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03/06/2014

Molotoy, l'intervista - Prima parte


L'idea di mettere insieme ciò che leggerete giunti al termine di questa prefazione mi venne già in chiusura della recensione di Low Cost Experience. Mi sfuggiva la natura di quel disco, l'essenza, ciò che generalmente si definisce "quello che ci sta dietro". Era chiaro già allora che la speculazione su certe cose è tanto bella ma non porta a molto, dunque, complice una conoscenza in comune tra me e i Molotoy, condussi in porto con lentezza elefantiaca la mia concezione d'intervista, roba che nei sogni sottoporrei a una nutrita pattuglia di gruppi, ma
ahimè di questi tempi e d'obbligo tenere i piedi ben saldi a terra (altrimenti si finisce per credere che Renzi e i suoi 80€ risolveranno i "problemi" dell'ennesima crisi capitalista...) approfittando delle succose occasioni che possono presentarsi, come quella fornitami su un piatto d'argento dalla mia "sponda" romana.

Buona lettura.

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L'ultima notte in bianco mi ha lasciato stranamente sospeso quel tanto che basta tra cielo e terra per darmi gli spunti giusto a scrivere di voi per la seconda volta.
E' passato un bel po da quando scrissi ad Andrea che era mia intenzione buttar giù qualcosa che fosse assimilabile ad una intervista, poi le miserie quotidiane mi hanno fatto perdere per la tangente, portandomi fortunatamente a scoprire tanta roba che ha alimentato la rivoluzione copernicana esplosa con l'ascolto del vostro disco.

Come avrete capito, questa è un'intervista solo di nome in quanto non è mia intenzione elargire le consuete leccate di culo tra una domanda sterile e l'altra, quanto non  è vostra necessita (credo e spero) riceverne. Qui infatti non si va a sindacare la bontà del vostro lavoro, su cui per altro mi sono già espresso, ma piuttosto ciò che ci sta dietro: da voi come artisti col vostro bagaglio d'influenze, cultura e tecnica musicale a voi come persone con gli ambienti, le esperienze e le conoscenze umane che vi hanno portato ad essere ciò che siete come singoli e che per forza di cose ha influenzato ciò che siete ed esprimete come gruppo.

Avrete a questo punto ben compreso che al posto di un botta e risposta questa vorrebbe essere una pagina bianca (anche due, dici, cento, dipende da voi) in cui mi verrà concesso il privilegio di poter entrare nelle vostre anime per capire dove nasce cotanta grazia che è stata determinante nell'accelerare un processo d'indagine su me stesso, ciò che mi circonda e vivo, che per fortuna non s'è ancora esaurito.

A voi la parola.

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Non è facile riassumere in poche righe quanto i Molotoy abbiano litigato nel corso di questi ultimi anni, potremmo citare l'aforisma dal film “Il terzo uomo” di Carol Reed per accelerare i tempi e farvi entrare nel nostro modum operandi:
“In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni ci sono state guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia e cos'hanno prodotto?Gli orologi a cucù”.
Anche nel nostro caso ci sono state lotte endogene ed esogene: entrambe comuni alla maggior parte delle band. Le prime hanno contribuito notevolmente a trasformare tensioni, insulti e cefalee a grappolo in note, accenti e battute. Le seconde sono state fondamentali per unirci e fare blocco contro attacchi esterni. Ogni gruppo incontra difficoltà ed ostacoli ma è altrettanto vero che il numero raddoppia o triplica se il genere è strumentale e muove i primi passi in Italia (forse avremmo trovato meno pregiudizi nella vicina Svizzera?). Insomma, non si contano le volte in cui qualcuno ci abbia detto di cercare un cantante, di proporre strutture non superiori ai 3:30, di lasciar perdere i tempi dispari o di smussare certe sonorità.

All'inizio non è stato facile, anche perché prima di The Low Cost Experience brancolavamo nel buio di un underground principalmente composto da cantautori alternativi e cover band orripilanti. C'erano pochissime situazioni degne di nota e spesso andavamo ai concerti per capire come sfruttare la carica di una rock band e contaminarla con suoni più “freschi” ed europeggianti. Su tutti Port Royal, Mokadelic, Aquefrigide e Poppyʼs Portrait.

Fu il periodo embrionale dei Molotoy: non avevamo ancora un nome (chi scrive è Andrea Buttafuoco) ma insieme ad Andrea Minichilli e Marco Gatto cominciammo una lunga serie di registrazioni a casa di quest'ultimo.

Minichilli lo conoscevo dal liceo, anche se all'epoca ci ignoravamo consapevolmente: lui era il violinista della scuola e suonava con i CCFM, io suonavo il basso negli Ivory Soul. Anni dopo scoprimmo entrambi di avere una passione comune per Queen, Hendrix, Zappa, Led Zeppelin, Area e compagnia. Gatto lo vidi ad un concerto di quartiere e fu subito amore. Lui principalmente amava gli U2 e poi gli artisti citati prima.

A casa di Marco cominciarono a prendere forma le varie Laqu, Mussaka, Super Attack e Holymount in the Rain, furono belle serate in cui nelle pause ci fermavamo a mangiare in giardino e a digerire guardando le stelle...

Sperimentavamo molto, Marco aveva costruito il suo ampli a valvole, i pedali e un paio di pre-amp per violino e basso: trovammo molte soluzioni di effettistica e recording a “basso costo” con microfoni osceni. Ai classic album si aggiunsero influenze elettroniche quali Massive Attack, Radiohead, Cornelius, Moby, Daft Punk ed altre Post-rock come Mogwai, Explosions in the Sky, Tortoise e Godspeed You! Black Emperor solo per citarne alcuni.

Mancava il batterista: non fu facile, volevamo usare sequenze, mischiare il rock all'elettronica, servirci del metronomo. Dopo aver contattato e provato alcuni batteristi, inviammo Laqu a Gianluca Catalani. Aspettammo più di un mese perché Gianluca si trovava in Inghilterra con una band.
La pazienza venne premiata: durante la prima prova suonammo poco, tutti a braccia conserte ad ascoltare le idee registrate. Da qui la decisione di prendere in affitto un garage. Fu divertente sistemarlo e cominciò tutto.

Non fu facile conciliare le nostre vite private, i nostri lavori precari, i licenziamenti che ne seguirono, gli esami all'università, gli amici che (giustamente) non capivano tanti sforzi, le nostre consorti più o meno rassegnate...
Condensavamo tutto in una prova settimanale, cui se ne aggiunse un'altra in cui ci dedicavamo soltanto allo sviluppo di suoni e routing vari: si chiamava “midi night” ed era una prova aperta a chiunque volesse partecipare. Spesso venivano a trovarci molti amici ed in una di queste nottate nacque We are the volvo. Catalani portò altre influenze assimilabili a Rush, Porcupine Tree, Meshuggah, Tool, Dead can Dance e altri.
Il materiale era tanto e gli scazzi aumentarono di conseguenza. Decidemmo di chiamarci The Low Cost, proprio perché i mezzi erano scarsi e noi dovevamo essere un pò meno scarsi colmando questo problema con tante idee.

Una volta pronti per il live iniziammo i concerti, condendo il tutto con video-proiezioni audio-synch, finchè Minichilli non propose di partecipare alle selezioni di Italia Wave (eravamo un po' contrari ai contest ma sarebbe stato il primo e l'ultimo). Mandammo due brani, credo Brain e Mussaka e passammo la prima selezione.
In semifinale decidemmo di cambiare scaletta e di non eseguire i due pezzi per cui eravamo stati scelti. (Questa cosa ancora non me la spiego, ma fu divertente). Insomma, arrivammo in finale insieme ad altri tre gruppi.

La settimana seguente fu ad alta tensione: due prove di scaletta e le restanti cinque dedicate alla chiusura del progetto segreto... Quale progetto segreto? Otto barre led (progettate da Gatto ed auto-costruite) che sarebbero andate a tempo con le sequenze, creando coreografie e giochi di luce. La sera della vigilia finimmo tutto: Gatto sistemò le ultime saldature, controllò il chip che aveva programmato e con grande soddisfazione ci presentammo alla finale del giorno successivo con questi otto pali luminosi davanti.

Fu bellissimo perché, come preventivato, per metà esibizione i led rimasero spenti e poi si accesero tutti allo scoppio di Magical History Soup: dal palco sentimmo un OHHHHHHHH del pubblico ed in quel momento ci guardammo tutti in faccia...
Avevamo realizzato un sogno che tra ideazione, progetto e realizzazione era andato avanti per un anno. Ricordo di aver pensato: “beh, con questa trovata abbiamo vinto, non c'è storia”.

Risultato: secondi.

(...)

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