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19/09/2013

Kill, kill, kill for growth. Dalla Siria, Obama dopo Obama

(Libero adattamento da un titolo dei Fugs)
di Nicola Casale, Raffaele Sciortino

Quello che fino a qualche giorno fa sembrava l’inevitabile attacco Usa alla Siria è dunque al momento stoppato, lo scontro si è mantenuto all’interno del quadro diplomatico dove un abile Putin ha offerto una foglia di fico a un’Obama in difficoltà. La vicenda è tutt’altro che chiusa. Alla guerra per procura si aggiungerà il calvario dei controlli sulle armi chimiche (come da copione irakeno?) mentre il minacciato strike è un messaggio inequivocabile per l’Iran che non mancherà di avere conseguenze.
L’amministrazione Obama non ne esce bene sul piano politico. I rumori di guerra che hanno lasciato il mondo tra l’attonito e il sorpreso iniziano a far giustizia della favoletta dell’unilateralismo statunitense affibbiato al solo Bush jr. Un colpo non da poco all’immagine internazionale del presidente - già non brillante sul fronte interno e per via della vicenda Snowden - che fin qui aveva saputo risollevare il soft power statunitense crollato a livelli non compatibili con le esigenze della leadership globale.
Ma c’è qualcosa di più. Siamo al primo significativo punto di quasi precipitazione delle tensioni internazionali accumulatesi dall’innesco della crisi globale che segna il ritorno della guerra come concretissima possibilità di “prosecuzione della crisi con altri mezzi” (basti pensare alle navi da guerra che affollano il Mediterraneo). Non ancora un punto di svolta, ma lo squarcio apertosi con la vicenda siriana getta una luce significativa sull’intreccio strettissimo delle tre principali linee di forza - tra le molteplici di un unico ma complicatissimo campo - decisive per gli scenari attuali e a venire. Crisi globale, dinamiche geopolitiche, reazioni sociali alla crisi stessa.

Crisi fase due?
Una prima fondamentale domanda da porsi è se c’è un nesso non generico tra come sta evolvendo la dinamica della crisi e il cambio di marcia che la vicenda siriana lascia intravedere nella strategia internazionale statunitense.
Il bail out della grande finanza prima, le politiche di “alleggerimento quantitativo” con immissione massiccia di liquidità nei mercati ad opera della Federal Reserve statunitense poi, avranno pure evitato la catastrofe economica ma a costi pesantissimi di là dall’essersi esauriti. Il punto cruciale è che la ripartizione ineguale di questi costi, a scala geoeconomica e sulle diverse classi sociali, è diventata il terreno di scontro, che attizza tensioni di ogni genere. Chi scarica la crisi su chi: questa l’attualissima posta in palio che traspare da dietro le tensioni internazionali, la cui soluzione è al tempo stesso precondizione di ogni eventuale fuoriuscita capitalistica dalla crisi. Che, se pure, non si darà nel limbo di un mercato piatto ma emergerà dal rimescolamento non indolore degli assetti complessivi del sistema mondiale.
All’immediato, sul piano strettamente economico, sembrano i “paesi emergenti” a rischiare di più. Flussi speculativi di hot money si sono riversati negli ultimi anni su questi paesi e sui Brics - i soli peraltro ad aver sostenuto la crescita globale ma appunto a rischio di esporsi pericolosamente ai movimenti della finanza. Negli ultimi mesi, a fronte del rallentamento delle crescita anche in queste aree e degli accenni di politica monetaria un minimo meno compiacente della Fed (il famigerato tapering), le monete di India, Turchia, Indonesia, Brasile ecc. hanno iniziato a precipitare verso il basso con una fuga di capitali che non preannuncia nulla di buono. Anche la Cina, di ben altra solidità, è però alle prese con un rallentamento dei ritmi di crescita in parte dovuto alla stagnazione dei mercati di sbocco occidentali, in parte manovrato dal governo per ovviare ai primi seri segnali di una bolla creditizia e immobiliare frutto degli stimoli anti-crisi di questi anni. Il che pone con più urgenza alla dirigenza cinese il nodo dell’insostenibilità alla lunga di un modello economico fin qui imperniato su colossali investimenti infrastrutturali e sull’export e legato a doppio filo all’economia del debito statunitense, ma anche l’estrema difficoltà di un cambiamento liscio.
L’eurocrisi è provvisoriamente in stand-by. La “socializzazione” dei debiti privati collassati - con epicentro sull’altra sponda dell’Atlantico - e scaricati sui bilanci pubblici aveva fatto quasi esplodere i debiti sovrani della periferia europea, nel mentre la recessione ne aggrediva la dimensione produttiva, e messo a rischio la tenuta stessa dell’euro. Lo scontro che ne è seguito tra Washington e Berlino - la potenza più spiata secondo le rivelazioni Snowden (vedi qui) - ha visto contrapporsi due strategie di risposta. Quella americana di ripianare debito con nuovo debito, manovrando il dollaro moneta mondiale, ha fatto e fa pressione per una politica monetaria europea espansiva, se non direttamente per la mutualizzazione del debito dei paesi Ue, così da far attingere la finanza transnazionale alle casse di Berlino. Quella tedesca di impedire alla bolla di crescere ulteriormente, e in prospettiva di ridimensionarla sfruttando il potenziale produttivo europeo, ha però sostanzialmente retto alle pressioni yankee. Ciò ha poi permesso un minimo allentamento della stretta rigorista - e politiche monetarie più accomodanti della Bce nell’ultimo anno e mezzo - a evitare che i costi sociali pesanti per la periferia superassero la soglia sociale di guardia, con l’Italia proprio sulla linea di faglia.
Ciò però significa che la palla è rimbalzata o sta rimbalzando nel campo dell’economia statunitense! Moneta facile e tassi quasi a zero che hanno ricreato un’enorme bolla speculativa facendo risalire su valori pre-crisi i prezzi a Wall Street e i profitti delle istituzioni finanziarie, non hanno però contribuito sostanzialmente alla ripresa economica, in primis degli investimenti e quindi dell’occupazione, tanto meno di occupazione “buona” capace di risollevare i redditi della middle class. La strategia obamiana di insourcing si è finora limitata a poca cosa (comunque comporterebbe un duro scontro con Pechino) mentre quella energetica basata sullo shale gas - effettiva, ma dai costi ambientali altissimi: a proposito di green economy! - difficilmente può fare da volano per l’accumulazione complessiva pur rappresentando in prospettiva una notevole leva geopolitica verso i paesi produttori di materie prime.
Ora è il rischio di uno scoppio della nuova bolla non supportata da un growth “reale” corrispondente a spingere la Fed ad avvisare i mercati di accorciare la leva finanziaria (in maniera ambivalente perché se si diffonde il panico, si ottiene proprio quello che si vorrebbe evitare, da cui il movimento stop and go), e niente affatto la crescita prospettata dai media! Inoltre, il QE non solo ha ritorni decrescenti all’interno ma incrementando il debito rischia di minare la credibilità del biglietto verde come moneta mondiale e la capacità, non seriamente intaccata nonostante la crisi, di attrarre capitali da tutto il globo. Non a caso si stanno stringendo accordi di scambio commerciale, con perno sulla Cina, che bypassano il dollaro mentre anche la Germania, dopo il primo assalto all’euro, guarda sempre più a Oriente.
Insomma, nessun problema di fondo dell’economia globale è stato risolto, il nodo della distruzione di una parte assai più consistente della massa di capitale fittizio creatasi dagli anni Ottanta in poi è ancora tutto lì (vedi qui). Non solo le risposte dei vari attori divergono sempre più, ma gli Usa sono costretti ad accelerare la strategia di scarico dei costi e di utilizzo della leva geopolitica per imporre accordi economici - nel Pacifico il TPP in funzione anti-Cina ma con scarso successo, e ora all’Europa per trascinarla in una guerra degli standard economici col resto del mondo - che frenino la tendenza a creare blocchi regionali più autonomi dall’impero a stelle e strisce. Certo, l’equazione questa volta è assai più complessa che non per il Nixon del ’71 (sganciamento dollaro-oro) o il Volcker del ’79 (rialzo dei tassi), ma senza dubbio vedremo di nuovo all’opera l’unilateralismo della Federal Reserve…

Obama sulla via di Damasco…
Dunque, la strategia statunitense ha bisogno di un cambio di marcia, stante anche il preoccupante quadro sociale interno segnato dal quasi completo fallimento del change obamiano. Solo che al primo serio banco di prova - appunto la partita siriana - il riacquisito soft power internazionale di Obama ha fatto in gran parte cilecca.
Ora, per un’analisi minimamente seria delle mosse statunitensi, per prima cosa va sgomberato il campo da alcuni falsi argomenti. Primo, il presidente si sarebbe fatto trascinare con riluttanza in un’“avventura” di guerra, circondato da consiglieri incapaci (a proposito: tutti liberals doc, nessun cripto-neocons) e alleati infidi supportati da potenti lobby interne (quella ebraica e quella saudita). In realtà, l’aggressione alla Siria è fortemente voluta dall’amministrazione Obama che ci sta lavorando meticolosamente da due anni. Certo, la preferenza era per una ripetizione dell’operazione libica: “rivolta” interna, finanziamento e organizzazione di gruppi armati, supporto aereo e missilistico degli alleati, con gli Usa leading from behind, ma ognuna di queste condizioni ha preso una piega diversa, a partire dallo scarso appoggio tra la popolazione dei combattenti salafiti, l’intervento di Hezbollah, l’opposizione di Russia e Cina in sede Onu, ecc. Di conseguenza il profilo defilato non era più un’opzione pur con tutti i rischi del caso sia militari - come ha fatto rilevare il Pentagono - sia soprattutto politici, come si è poi visto.
Anche rispetto ai veri obiettivi del minacciato strike va fatta chiarezza. La scelta di fondo era e resta, al di là delle dichiarazioni più o meno reticenti, quella di puntare al regime change a Damasco. Leggiamo sul sito del Council on Foreign Relations: “Obiettivo numero due è chiaramente porre fine al regime di Assad, come affermato ufficialmente dal presidente due anni fa, il 18 agosto 2011. Ciò non comporta una metodologia definita ma a questo punto è chiaramente un obiettivo di sicurezza nazionale” (vedi qui). Del resto, una scelta chiaramente tracciabile a partire dall’appoggio all’opposizione armata anti-Assad, altrimenti inspiegabile. E non è un caso che il segretario di stato Kerry abbia accennato anche all’invio di truppe di terra (vedi su Asia Times gli articoli del 4 e del 10 settembre di M.K. Bhadrakumar). Quanto al casus belli dell’uso delle armi chimiche, è un classico (che Assad sia stato così stupido da usarle proprio mentre stava recuperando sul terreno e gli ispettori Onu erano in Siria? Non ci vuole la laurea per capirlo…).
Perché l’aggressione? Per due ragioni strategiche che si tengono insieme.
Distruggere la Siria in quanto stato dotato di una propria autonoma politica - come per la ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia - significa la chiusura dei conti storici con il nazionalismo anticoloniale, ancorché già sfigurato di suo, e della possibilità che stati post-coloniali siano dotati di una qualche autonomia dalla metropoli come, appunto, nel caso dell’asse Damasco-Teheran-Hezbollah (l’islamismo sciita rappresenta per l’Occidente ancora una spina nel fianco, al contrario di quello sunnita “normalizzato”). Destrutturazione delle entità statali, smantellamento di ogni progettualità di sviluppo economico, nessun limite alla circolazione dei capitali stranieri e alla rapina finanziaria. L’aggressione alla Siria si inquadra perfettamente nelle strategie di “uscita dalla crisi”, oggi in Medio Oriente, domani per gli Usa con la prospettiva di riprendersi l’America Latina (i cui governi “progressisti” non a caso non si sono mai lasciati abbindolare dalla favoletta della “primavera siriana”). Percorso difficile, certo, in cui ormai giocano quasi esclusivamente aspetti militari: gli Usa non hanno più quasi nulla da mettere in campo sul piano economico e vanno in difficoltà anche su quello finanziario non potendo contare ciecamente neanche sulla rendita delle petrolmonarchie. Ma la ragione di fondo per cui il Medio Oriente ritorna al centro della guerra sta nella manovra di rebalancing strategico degli Stati Uniti in marcia inesorabile verso il contenimento della Cina con il cosiddetto Pivot to Asia. Strategia che prevede - potenza marittima contro potenze terrestri - la destrutturazione degli stati, dal Medio Oriente ai confini cinesi, che possano far da ostacolo agli yankee mentre non prevede spazi di effettiva autonomia per nessuno attore regionale (se ne sta accorgendo la Turchia di Erdogan). La Cina va adeguatamente isolata e i paesi che potrebbero essere tentati dal sottoscrivere con Pechino patti in materia di politica industriale, agricola, commercio e finanza, vanno preventivamente richiamati all’ordine. Per questo, Washington non può lasciare il M.O. così com’è. Una costellazione di failed state in guerra civile permanente è certo una scelta di ripiego rispetto alla presenza di governi locali filo-imperialisti, ma questi reggono sempre meno, come Mubarak ha dimostrato.

… passando per Il Cairo
In effetti il timing dell’apertura della crisi siriana è legato sì al rapporto di forze militare sul terreno che rischiava di rovesciarsi a favore di Assad ma soprattutto agli sviluppi della “primavera araba”. Non è un caso se la decisione di intervenire militarmente è scattata all’indomani della normalizzazione dell’Egitto, così come due anni fa proprio sull’onda di piazza Tahrir era partita in Siria una mobilitazione sociale all’inizio genuina, non connotata “settariamente” ma incapace di coinvolgere l’insieme della società, poi infiltrata dall’esterno e portata sul terreno dello scontro militare nel quadro della risposta statunitense e delle petrolmonarchie allo sconvolgimento portato dalle sollevazioni in Tunisia, Egitto, Bahrein. A riprova dello strettissimo intreccio tra geopolitica della crisi e geopolitica delle lotte, un riuscito assalto alla Siria dovrebbe chiudere, nelle intenzioni di Washington e dei suoi alleati (Israele e petrolmonarchie), la falla apertasi con quella sollevazione, che ha messo a rischio l’assetto occidentale dell’intero Medio Oriente.
A dirla tutta, non era questa l’unica opzione possibile per Obama. Impegnato nel ritiro (comunque non totale) delle truppe dall’Iraq e alla “ricostruzione” del panorama domestico sconvolto dalla crisi finanziaria, il presidente ha provato a detournare, dall’interno per così dire, le istanze radicalmente democratiche di piazza Tahrir in senso non anti-occidentale, riuscendo sia a far fuori Gheddafi sia a contenere la rabbia furiosa, e la paura, di Israele e Arabia Saudita vistisi di colpo scoperti nello scacchiere dalla detronizzazione di Mubarak. In astratto, l’affermazione in Egitto di un governo liberal col supporto della nuova composizione sociale protagonista della lotta, avrebbe potuto non solo aprire a un ritorno degli americani in vesti “presentabili”, ma anche preparare il terreno per un regime change “dal basso” in Iran o almeno per una tregua col governo di Teheran, per il ridimensionamento delle pretese esorbitanti dell’alleato israeliano e, in prospettiva, per il rovesciamento della ultrareazionaria monarchia saudita (obiettivo dichiarato dei neocons). Un colpo grosso, simile per portata geopolitica ed economica al rapprochement con la Cina di Nixon-Kissinger (che permise il recupero della sconfitta in Vietnam e preparò l’implosione dell’Urss), però col target finale invertito (la Cina, questa volta, magari anche con un accordo con la Russia). Solo che per far questo ci vogliono risorse, non meramente di immagine, che gli States non hanno più in misura sufficiente per una effettiva Grand Strategy all’altezza di un contesto internazionale completamente mutato e sempre meno padroneggiabile!
Si prenda il caso egiziano. Obama in mancanza di alternative migliori ha puntato sui Fratelli Musulmani per rientrare in gioco rassicurando al contempo gli alleati dell’area. Ma non solo i FM si sono rivelati incapaci di sedare le rivendicazioni dal basso con riforme “inclusive”. Morsi ha anche osato dei piccoli passi sul piano esterno - ricucire verso l'Iran, ricontrattare su Gaza e sul gas del Sinai con Israele, rilanciare una politica più autonoma sul canale - che preparavano il terreno a un recupero ancorché minimo non dell’antimperialismo ma di spazi di manovra per sottrarsi ai ricatti del Fondo Monetario e contrattare aiuti meno pelosi di quelli ricevuti o promessi dai paesi del Golfo. Apriti cielo! Minato da subito da Arabia Saudita e Israele, il governo dei Fratelli è stato alla fine abbandonato dagli Usa a favore del ritorno dei militari, ben più efficaci nel “normalizzare” il paese soprattutto avendo provvisoriamente acquisito il consenso di piazza Tahrir (ci torniamo sotto).
Doppio risultato negativo per Obama. Non solo gli Usa si sono dimostrati poco affidabili nel garantire agli alleati più stretti l’ordine nell’area, che è il principale “bene pubblico” di cui sono stati finora erogatori unici. Ma si è anche dimostrato che, al di là di chi governa, un Egitto democratico (nel senso delle dinamiche sociali, al di là degli assetti istituzionali) non può che essere anti-americano se vuole riconquistare spazi di reale autodeterminazione, individuali e collettivi. Anche i nuovi generali dovranno farvi i conti alla luce dei problemi esplosivi che comporta lo sviluppo demografico e sociale in rapporto alle pratiche di spoliazione della globalizzazione.
All’immediato il risultato pare favorevole a Israele e Arabia Saudita. A Israele la situazione può tornare utile per la realizzazione del progetto di Rabin di egemonia economica, con intorno paesi non pacificati ma del tutto incapaci di costituire una minaccia contro il suo ruolo colonialista. I Saud si sono rivelati ancora in grado non solo di gestire la rendita petrolifera in funzione anti-rivoluzione, ma di ben controllare ai propri fini il salafismo jihadista, oramai depurato di ogni velleità “internazionalista” (la soffiata che ha consegnato Bin Laden agli yankees l’aveva sancito). Ma l’ordine resta per fortuna assai precario come la vicenda siriana sta mostrando, né questi due protagonisti locali del “ritorno all’ordine” hanno da offrire alcunché, se non bombe per schiacciarle o soldi per deviarle, alle istanze di democrazia reale delle popolazioni dell’area.

Non è facile essere Obama dopo Obama
Per molti aspetti, insomma, abbiamo un ritorno al futuro, al long war di bushiana memoria. Obama ha dato inizio al post-Obama, nulla sarà più come prima, in casa e fuori.
Ma oggi le contraddizioni sono ancora più esplosive. Basta guardare ai due fattori principali che stanno dietro i tentennamenti e le indecisioni della Casa Bianca nel passare dalla minaccia alla decisione effettiva di colpire Damasco. A renderla incerta e poi a stopparla, è stata la difficoltà tutta politica nel coinvolgere nella guerra sia il fronte interno sia uno schieramento ampio dei paesi occidentali. Su questo si è inserito il gioco russo, supportato dalla Cina, a evitare il ripetersi dello scenario libico. Vediamo.
Primo. Il consenso alla guerra si è rivelato da subito scarsissimo in Europa, dove pure il personaggio Obama finora sbancava come “liquidatore” delle guerre di Bush. Da ultimo, è vero, la vicenda Snowden ne ha appannato l’immagine, soprattutto in Germania, l’unico paese dove c’è stato un certo dibattito pubblico sulla questione. Il dato più importante è lo scollamento tra governi aggressivi che fremono per menare le mani, Francia e Gran Bretagna, e opinioni pubbliche restie a farsi trascinare in avventure belliche. Più in generale, la gente nel mezzo di una crisi economica che non passa vorrebbe che l'attenzione fosse concentrata sull’uscita dalla crisi, per dissipare il terrore che se non si ferma la spirale discendente si rischia di essere spogliati della condizione acquisita in decenni. Per ora nulla di più di questo, nessuna contestazione al proprio imperialismo. A dar voce a questo sentimento ma cercando di indirizzarlo in coscienza politica più generale, è stato papa Bergoglio con la sua azione di delegittimazione preventiva della guerra di Obama che ha evocato il rischio di una precipitazione bellica mondiale. A conferma che il papato è pienamente consapevole della profondità della crisi in quanto crisi della civiltà occidentale e sta correndo ai ripari esplicando il ruolo di “minoranza creativa” teorizzato da Ratzinger.
Negli States la reazione negativa ai venti di guerra è stata ancora più eclatante, non tanto come movimento organizzato ma come umori e opinione della stragrande maggioranza. È la riprova del fallimento di Obama nel ridare speranza e prospettive alla ripresa della middle class come base per il rilancio, su basi rinnovate, della leadership globale statunitense. Non basta il richiamo retorico del presidente all’eccezionalismo americano se poi questo si accompagna all’incremento record delle richieste dei food stamps, mentre a cinque anni dallo scoppio delle tempesta per la finanza, troppo grande per farla fallire, tutto è tornato come prima. La lezione di Clausewitz, sul nesso tra energia della massa e politica di guerra, impartisce un duro colpo ai rinnovati impegni “umanitari” di Obama. E rimette in campo, come è stato per Bush, la necessità di creare in qualche modo la paura del nemico (l’Iran nucleare sembra ad oggi il candidato migliore).
Secondo. Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, si è timidamente configurata, su una questione puntuale, la possibilità di un fronte fattivo di paesi alternativo agli Usa trasversale anche allo schieramento occidentale. È quanto ha dato corpo al ruolo diplomatico giocato, anche abilmente fin qui, da Putin. La questione decisiva non è in tutta evidenza il supporto militare russo all’alleato siriano, di per sé non decisivo, quanto la conferma che una fascia di paesi che va dalla Germania alla Cina ha sempre meno interesse a lasciar passare senza opposizione il gioco statunitense che rischia di incasinare ulteriormente il già precario quadro internazionale, anche economico. In particolare, in Europa la posizione di Berlino, pur sempre un po’ defilata, segna oramai una linea continua dal 2003 in avanti nei confronti di Washington, al polo opposto dei governi francesi (che in cambio beneficiano della neutralità dei “mercati” sul debito pubblico transalpino?).
Non si tratta della prefigurazione di un’alleanza anti-Usa, attenzione, cui nessuno ha allo stato né interesse né ambizione. (La stessa Russia non esclude la possibilità di stabilire con gli Stati Uniti patti di alleanza o di non-belligeranza). Si tratta di una sorta di richiamo al fratello maggiore, da parte degli europei, e alla potenza mondiale, da parte di Cina e Russia, a non tirare troppo la corda nell’interesse della tenuta d’insieme del sistema internazionale e quindi (presuntamente) degli stessi Stati Uniti. È a questi umori che la Russia, in questa occasione, ha dato voce ricevendone in cambio per ora parziale efficacia diplomatica - ecco una novità - che dalla prima guerra del Golfo in poi era sempre mancata a chi non era d’accordo con gli Stati Uniti.
Questi sono ancora chiaramente ritenuti da tutti necessari a garantire l’ordine globale, ma sempre più emerge la contraddizione tra la loro indispensabilità a fronte di eventuali sconquassi rivoluzionari e i costi sempre più pesanti che da questo ruolo ricadono sugli altri attori. È questo un nodo cruciale cui gli Usa sono chiamati urgentemente a ovviare ma con difficoltà crescenti a farlo. Il punto è come ricreare aspettative e consenso intorno a quello che è stato il compito storico del capitalismo statunitense, la capacità di dominare creando una prospettiva di ricchezza per tutti, sul piano interno come su quello internazionale. Senza di ciò è impossibile ricreare alleanze internazionali ampie e compatte nonché blocchi sociali interni convinti in vista degli scontri a venire. Le difficoltà rischiano di farsi veramente serie e il farsi soggetto d’ordine per l’insieme del capitalismo mondiale, declinandosi in termini puramente militari, può iniziare a vacillare. È questa fragilità della rendita di posizione “sistemica” degli Usa più che un generico loro declino - che presupporrebbe la possibilità di un cambio egemonico non in vista - a essere la posta in palio degli anni a venire. La dimensione imperiale permane ma sempre più ibridata con una dinamica inter-imperialistica che ne mina le fondamenta senza che si prospetti un riassetto globale come via d’uscita complessiva in grado di aprire un nuovo lungo ciclo di crescita.

Ambivalenza delle lotte moltitudinarie
È probabile che una fase due si apra anche per i movimenti in un clima generale di reazione alla crisi che dovrà fare i conti con i nuovi passaggi. Turchia, Brasile ma anche Est Europa, ne sono i segnali, mentre lotte salariali solo apparentemente tradizionali proseguono dalla Cina al Sudafrica. Intanto, il ”ciclo” da Tahrir ai vari Occupy si è chiuso non senza aver lasciato una potente ed evocativa traccia soggettiva e, in Europa, frenato un minimo le politiche di scarico in basso dei costi della crisi.
La fase uno delle reazioni alla crisi, nella diversa qualità delle situazioni, ha mostrato parecchi tratti soggettivi comuni che a partire dalla forma-occupy ne hanno favorito una efficace diffusione virale, anche solo nell’immaginario, e una capacità di interloquire con fette di società più ampie, ancora passive ma in certa misura disposte a porsi domande radicali (per ora nulla più di questo). Soprattutto, si è vista all’opera una composizione sociale da tempo in gestazione - a torto identificata con un “nuovo ceto medio” o con i soli tratti di una generazione scolarizzata ma delusa - risvolto della compenetrazione tra circuiti di circolazione del capitale, la “società”, e la produzione/appropriazione di valore attraverso i dispositivi finanziari a scala globale. Prefigurazione di una classe attiva le cui capacità viventi, non solo lavorative, sono messe a lavoro ben oltre la sfera “produttiva” in senso stretto, non omogenea ma potenzialmente trasversale alla società e al cleavage Occidente/resto del mondo.
Con quali limiti si è finora scontrata? In Occidente il freno soggettivo maggiore - dentro un contesto oggettivo che non solo non ha ancora eroso del tutto le”riserve” accumulate ma le ha legate in parte alla tenuta della finanza - è appunto la paura che un’attivizzazione sociale spinta rischi di incasinare il sistema senza peraltro avere a disposizione valide alternative d’insieme. Mentre si inizia ad avvertire che non sì può più vivere come prima, ancora si vorrebbe vivere come prima. C’è però un elemento più profondo e generale, visibile proprio là dove una mobilitazione radicale di quella composizione si è data. Si è vista all’opera una potente affermazione di autonomia… senza classe, di esserci e decidere contro le mediazioni sociali e politiche (in primis la vecchia sinistra) al contempo incapace di elaborare una propria via costituente e affrontare il problema del potere (costituito). Tahrir, il punto finora più alto, si è fermata davanti alla necessità di divenire movimento per sé, capace di farsi carico delle istanze dei “ceti poveri” egemonizzati dai Fratelli Musulmani e di affrontare la questione del ruolo degli Usa verso i quali anzi si è fatta parecchie illusioni. Stretta tra democratizzazione real impossibile e le proprie lacune, si è attestata per ora come male minore sul coup militare che, paradossalmente, proprio della piazza ha avuto bisogno. OWS, meno dirompente come lotta, è in qualche modo andato più avanti sul piano dell’elaborazione di un programma con elementi anticapitalistici ma, anche qui, non quanto a necessità di un effettivo movimento organizzato.
Il nodo di fondo -inaggirabile peraltro con escamotage organizzativi- pare essere l’ambivalenza propria dell’istanza di democrazia reale che i movimenti hanno praticato fin qui. Non un tratto “occidentale” ma generale. È l’ambivalenza dell’affermazione radicale di una sfera individuale di desideri e capacità attraverso sì un’azione collettiva che si ferma però sulla soglia della “costituzione del proletariato in classe e quindi partito” perché ritiene fin qui sufficienti le piattaforme di socializzazione offerte dal capitalismo che si tratterebbe “solo” di depurare e democratizzare perché si dia effettiva libertà per tutti.
In prospettiva, la situazione prepara punti di rottura in questa aspettativa anche se gli esiti non sono predeterminati. Ci aspettano nuovi decisivi shock sociali che comporteranno un’ulteriore distruzione di capacità umane vive e la crescita formidabile del numero di soggetti resi superflui fin dentro i paesi “avanzati” nel mentre si tenterà di spremere ancor più quelli messi a lavoro - risultato perverso di un’eccedenza produttiva non più contenibile dentro il mondo della merce e del profitto. La ricerca di “autonomia” dovrà coniugare in modo più stringente costruzione di forme di vita e organizzazione di lotta per una politicizzazione della vita che andrà oltre il vecchio ’68.
Sul medio termine, il ritorno del nesso crisi-guerra negli States e il profondo dissesto sociale potrebbero preparare un salto in avanti sul solco tracciato da OWS. La
situazione di precario stand-by in Europa potrebbe aiutare un confronto “dal basso” che finora non c’è stato tra umori e mobilitazioni anti-austerity in “periferia” e diffidenza diffusa verso vie d’uscita imperniate sull’incremento del debito nei paesi “centrali” dove inizia a farsi strada anche la sensazione che un minimo denominatore comune europeo è essenziale per evitare una spirale al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro oltre che per reggere ai venti di tempesta che provengono da oltre Atlantico. Nei paesi “emergenti” e del Sud i segnali lanciati dai movimenti Turchia-Brasile, ma anche la ripresa delle istanze non sopite di piazza Tahrir potrebbero essere l’inizio di un nuovo”ciclo” di mobilitazioni, che per consolidarsi dovranno affrontare sia il tema di chi governa le risposte alla crisi sia il nodo di una proiezione regionale, quindi inevitabilmente anti-Usa, delle rivendicazioni democratiche e per un diverso sviluppo, pena il loro sbiadirsi o, peggio, il ritorno delle destre.
Dovremo aspettarci un ripiegamento “regionale” delle mobilitazioni e reazioni alla crisi? Probabilmente non aggirabile, tale passaggio resterebbe debole se non sarà in grado di assumere una dimensione internazionale e di affrontare alcuni dei nodi di fondo fin qui solo intuiti.

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