Offerte di compagnie turche per la costruzione di un condotto per il gas naturale israeliano. Ankara vuole essere ponte con l'Europa e sganciarsi dall'energia iraniana.
Il gas naturale della costa orientale del Mar Mediterraneo fa gola al governo israeliano, che prosegue nelle trattative con la Turchia per la costruzione di un gasdotto che arrivi fino in Europa. Un condotto lungo 470 chilometri, in grado di trasportare 16 miliardi di metri cubi di gas l'anno.
Nei giorni scorsi la compagnia turca Turcas Holding ha presentato al governo israeliano un'offerta per la costruzione del gasdotto pari a 2,5 miliardi di dollari. Ma non è l'unica società interessata all'affare: anche la Zorlu Group sta intrattenendo un dialogo serrato con Tel Aviv. La compagnia sta già lavorando in Israele alla costruzione di un impianto energetico nella provincia di Ashkelon e ne ha approfittato per prendere contatti con altre compagnie operative nel bacino del Leviatano (425 miliardi di metri cubi di gas e dal quale partirebbe il nuovo gasdotto) per acquistare il gas e costruire il condotto.
Il terzo attore in campo è un gruppo di compagnie energetiche, guidato dalla Noble Energy, interessato a fare affari non solo in Europa, ma anche nel mondo arabo: acquistare il gas israeliano, costruire altri gasdotti e poi venderlo a Giordania, Egitto e, perché no, Autorità Palestinese.
Dopo le scuse ufficiali israeliane al governo turco per l'assalto alla nave turca Mavi Marmara - un raid nel quale persero la vita nove attivisti turchi - Ankara e Tel Aviv hanno riallacciato rapporti che convengono ad entrambi. Tra questi, quelli energetici. A giugno, il governo israeliano ha dato il via libera all'esportazione del 40% delle riserve di gas naturale lungo la costa, accelerando i negoziati con la Turchia: il ricco bacino del Leviatano sarebbe da solo in grado di coprire i bisogni energetici europei per sette anni.
A necessitare del gas, però, non è solo il Vecchio Continente: si calcola che nei prossimi dieci anni, la Turchia aumenterà le importazioni di gas del 20%, un mercato dalle immense potenzialità per Israele. Da parte sua, Ankara potrebbe così fare a meno dell'Iran, ad oggi il principale esportatore in Turchia, e assumere il ruolo di Paese di transito, accrescendo considerevolmente il proprio potere negoziale.
Alle considerazioni economiche si accompagnano quelle politiche. A marzo, la prima visita ufficiale del presidente statunitense Obama in Israele e nei Territori Occupati si concluse con la telefonata di Netanyahu ad Erdogan, nella quale il premier israeliano presentava scuse ufficiali per l'assalto del 30 maggio 2010 contro la Mavi Marmara, diretta a Gaza. Tel Aviv optò per mettere la parola fine a due anni di "embargo" contro la Turchia, facendo ripartire un contratto da oltre 100 milioni di dollari per la vendita ad Ankara di sistemi aerei militari elettronici - il cosiddetto sistema AWACS.
Oggi dietro la fretta di Ankara nel tessere solidi rapporti commerciali con Israele, c'è la volontà palese del premier turco di fare della Turchia il Paese leader del mondo arabo, un progetto a cui Erdogan lavora da tempo tentando di approfittare delle debolezze di Egitto e Siria. Un progetto che lo ha spinto a rompere ogni relazione con l'ex alleato di ferro Bashar al-Assad e a fare dell'Iran il nemico comune. Compiendo un errore strategico: la Siria è stata fedele alleata della Turchia per decenni. I due Paesi intessevano ottimi rapporti politici, economici e militari. Fino alla decisione di Erdogan di abbandonare Assad, nella convinzione che sarebbe presto caduto.
Ma il fallimento dell'Islam politico dei Fratelli Musulmani (di cui il partito di Erdogan è parte) e la mancata caduta di Assad, hanno indebolito la Turchia, che ha finito per auto-isolarsi, circondata da Stati antagonisti: Siria, Iran, Iraq. Ad Erdogan restano la NATO, l'Europa e gli Stati Uniti, e quindi Israele.
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