(Libero adattamento da un titolo dei Fugs)
di Nicola Casale, Raffaele Sciortino
Quello
che fino a qualche giorno fa sembrava l’inevitabile attacco Usa alla
Siria è dunque al momento stoppato, lo scontro si è mantenuto
all’interno del quadro diplomatico dove un abile Putin ha offerto una
foglia di fico a un’Obama in difficoltà. La vicenda è tutt’altro che
chiusa. Alla guerra per procura si aggiungerà il calvario dei controlli
sulle armi chimiche (come da copione irakeno?) mentre il minacciato strike è un messaggio inequivocabile per l’Iran che non mancherà di avere conseguenze.
L’amministrazione
Obama non ne esce bene sul piano politico. I rumori di guerra che hanno
lasciato il mondo tra l’attonito e il sorpreso iniziano a far giustizia
della favoletta dell’unilateralismo statunitense affibbiato al solo
Bush jr. Un colpo non da poco all’immagine internazionale del presidente
- già non brillante sul fronte interno e per via della vicenda Snowden -
che fin qui aveva saputo risollevare il soft power statunitense crollato a livelli non compatibili con le esigenze della leadership globale.
Ma c’è qualcosa di più. Siamo al primo significativo punto di quasi precipitazione delle tensioni internazionali accumulatesi dall’innesco della crisi globale che segna il ritorno della guerra
come concretissima possibilità di “prosecuzione della crisi con altri
mezzi” (basti pensare alle navi da guerra che affollano il
Mediterraneo). Non ancora un punto di svolta, ma lo squarcio apertosi
con la vicenda siriana getta una luce significativa sull’intreccio
strettissimo delle tre principali linee di forza - tra le molteplici di
un unico ma complicatissimo campo - decisive per gli scenari attuali e a
venire. Crisi globale, dinamiche geopolitiche, reazioni sociali alla
crisi stessa.
Crisi fase due?
Una prima fondamentale domanda da porsi è se c’è un nesso
non generico tra come sta evolvendo la dinamica della crisi e il cambio
di marcia che la vicenda siriana lascia intravedere nella strategia
internazionale statunitense.
Il bail out della grande finanza
prima, le politiche di “alleggerimento quantitativo” con immissione
massiccia di liquidità nei mercati ad opera della Federal Reserve
statunitense poi, avranno pure evitato la catastrofe economica ma a
costi pesantissimi di là dall’essersi esauriti. Il punto cruciale è che
la ripartizione ineguale di questi costi, a scala
geoeconomica e sulle diverse classi sociali, è diventata il terreno di
scontro, che attizza tensioni di ogni genere. Chi scarica la crisi su
chi: questa l’attualissima posta in palio che traspare da dietro le
tensioni internazionali, la cui soluzione è al tempo stesso
precondizione di ogni eventuale fuoriuscita capitalistica dalla crisi.
Che, se pure, non si darà nel limbo di un mercato piatto ma emergerà dal
rimescolamento non indolore degli assetti complessivi del sistema
mondiale.
All’immediato, sul piano strettamente economico, sembrano i “paesi emergenti” a rischiare di più. Flussi speculativi di hot money
si sono riversati negli ultimi anni su questi paesi e sui Brics - i
soli peraltro ad aver sostenuto la crescita globale ma appunto a rischio
di esporsi pericolosamente ai movimenti della finanza. Negli ultimi
mesi, a fronte del rallentamento delle crescita anche in queste aree e
degli accenni di politica monetaria un minimo meno compiacente della Fed
(il famigerato tapering), le monete di India, Turchia, Indonesia,
Brasile ecc. hanno iniziato a precipitare verso il basso con una fuga
di capitali che non preannuncia nulla di buono. Anche la Cina, di ben
altra solidità, è però alle prese con un rallentamento dei ritmi di
crescita in parte dovuto alla stagnazione dei mercati di sbocco
occidentali, in parte manovrato dal governo per ovviare ai primi seri
segnali di una bolla creditizia e immobiliare frutto degli stimoli
anti-crisi di questi anni. Il che pone con più urgenza alla dirigenza
cinese il nodo dell’insostenibilità alla lunga di un modello economico
fin qui imperniato su colossali investimenti infrastrutturali e
sull’export e legato a doppio filo all’economia del debito statunitense,
ma anche l’estrema difficoltà di un cambiamento liscio.
L’eurocrisi
è provvisoriamente in stand-by. La “socializzazione” dei debiti privati
collassati - con epicentro sull’altra sponda dell’Atlantico - e scaricati
sui bilanci pubblici aveva fatto quasi esplodere i debiti sovrani della
periferia europea, nel mentre la recessione ne aggrediva la dimensione
produttiva, e messo a rischio la tenuta stessa dell’euro. Lo scontro che
ne è seguito tra Washington e Berlino - la potenza più spiata secondo le
rivelazioni Snowden (vedi qui)
- ha visto contrapporsi due strategie di risposta. Quella americana di
ripianare debito con nuovo debito, manovrando il dollaro moneta
mondiale, ha fatto e fa pressione per una politica monetaria europea
espansiva, se non direttamente per la mutualizzazione del debito dei
paesi Ue, così da far attingere la finanza transnazionale alle casse di
Berlino. Quella tedesca di impedire alla bolla di crescere
ulteriormente, e in prospettiva di ridimensionarla sfruttando il
potenziale produttivo europeo, ha però sostanzialmente retto alle
pressioni yankee. Ciò ha poi permesso un minimo allentamento della
stretta rigorista - e politiche monetarie più accomodanti della Bce
nell’ultimo anno e mezzo - a evitare che i costi sociali pesanti per la
periferia superassero la soglia sociale di guardia, con l’Italia proprio
sulla linea di faglia.
Ciò però significa che la palla è rimbalzata o sta rimbalzando nel campo dell’economia statunitense!
Moneta facile e tassi quasi a zero che hanno ricreato un’enorme bolla
speculativa facendo risalire su valori pre-crisi i prezzi a Wall Street e
i profitti delle istituzioni finanziarie, non hanno però contribuito
sostanzialmente alla ripresa economica, in primis degli investimenti e
quindi dell’occupazione, tanto meno di occupazione “buona” capace di
risollevare i redditi della middle class. La strategia obamiana di insourcing si è finora limitata a poca cosa (comunque comporterebbe un duro scontro con Pechino) mentre quella energetica basata sullo shale gas
- effettiva, ma dai costi ambientali altissimi: a proposito di green
economy! - difficilmente può fare da volano per l’accumulazione
complessiva pur rappresentando in prospettiva una notevole leva
geopolitica verso i paesi produttori di materie prime.
Ora è il rischio di uno scoppio della nuova bolla non supportata da un growth
“reale” corrispondente a spingere la Fed ad avvisare i mercati di
accorciare la leva finanziaria (in maniera ambivalente perché se si
diffonde il panico, si ottiene proprio quello che si vorrebbe evitare,
da cui il movimento stop and go), e niente affatto la crescita
prospettata dai media! Inoltre, il QE non solo ha ritorni decrescenti
all’interno ma incrementando il debito rischia di minare la credibilità
del biglietto verde come moneta mondiale e la capacità, non seriamente
intaccata nonostante la crisi, di attrarre capitali da tutto il globo.
Non a caso si stanno stringendo accordi di scambio commerciale, con
perno sulla Cina, che bypassano il dollaro mentre anche la Germania,
dopo il primo assalto all’euro, guarda sempre più a Oriente.
Insomma,
nessun problema di fondo dell’economia globale è stato risolto, il nodo
della distruzione di una parte assai più consistente della massa di
capitale fittizio creatasi dagli anni Ottanta in poi è ancora tutto lì (vedi qui). Non solo le risposte dei vari attori divergono sempre più, ma gli Usa sono costretti ad accelerare
la strategia di scarico dei costi e di utilizzo della leva geopolitica
per imporre accordi economici - nel Pacifico il TPP in funzione
anti-Cina ma con scarso successo, e ora all’Europa per trascinarla in
una guerra degli standard economici col resto del mondo - che frenino la
tendenza a creare blocchi regionali più autonomi dall’impero a stelle e
strisce. Certo, l’equazione questa volta è assai più complessa che non
per il Nixon del ’71 (sganciamento dollaro-oro) o il Volcker del ’79
(rialzo dei tassi), ma senza dubbio vedremo di nuovo all’opera
l’unilateralismo della Federal Reserve…
Obama sulla via di Damasco…
Dunque,
la strategia statunitense ha bisogno di un cambio di marcia, stante
anche il preoccupante quadro sociale interno segnato dal quasi completo
fallimento del change obamiano. Solo che al primo serio banco
di prova - appunto la partita siriana - il riacquisito soft power
internazionale di Obama ha fatto in gran parte cilecca.
Ora, per
un’analisi minimamente seria delle mosse statunitensi, per prima cosa va
sgomberato il campo da alcuni falsi argomenti. Primo, il presidente si
sarebbe fatto trascinare con riluttanza in un’“avventura” di guerra,
circondato da consiglieri incapaci (a proposito: tutti liberals doc,
nessun cripto-neocons) e alleati infidi supportati da potenti lobby
interne (quella ebraica e quella saudita). In realtà, l’aggressione alla
Siria è fortemente voluta dall’amministrazione Obama che ci sta
lavorando meticolosamente da due anni. Certo, la preferenza era per una
ripetizione dell’operazione libica: “rivolta” interna, finanziamento e
organizzazione di gruppi armati, supporto aereo e missilistico degli
alleati, con gli Usa leading from behind, ma ognuna di queste
condizioni ha preso una piega diversa, a partire dallo scarso appoggio
tra la popolazione dei combattenti salafiti, l’intervento di Hezbollah,
l’opposizione di Russia e Cina in sede Onu, ecc. Di conseguenza il
profilo defilato non era più un’opzione pur con tutti i rischi del caso
sia militari - come ha fatto rilevare il Pentagono - sia soprattutto
politici, come si è poi visto.
Anche rispetto ai veri obiettivi del minacciato strike va fatta chiarezza. La scelta di fondo era e resta, al di là delle dichiarazioni più o meno reticenti, quella di puntare al regime change a
Damasco. Leggiamo sul sito del Council on Foreign Relations: “Obiettivo
numero due è chiaramente porre fine al regime di Assad, come affermato
ufficialmente dal presidente due anni fa, il 18 agosto 2011. Ciò non
comporta una metodologia definita ma a questo punto è chiaramente un
obiettivo di sicurezza nazionale” (vedi qui).
Del resto, una scelta chiaramente tracciabile a partire dall’appoggio
all’opposizione armata anti-Assad, altrimenti inspiegabile. E non è un
caso che il segretario di stato Kerry abbia accennato anche all’invio di
truppe di terra (vedi su Asia Times gli articoli del 4 e del 10 settembre
di M.K. Bhadrakumar). Quanto al casus belli dell’uso delle armi
chimiche, è un classico (che Assad sia stato così stupido da usarle
proprio mentre stava recuperando sul terreno e gli ispettori Onu erano
in Siria? Non ci vuole la laurea per capirlo…).
Perché l’aggressione? Per due ragioni strategiche che si tengono insieme.
Distruggere
la Siria in quanto stato dotato di una propria autonoma politica - come
per la ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia - significa la chiusura
dei conti storici con il nazionalismo anticoloniale, ancorché già
sfigurato di suo, e della possibilità che stati post-coloniali siano
dotati di una qualche autonomia dalla metropoli come, appunto, nel caso
dell’asse Damasco-Teheran-Hezbollah (l’islamismo sciita rappresenta per
l’Occidente ancora una spina nel fianco, al contrario di quello sunnita
“normalizzato”). Destrutturazione delle entità statali, smantellamento
di ogni progettualità di sviluppo economico, nessun limite alla
circolazione dei capitali stranieri e alla rapina finanziaria.
L’aggressione alla Siria si inquadra perfettamente nelle strategie di
“uscita dalla crisi”, oggi in Medio Oriente, domani per gli Usa con la
prospettiva di riprendersi l’America Latina (i cui governi
“progressisti” non a caso non si sono mai lasciati abbindolare dalla
favoletta della “primavera siriana”). Percorso difficile, certo, in cui
ormai giocano quasi esclusivamente aspetti militari: gli Usa non hanno
più quasi nulla da mettere in campo sul piano economico e vanno in
difficoltà anche su quello finanziario non potendo contare ciecamente
neanche sulla rendita delle petrolmonarchie. Ma la ragione di fondo per
cui il Medio Oriente ritorna al centro della guerra sta nella manovra di
rebalancing strategico degli Stati Uniti in marcia inesorabile verso il contenimento della Cina con il cosiddetto Pivot to Asia.
Strategia che prevede - potenza marittima contro potenze terrestri - la
destrutturazione degli stati, dal Medio Oriente ai confini cinesi, che
possano far da ostacolo agli yankee mentre non prevede spazi di
effettiva autonomia per nessuno attore regionale (se ne sta accorgendo la Turchia di Erdogan).
La Cina va adeguatamente isolata e i paesi che potrebbero essere
tentati dal sottoscrivere con Pechino patti in materia di politica
industriale, agricola, commercio e finanza, vanno preventivamente
richiamati all’ordine. Per questo, Washington non può lasciare il M.O.
così com’è. Una costellazione di failed state in guerra civile
permanente è certo una scelta di ripiego rispetto alla presenza di
governi locali filo-imperialisti, ma questi reggono sempre meno, come
Mubarak ha dimostrato.
… passando per Il Cairo
In
effetti il timing dell’apertura della crisi siriana è legato sì al
rapporto di forze militare sul terreno che rischiava di rovesciarsi a
favore di Assad ma soprattutto agli sviluppi della “primavera araba”.
Non è un caso se la decisione di intervenire militarmente è scattata
all’indomani della normalizzazione dell’Egitto, così come due anni fa
proprio sull’onda di piazza Tahrir era partita in Siria una
mobilitazione sociale all’inizio genuina, non connotata “settariamente”
ma incapace di coinvolgere l’insieme della società, poi infiltrata
dall’esterno e portata sul terreno dello scontro militare nel quadro
della risposta statunitense e delle petrolmonarchie allo sconvolgimento
portato dalle sollevazioni in Tunisia, Egitto, Bahrein. A riprova dello
strettissimo intreccio tra geopolitica della crisi e geopolitica delle
lotte, un riuscito assalto alla Siria dovrebbe chiudere, nelle
intenzioni di Washington e dei suoi alleati (Israele e petrolmonarchie),
la falla apertasi con quella sollevazione, che ha messo a rischio
l’assetto occidentale dell’intero Medio Oriente.
A dirla tutta,
non era questa l’unica opzione possibile per Obama. Impegnato nel ritiro
(comunque non totale) delle truppe dall’Iraq e alla “ricostruzione” del
panorama domestico sconvolto dalla crisi finanziaria, il presidente ha provato a detournare,
dall’interno per così dire, le istanze radicalmente democratiche di
piazza Tahrir in senso non anti-occidentale, riuscendo sia a far fuori
Gheddafi sia a contenere la rabbia furiosa, e la paura, di Israele e
Arabia Saudita vistisi di colpo scoperti nello scacchiere dalla
detronizzazione di Mubarak. In astratto, l’affermazione in Egitto di un
governo liberal col supporto della nuova composizione sociale
protagonista della lotta, avrebbe potuto non solo aprire a un ritorno
degli americani in vesti “presentabili”, ma anche preparare il terreno
per un regime change “dal basso” in Iran o almeno per una
tregua col governo di Teheran, per il ridimensionamento delle pretese
esorbitanti dell’alleato israeliano e, in prospettiva, per il
rovesciamento della ultrareazionaria monarchia saudita (obiettivo
dichiarato dei neocons). Un colpo grosso, simile per portata geopolitica
ed economica al rapprochement con la Cina di Nixon-Kissinger
(che permise il recupero della sconfitta in Vietnam e preparò
l’implosione dell’Urss), però col target finale invertito (la Cina,
questa volta, magari anche con un accordo con la Russia). Solo che per
far questo ci vogliono risorse, non meramente di immagine, che gli
States non hanno più in misura sufficiente per una effettiva Grand Strategy all’altezza di un contesto internazionale completamente mutato e sempre meno padroneggiabile!
Si
prenda il caso egiziano. Obama in mancanza di alternative migliori ha
puntato sui Fratelli Musulmani per rientrare in gioco rassicurando al
contempo gli alleati dell’area. Ma non solo i FM si sono rivelati
incapaci di sedare le rivendicazioni dal basso con riforme “inclusive”.
Morsi ha anche osato dei piccoli passi sul piano esterno - ricucire
verso l'Iran, ricontrattare su Gaza e sul gas del Sinai con Israele,
rilanciare una politica più autonoma sul canale - che preparavano il
terreno a un recupero ancorché minimo non dell’antimperialismo ma di
spazi di manovra per sottrarsi ai ricatti del Fondo Monetario e
contrattare aiuti meno pelosi di quelli ricevuti o promessi dai paesi
del Golfo. Apriti cielo! Minato da subito da Arabia Saudita e Israele,
il governo dei Fratelli è stato alla fine abbandonato dagli Usa a favore
del ritorno dei militari, ben più efficaci nel “normalizzare” il paese
soprattutto avendo provvisoriamente acquisito il consenso di piazza
Tahrir (ci torniamo sotto).
Doppio risultato negativo per Obama.
Non solo gli Usa si sono dimostrati poco affidabili nel garantire agli
alleati più stretti l’ordine nell’area, che è il
principale “bene pubblico” di cui sono stati finora erogatori unici. Ma
si è anche dimostrato che, al di là di chi governa, un Egitto democratico
(nel senso delle dinamiche sociali, al di là degli assetti
istituzionali) non può che essere anti-americano se vuole riconquistare
spazi di reale autodeterminazione, individuali e collettivi. Anche i
nuovi generali dovranno farvi i conti alla luce dei problemi esplosivi
che comporta lo sviluppo demografico e sociale in rapporto alle pratiche
di spoliazione della globalizzazione.
All’immediato il risultato
pare favorevole a Israele e Arabia Saudita. A Israele la situazione può
tornare utile per la realizzazione del progetto di Rabin di egemonia
economica, con intorno paesi non pacificati ma del tutto incapaci di
costituire una minaccia contro il suo ruolo colonialista. I Saud si sono
rivelati ancora in grado non solo di gestire la rendita petrolifera in
funzione anti-rivoluzione, ma di ben controllare ai propri fini il
salafismo jihadista, oramai depurato di ogni velleità
“internazionalista” (la soffiata che ha consegnato Bin Laden agli
yankees l’aveva sancito). Ma l’ordine resta per fortuna assai precario
come la vicenda siriana sta mostrando, né questi due protagonisti locali
del “ritorno all’ordine” hanno da offrire alcunché, se non bombe per
schiacciarle o soldi per deviarle, alle istanze di democrazia reale
delle popolazioni dell’area.
Non è facile essere Obama dopo Obama
Per molti aspetti, insomma, abbiamo un ritorno al futuro, al long war di bushiana memoria. Obama ha dato inizio al post-Obama, nulla sarà più come prima, in casa e fuori.
Ma
oggi le contraddizioni sono ancora più esplosive. Basta guardare ai due
fattori principali che stanno dietro i tentennamenti e le indecisioni
della Casa Bianca nel passare dalla minaccia alla decisione effettiva di
colpire Damasco. A renderla incerta e poi a stopparla, è stata la
difficoltà tutta politica nel coinvolgere nella guerra sia il fronte
interno sia uno schieramento ampio dei paesi occidentali. Su questo si è
inserito il gioco russo, supportato dalla Cina, a evitare il ripetersi
dello scenario libico. Vediamo.
Primo. Il consenso
alla guerra si è rivelato da subito scarsissimo in Europa, dove pure il
personaggio Obama finora sbancava come “liquidatore” delle guerre di
Bush. Da ultimo, è vero, la vicenda Snowden ne ha appannato l’immagine,
soprattutto in Germania, l’unico paese dove c’è stato un certo dibattito
pubblico sulla questione. Il dato più importante è lo scollamento tra
governi aggressivi che fremono per menare le mani, Francia e Gran
Bretagna, e opinioni pubbliche restie a farsi trascinare in avventure
belliche. Più in generale, la gente nel mezzo di una crisi economica che
non passa vorrebbe che l'attenzione fosse concentrata sull’uscita dalla
crisi, per dissipare il terrore che se non si ferma la spirale
discendente si rischia di essere spogliati della condizione acquisita in
decenni. Per ora nulla di più di questo, nessuna contestazione al
proprio imperialismo. A dar voce a questo sentimento ma cercando di
indirizzarlo in coscienza politica più generale, è stato papa Bergoglio
con la sua azione di delegittimazione preventiva della guerra di Obama
che ha evocato il rischio di una precipitazione bellica mondiale. A
conferma che il papato è pienamente consapevole della profondità della
crisi in quanto crisi della civiltà occidentale e sta correndo ai ripari
esplicando il ruolo di “minoranza creativa” teorizzato da Ratzinger.
Negli
States la reazione negativa ai venti di guerra è stata ancora più
eclatante, non tanto come movimento organizzato ma come umori e opinione
della stragrande maggioranza. È la riprova del fallimento di Obama nel
ridare speranza e prospettive alla ripresa della middle class come base
per il rilancio, su basi rinnovate, della leadership globale
statunitense. Non basta il richiamo retorico del presidente
all’eccezionalismo americano se poi questo si accompagna all’incremento
record delle richieste dei food stamps, mentre a cinque anni dallo
scoppio delle tempesta per la finanza, troppo grande per farla fallire,
tutto è tornato come prima. La lezione di Clausewitz, sul nesso tra
energia della massa e politica di guerra, impartisce un duro colpo ai
rinnovati impegni “umanitari” di Obama. E rimette in campo, come è stato
per Bush, la necessità di creare in qualche modo la paura del nemico
(l’Iran nucleare sembra ad oggi il candidato migliore).
Secondo.
Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, si è timidamente
configurata, su una questione puntuale, la possibilità di un fronte fattivo di paesi alternativo agli Usa trasversale anche allo schieramento occidentale. È quanto ha dato corpo al ruolo diplomatico giocato, anche abilmente fin qui, da Putin.
La questione decisiva non è in tutta evidenza il supporto militare
russo all’alleato siriano, di per sé non decisivo, quanto la conferma
che una fascia di paesi che va dalla Germania alla Cina ha sempre meno
interesse a lasciar passare senza opposizione il gioco statunitense che
rischia di incasinare ulteriormente il già precario quadro
internazionale, anche economico. In particolare, in Europa la posizione
di Berlino, pur sempre un po’ defilata, segna oramai una linea continua
dal 2003 in avanti nei confronti di Washington, al polo opposto dei
governi francesi (che in cambio beneficiano della neutralità dei
“mercati” sul debito pubblico transalpino?).
Non si tratta della
prefigurazione di un’alleanza anti-Usa, attenzione, cui nessuno ha allo
stato né interesse né ambizione. (La stessa Russia non esclude la
possibilità di stabilire con gli Stati Uniti patti di alleanza o di
non-belligeranza). Si tratta di una sorta di richiamo al fratello
maggiore, da parte degli europei, e alla potenza mondiale, da parte di
Cina e Russia, a non tirare troppo la corda nell’interesse della tenuta
d’insieme del sistema internazionale e quindi (presuntamente) degli
stessi Stati Uniti. È a questi umori che la Russia, in questa occasione,
ha dato voce ricevendone in cambio per ora parziale efficacia
diplomatica - ecco una novità - che dalla prima guerra del Golfo in poi
era sempre mancata a chi non era d’accordo con gli Stati Uniti.
Questi
sono ancora chiaramente ritenuti da tutti necessari a garantire
l’ordine globale, ma sempre più emerge la contraddizione tra la loro
indispensabilità a fronte di eventuali sconquassi rivoluzionari e i
costi sempre più pesanti che da questo ruolo ricadono sugli altri
attori. È questo un nodo cruciale cui gli Usa sono chiamati urgentemente
a ovviare ma con difficoltà crescenti a farlo. Il punto è come ricreare
aspettative e consenso intorno a quello che è stato il compito storico
del capitalismo statunitense, la capacità di dominare creando una
prospettiva di ricchezza per tutti, sul piano interno come su quello
internazionale. Senza di ciò è impossibile ricreare alleanze
internazionali ampie e compatte nonché blocchi sociali interni convinti
in vista degli scontri a venire. Le difficoltà rischiano di farsi
veramente serie e il farsi soggetto d’ordine per l’insieme del
capitalismo mondiale, declinandosi in termini puramente militari, può
iniziare a vacillare. È questa fragilità della rendita di posizione
“sistemica” degli Usa più che un generico loro declino -
che presupporrebbe la possibilità di un cambio egemonico non in vista -
a essere la posta in palio degli anni a venire. La dimensione imperiale
permane ma sempre più ibridata con una dinamica inter-imperialistica che
ne mina le fondamenta senza che si prospetti un riassetto globale come
via d’uscita complessiva in grado di aprire un nuovo lungo ciclo di
crescita.
Ambivalenza delle lotte moltitudinarie
È
probabile che una fase due si apra anche per i movimenti in un clima
generale di reazione alla crisi che dovrà fare i conti con i nuovi
passaggi. Turchia, Brasile ma anche Est Europa, ne sono i segnali,
mentre lotte salariali solo apparentemente tradizionali proseguono dalla
Cina al Sudafrica. Intanto, il ”ciclo” da Tahrir ai vari Occupy si è
chiuso non senza aver lasciato una potente ed evocativa traccia
soggettiva e, in Europa, frenato un minimo le politiche di scarico in
basso dei costi della crisi.
La fase uno delle reazioni alla
crisi, nella diversa qualità delle situazioni, ha mostrato parecchi
tratti soggettivi comuni che a partire dalla forma-occupy ne hanno
favorito una efficace diffusione virale, anche solo nell’immaginario, e
una capacità di interloquire con fette di società più ampie, ancora
passive ma in certa misura disposte a porsi domande radicali (per ora
nulla più di questo). Soprattutto, si è vista all’opera una composizione sociale
da tempo in gestazione - a torto identificata con un “nuovo ceto medio”
o con i soli tratti di una generazione scolarizzata ma delusa -
risvolto della compenetrazione tra circuiti di circolazione del
capitale, la “società”, e la produzione/appropriazione di valore attraverso
i dispositivi finanziari a scala globale. Prefigurazione di una classe
attiva le cui capacità viventi, non solo lavorative, sono messe a lavoro
ben oltre la sfera “produttiva” in senso stretto, non omogenea ma
potenzialmente trasversale alla società e al cleavage Occidente/resto
del mondo.
Con quali limiti si è finora scontrata? In Occidente il
freno soggettivo maggiore - dentro un contesto oggettivo che non solo
non ha ancora eroso del tutto le”riserve” accumulate ma le ha legate in
parte alla tenuta della finanza - è appunto la paura che
un’attivizzazione sociale spinta rischi di incasinare il sistema senza
peraltro avere a disposizione valide alternative d’insieme. Mentre si
inizia ad avvertire che non sì può più vivere come prima, ancora
si vorrebbe vivere come prima. C’è però un elemento più profondo e
generale, visibile proprio là dove una mobilitazione radicale di quella
composizione si è data. Si è vista all’opera una potente affermazione di
autonomia… senza classe, di esserci e decidere contro
le mediazioni sociali e politiche (in primis la vecchia sinistra) al
contempo incapace di elaborare una propria via costituente e affrontare
il problema del potere (costituito). Tahrir, il punto finora più alto,
si è fermata davanti alla necessità di divenire movimento per sé, capace
di farsi carico delle istanze dei “ceti poveri” egemonizzati dai
Fratelli Musulmani e di affrontare la questione del ruolo degli Usa
verso i quali anzi si è fatta parecchie illusioni. Stretta tra
democratizzazione real impossibile e le proprie lacune, si è
attestata per ora come male minore sul coup militare che,
paradossalmente, proprio della piazza ha avuto bisogno. OWS, meno
dirompente come lotta, è in qualche modo andato più avanti sul piano
dell’elaborazione di un programma con elementi anticapitalistici ma,
anche qui, non quanto a necessità di un effettivo movimento organizzato.
Il
nodo di fondo -inaggirabile peraltro con escamotage organizzativi- pare
essere l’ambivalenza propria dell’istanza di democrazia reale che i
movimenti hanno praticato fin qui. Non un tratto “occidentale” ma
generale. È l’ambivalenza dell’affermazione radicale di una sfera
individuale di desideri e capacità attraverso sì un’azione collettiva
che si ferma però sulla soglia della “costituzione del proletariato in
classe e quindi partito” perché ritiene fin qui sufficienti le
piattaforme di socializzazione offerte dal capitalismo che si
tratterebbe “solo” di depurare e democratizzare perché si dia effettiva
libertà per tutti.
In prospettiva, la situazione prepara punti di
rottura in questa aspettativa anche se gli esiti non sono
predeterminati. Ci aspettano nuovi decisivi shock sociali che
comporteranno un’ulteriore distruzione di capacità umane vive e la
crescita formidabile del numero di soggetti resi superflui fin
dentro i paesi “avanzati” nel mentre si tenterà di spremere ancor più
quelli messi a lavoro - risultato perverso di un’eccedenza produttiva
non più contenibile dentro il mondo della merce e del profitto. La
ricerca di “autonomia” dovrà coniugare in modo più stringente
costruzione di forme di vita e organizzazione di lotta per una
politicizzazione della vita che andrà oltre il vecchio ’68.
Sul
medio termine, il ritorno del nesso crisi-guerra negli States e il
profondo dissesto sociale potrebbero preparare un salto in avanti sul
solco tracciato da OWS. La
situazione di precario stand-by in
Europa potrebbe aiutare un confronto “dal basso” che finora non c’è
stato tra umori e mobilitazioni anti-austerity in “periferia” e
diffidenza diffusa verso vie d’uscita imperniate sull’incremento del
debito nei paesi “centrali” dove inizia a farsi strada anche la
sensazione che un minimo denominatore comune europeo è essenziale per
evitare una spirale al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro
oltre che per reggere ai venti di tempesta che provengono da oltre
Atlantico. Nei paesi “emergenti” e del Sud i segnali lanciati dai
movimenti Turchia-Brasile, ma anche la ripresa delle istanze non sopite
di piazza Tahrir potrebbero essere l’inizio di un nuovo”ciclo” di
mobilitazioni, che per consolidarsi dovranno affrontare sia il tema di
chi governa le risposte alla crisi sia il nodo di una proiezione
regionale, quindi inevitabilmente anti-Usa, delle rivendicazioni
democratiche e per un diverso sviluppo, pena il loro sbiadirsi o,
peggio, il ritorno delle destre.
Dovremo aspettarci un
ripiegamento “regionale” delle mobilitazioni e reazioni alla crisi?
Probabilmente non aggirabile, tale passaggio resterebbe debole se non
sarà in grado di assumere una dimensione internazionale e di affrontare
alcuni dei nodi di fondo fin qui solo intuiti.
Fonte
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