 
Un costo non da poco - oggi valutato in oltre 100 milioni di euro l’anno per un impianto che ad oggi sembra rigassificherà assai poco - che lo Stato sceglie di scaricare sulle spalle dei cittadini per favorire l’utile del privato - OLT e i suoi soci, in questo caso - e l’aumento del consumo di gas, oggi in calo.

Sotto attacco dalle associazioni dei consumatori per le alte tariffe del gas (abbiamo le bollette più alte d’Europa, ndr), l’Autorità si è vista bocciare durante l’estate il ricorso al Tribunale amministrativo regionale (TAR) della Lombardia in cui tentava una “revisione” del sussidio, ed è ora in attesa del giudizio del Consiglio di Stato. 
Intanto monta la querelle, specialmente ora che il rigassificatore è stato testato  (l’8 settembre scorso è stata completata la prima operazione di scarico di gas liquido) ma si sa che lo stesso ha una capacità di rigassificazione modesta e - soprattutto - non ha contratti di fornitura. Bastava forse ascoltare il Comitato contro il rigassificatore di Livorno e Vertenza Livorno, ovvero quelli che da sempre si battono contro quest’opera, perché questa discussione avesse luogo dieci anni fa. Avremmo così evitato lo spreco di centinaia di milioni di euro di risorse pubbliche, che in tempo di crisi avrebbero potuto alimentare altri canali di spesa. Più utili senz’altro di questo rigassificatore, imposto da affari e interessi altri, che utile non è.


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