Altro che settarismi in Iraq e Siria: ora l’Isis riesce a dividere
anche gli Stati Uniti provocando una serie di dichiarazioni che mostrano
la debolezza della strategia Usa in Medio Oriente.
A lanciare la bomba è lo stesso presidente Obama che ieri,
dopo mesi di avanzata islamista, ha finalmente ammesso le responsabilità
del proprio paese: la repentina crescita dello Stato Islamico è
la conseguenza dell’invasione statunitense dell’Iraq, guidata da George
W. Bush, ha detto Obama in un’intervista a Vice News. “Una conseguenza inattesa”, è ovvio, ma che è “diretta
conseguenza di Al Qaeda in Iraq, emersa a causa della nostra invasione.
È un esempio di conseguenze non previste. Per questo generalmente
dovremmo prendere la mira prima di sparare”.
Tanta autocritica non era stata mai compiuta da nessuno all’interno
del blocco di cemento dell’establishment statunitense. Ora la breccia
potrebbe provocare la rottura. L’ex vice presidente Dick Cheney,
uno dei burattinai dell’occupazione dell’Iraq al fianco di Bush,
parlando con Fox News si è preso la rivincita e ha definito Obama “il
peggior presidente della mia vita, senza dubbio”: “Ero solito
criticare Jimmy Carter, ma paragonato ad Obama e ai danni che sta
provocando alla nazione…è una tragedia, una vera tragedia e pagheremo il
prezzo”. Perché, aggiunge Cheney, la colpa dell’allargamento a macchia
d’olio dei gruppi islamisti stile al-Qaeda è di Obama, incapace di
frenarli.
Il caos che regna dentro le stanze dei bottoni statunitensi ha delle
ripercussioni. L’assenza di una reale strategia contro l’avanzata
dell’Isis sta provocando seri danni, con la Casa Bianca e il Pentagono
che dicono una cosa e la Cia che li smentisce. In Iraq
Washington preferisce far avanzare gli altri, le forze sul terreno, che
da sole dimostrano di poter fare meglio e più in fretta della
coalizione. In Siria indossa i paraocchi continuando a finanziare e
sostenere gruppi moderati incapaci di combattere e di rappresentare un’alternativa politica ad Assad.
L’abbattimento di un drone Usa, due giorni fa, da parte
dell’aviazione siriana è il migliore dei simboli dello stallo: il
Predator sarebbe stato colpito a nord ovest del paese e i funzionari Usa
stanno ancora tentando di capire se sia stato abbattuto in uno spazio
di cielo controllato dalla coalizione o no. Se fosse caduto nello spazio
aereo che la coalizione si è auto-attribuita, allora – dicono
funzionari anonimi – si deve pensare ad una qualche forma di reazione
contro il governo di Damasco, il cui sofisticato sistema di difesa aera
però è operativo soprattutto a est e al centro del paese.
Se a colpire il drone fosse stato l’esercito di Assad, come
subito rivendicato da Damasco che ha parlato attraverso l’agenzia di
Stato di abbattimento di un aereo “ostile”, il messaggio per Obama è
chiaro. A pochi giorni dall’apertura del segretario di Stato
Kerry (“Alla fine dovremo negoziare [con Assad]”) e dopo mesi in cui
l’aviazione siriana non ha reagito all’utilizzo del proprio spazio aereo
da parte della coalizione, perché abbattere un drone proprio
ora? Per ragioni di potere contrattuale. Ognuno ha i suoi spazi e gli
Usa, con cui la collaborazione anti-Isis è ufficiosa, non possono
muoversi liberamente dove il governo esercita ancora il proprio
controllo.
Il drone è stato abbattuto vicino Latakia, città costiera roccaforte
della famiglia Assad, lontano dalle aree in cui generalmente la
coalizione bombarda le postazioni islamiste. E l’esercito siriano,
finora passivo nei confronti della coalizione globale, oggi traccia le
proprie linee rosse: nessun drone, nessuna sorveglianza, nessuna azione
militare in zone controllate da Damasco, dove l’Isis non c’è.
In Iraq stallo a Tikrit
Dall’altra parte del confine, le 30mila truppe irachene sembrano
rallentate nella ripresa della città di Tikrit. Lo scorso fine settimana
i generali dell’esercito di Baghdad parlavano di operazione quasi
conclusa, 72 ore e la città sunnita sarebbe stata liberata. È passata
quasi una settimana e Tikrit non è ancora stata rioccupata.
Prima si sono attesi i rinforzi per prepararsi alla guerriglia urbana
con gli islamisti rimasti in città – solo 60 secondo Baghdad, un numero
poco credibile – ma ora a rallentare sono gli ordigni disseminati
dall’Isis. “La battaglia per riprendere Tikrit sarà difficile
per la preparazione dell’Isis – ha detto Jawwad al-Etlebawi, portavoce
della milizia sciita Asaib Ahl Al Haq – Hanno messo bombe in tutte le
strade, gli edifici, i ponti, ovunque. Abbiamo bisogno di forze
addestrate alla guerriglia urbana per poter passare”.
E mentre Tikrit resta in attesa e gli Usa stanno a guardare senza
intervenire, è lo Stato Islamico a prepararsi alla battaglia delle
battaglie. Il target governativo è Mosul, seconda città irachena
e prima a cadere in mano al califfato. Riprendere Mosul significherebbe
far crollare buona parte dell’efficace propaganda jihadista, oltre che
abbattere le sue capacità militari e di approvvigionamento di uomini e
armi. L’Isis lo sa bene e per questo sta già iniziando a proteggere la città.
Secondo fonti locali, da mercoledì i miliziani stanno costruendo un muro intorno alla città, ribattezzato “muro del califfato”,
e scavando trincee per impedire alle forze irachene di entrare. “L’Isis
sta usando i giovani di Mosul per costruire il muro – aggiunge la fonte
– offrendogli 600mila dinari. Chi si rifiuta viene punito”.
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