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30/09/2013

Saldi all’Italiana

Saccomanni è un uomo ottimista, meno male perché c’è ben poco da stare allegri. Secondo il Fondo Monetario lo stato della nostra economia è preoccupante. Quest’anno il Pil dovrebbe diminuire dell’1,7 per cento, a detta del Tesoro, ma il Fmi non esclude una contrazione del 2 per cento. Siamo al quarto anno di recessione dal 2008, con alle spalle un calo del 2,4 per cento nel 2012. I conti pubblici, poi, non sono affatto a posto. Il deficit tendenziale per il 2013 è del 3,1 per cento, ragione per cui serviranno 1,5-2 miliardi per non sforare il limite massimo consentito dall’Europa pari al 3 per cento. Il problema è dove li troviamo tutti questi soldi?

C’è chi sostiene che si potrebbero vendere i beni pubblici ancora in nostro possesso: se escludiamo beni come l’acqua che un referendum ha sancito di proprietà esclusivamente pubblica, ci sono rimasti solo caserme e monumenti. Quasi tutti i gioielli di famiglia industriali se ne sono andati nel 1992, per far fronte alla crisi della lira. Naturalmente quella svendita, gestita dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi,  non portò, come era stato promesso, al miglioramento dei conti pubblici. Nel 1994 il debito pubblico ammontava a 1.771.108 miliardi di lire, il gettito generato dalle privatizzazioni per il triennio 1993-1995 fu di appena 27.000 miliardi, meno dell’1,5 per cento.

Piuttosto i saldi all’italiana produssero lo smembramento dell’industria pubblica a vantaggio di élite straniere ed italiane, oggi finalmente abbiamo capito che ha contribuito al processo di deindustrializzazione del paese che tanto preoccupa la Commissione Europea. Ed è bene rinfrescarci la memoria su come furono gestiti quei saldi per evitare di doverne pagare il conto ancora una volta noi.

Dal 1992 al 2002 il Tesoro gestì direttamente operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6 miliardi di euro. A questa cifra vanno però aggiunte le privatizzazioni gestite dall’Iri (sempre sotto il coordinamento del Tesoro), per un controvalore di circa 56,4 miliardi di euro, le dismissioni realizzate dall’Eni (5,4 miliardi di euro) e la liquidazione dell’Efim (440 milioni di euro). Si tratta di cifre molto consistenti, da cui è facile intuire il valore e l’importanza dei beni venduti, o per meglio dire “svenduti”.

Per capire quanto valgono questi stessi beni che non ci appartengono più possiamo comparare gli incassi delle privatizzazioni con i valori delle rivendite degli stessi da parte dei privati o i valori attuali.
Il gruppo Benetton si aggiudicava per 470 miliardi GS Autogrill che poi ha rivenduto ai francesi di Carrefour GS per 10 volte tanto.
Nel 1992 la cessione del 58 per cento del Credito italiano produsse ricavi lordi per 930 milioni di euro, nel 2002 Unicredito italiano capitalizzava 26.593 milioni di euro.
Tra il 1994 e il 1996 la cessione del 36,5 per cento dell’Imi rese 1.125 milioni di euro, le successive 3 tranche, pari al 19 e al 6,9 per cento, rispettivamente 619 e 258 milioni di euro, nel 2002 Imi-Sanpaolo capitalizzava 16.941 milioni di euro.
Un caso a parte è poi rappresentato dal Banco di Napoli: quel 60 per cento che lo Stato ha venduto alla BNL per 32 milioni di euro (una volta ripulito delle perdite e dei crediti inesigibili con 6.200 milioni di euro di denaro pubblico), viene rivenduto dalla BNL, a distanza di pochi anni, per 1.000 milioni di euro. È anche vero che la BNL lo ha risanato completamente, ma la differenza tra i due valori è enorme. In ogni caso perché questo risanamento non poteva avvenire per mano dello Stato? Perché è gestito da incompetenti e da pirati.

Alle cifre di vendita da parte del tesoro vanno aggiunte le commissioni per i collocatori di borsa, banche che compongono il sindacato di collocamento e altri consulenti, così come le spese di registrazione e listing sui mercati azionari, spese per adempimenti CONSOB, SEC eccetera. Questi costi nel corso degli anni sono diminuiti, ma si aggirano comunque tra il 2 e il 3 per cento dell’ammontare totale del ricavato. Una fetta consistente di questo denaro, circa l’1 per cento, l’hanno poi incassata le maggiori investment banks anglosassoni, come J.P. Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, First Boston, Merrill Lynch e così via, per la loro attività di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio neanche un dollaro, e senza dover neppure sostenere una gara pubblica per l’affidamento dell’incarico.

La seconda fase del processo di privatizzazione riguarda invece le banche di diritto pubblico, e include la privatizzazione de facto della Banca d’Italia i cui azionisti fino ad allora erano banche italiane di diritto pubblico. Dal 1992 la proprietà passa nelle mani di privati spesso addirittura esteri, che hanno rilevato quote sostanziose delle banche italiane come BNP Paribas, Crédit agricole, Banco Bilbao, Allianz eccetera, il tutto in palese violazione dell’articolo 3 del vecchio statuto, sostituito soltanto nel 2006. Le conseguenze più importanti di questa decisione riguardano la creazione di moneta, che dalle mani dello Stato – cioè noi cittadini – passa a quelle di soggetti esteri, a questi ultimi viene virtualmente ceduta una fetta della nostra sovranità nazionale.

Completate le privatizzazioni comincia il gioco delle sedie: alcuni personaggi chiave lasciano il settore pubblico e vanno a lavorare per le grandi banche straniere che hanno guidato la vendita del patrimonio nazionale sul mercato: Mario Draghi diventa vicepresidente della Goldman Sachs e Vittorio Grilli, ai tempi vicedirettore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni, viene assunto al Credit Suisse.

Qualcuno ha scritto che ciò che è successo in Italia assomiglia allo smembramento delle aziende di stato della vecchia Unione Sovietica, ed in parte il parallelo è giusto. Ma gli oligarchi russi se ne impossessarono, i manager ed i politici italiani le hanno smembrate per regalarle ai loro amici stranieri in cambio di posti di lavoro all’estero.

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