A largo di Livorno c’è un’isola artificiale che ha le sembianze di una nave.
Ma quella ancorata a 22 chilometri dalla costa toscana, in realtà, è
una “grande opera”, un rigassificatore. L’impianto “FSRU Toscana” è
arrivato per mare a fine luglio: riconvertire la Golar Frost, una nave
gasiera, in un impianto in grado di trasformare il gas liquido (LNG) in forma gassosa, sono stati spesi 800 milioni di euro.
Il rigassificatore offshore ha una "capacità" di 11 milioni di
metri cubi di gas al giorno, che verrebbero immessi - e venduti -
attraverso la rete di distribuzione nazionale. Il progetto è costato
oltre il doppio rispetto alle stime iniziali, e anche rispetto ad altri
impianti simili costruiti negli ultimi anni, e rappresenta un esempio di
grande opera che mai si sarebbe potuta costruire senza un deciso e
sostanzioso sostegno pubblico. Finanziario e politico.
Per questo, vale la pena ricostruirne tutta la storia, che inizia nel 2002.
Quell’anno, a Livorno si inizia a parlare del rigassificatore. Nel
frattempo, il progetto è stato rivisto, il suo schema finanziario è
cambiato e sono mutati i soci della OLT, una sigla che sta per Offshore LNG Toscana,
l’azienda creata per costruire il rigassificatore (la società che ha
originariamente sviluppato il progetto oggi detiene appena il 3,73%
delle azioni della società, controllata da E.On e Iren).
A guidare i lavori, e a spendersi per trovare le risorse, è stata da
principio la società di servizi Iride, che già nel 2008 ha presentato
una richiesta di finanziamento alla Banca europea degli investimenti (BEI),
la più grande istituzione finanziaria pubblica europea. Poi Iride è
divenuta Iren, e la nuova multiutility ha fatto suo il progetto di
Livorno, assieme alla tedesca E.On. La BEI, invece, non ha creduto
subito nel progetto, e forse nel piano di rientro dal prestito proposto
da OLT, e nella formula del project finance, sulla cui base anche altre
banche private avrebbero dovuto prestare a OLT.
Qualcosa quindi non funziona: OLT fatica a trovare i fondi, e negli anni
successivi cambia drasticamente il piano finanziario. E.On e Iren
finanziano con risorse proprie il rigassificatore (nel caso di Iren,
soprattutto attraverso Iren Mercato) fino al 2012, quando a fine
dicembre la BEI approva un prestito di ben 240 milioni di euro
all’azienda, nell’area corporate finance. Insomma, Iren ci ha messo la
faccia, pur di portare a termine la costruzione del rigassificatore:
peccato non fosse la sua. Mentre la BEI continuava a prestare risorse
pubbliche a Iren (non solo per il rigassificatore), infatti, la società
- su spinta degli enti locali azionisti, tra cui i Comuni di Torino, Genova, Piacenza, Parma e Reggio Emilia - fa di fatto dividend lending:
punta, cioè, sul valore della propria quotazione in Borsa per
ricapitalizzare l’azienda e distribuire dividendi ai soci, ricorrendo al
prestito per gli investimenti. Pochi mesi dopo l’arrivo del prestito
BEI, nel maggio del 2012, si verifica il crollo finanziario di Iren.
Cala il prezzo di listino - meno 20 per cento a Piazza Affari -, mentre
escono i dati economici che descrivono un’azienda sotto-capitalizzata e
altamente indebitata (per circa 3 miliardi di euro, in quel momento), che però continua a distribuire dividendi agli azionisti, e per farlo intacca anche le proprie riserve.
Anche se le basi di Iren sono poco solide, il prestito della BEI era
garantito: ci ha pensato il governo italiano, tramite la Sace (ora
controllata da Cassa depositi e prestiti). Questo significa che la
realizzazione di questo progetto è stata favorita da un prestito
pubblico europeo con garanzia pubblica italiana. Tutto ciò a conferma
che solido o no, pericoloso o meno, il rigassificatore andava fatto...
Questa grande opera, costruita nello spirito del “libero mercato”, per
spezzare il monopolio di Eni nella distribuzione e diversificare la
fornitura di gas, ha ricevuto un ulteriore aiuto da parte dello Stato,
questa volta per mano dell’Autorità per l’energia e il gas (AEEG):
una decisione di qualche anno fa stabilisce che lo Stato si farà
carico, in ogni caso, della copertura del 71,5 per cento dei ricavi
“attesi” dagli impianti di rigassificazione (calcolati sulla capacità di
rigassificazione, e indipendenti dalle operazioni effettive).
Un costo
non da poco - oggi valutato in oltre 100 milioni di euro l’anno per un
impianto che ad oggi sembra rigassificherà assai poco - che lo Stato
sceglie di scaricare sulle spalle dei cittadini per favorire l’utile
del privato - OLT e i suoi soci, in questo caso - e l’aumento del consumo
di gas, oggi in calo.
Sotto attacco dalle associazioni dei consumatori per le alte tariffe del gas
(abbiamo le bollette più alte d’Europa, ndr), l’Autorità si è vista
bocciare durante l’estate il ricorso al Tribunale amministrativo
regionale (TAR) della Lombardia in cui tentava una “revisione” del
sussidio, ed è ora in attesa del giudizio del Consiglio di Stato.
Intanto monta la querelle, specialmente ora che il rigassificatore è
stato testato (l’8 settembre scorso è stata completata la prima
operazione di scarico di gas liquido) ma si sa che lo stesso ha una
capacità di rigassificazione modesta e - soprattutto - non ha contratti di
fornitura. Bastava forse ascoltare il Comitato contro il rigassificatore di Livorno e Vertenza Livorno,
ovvero quelli che da sempre si battono contro quest’opera, perché
questa discussione avesse luogo dieci anni fa. Avremmo così evitato lo
spreco di centinaia di milioni di euro di risorse pubbliche, che in
tempo di crisi avrebbero potuto alimentare altri canali di spesa. Più
utili senz’altro di questo rigassificatore, imposto da affari e
interessi altri, che utile non è.
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