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05/03/2015

Torture afghane, gli uomini neri di Karzai

Ci son volute 125 interviste di Human Rights Watch per confermare quello che strutture democratiche afghane, come la Social Association Afghan Justice Seeks, denunciano da un decennio: nel Paese uccisioni, torture, terrore proseguono come ai tempi della guerra civile sotto lo sguardo assente, e spesso complice, del governo. La chiamata di correo per l’ex presidente Karzai, introdotto assieme all’Enduring Freedom da Pentagono e Casa Bianca, è totale. Diversi degli otto “uomini forti” dell’apparato afghano (Shujoyi, Timur, Karwan, Noor, Kapisa, Alam, Khalid, Razziq) denunciati dalle cento pagine di rapporto, erano suoi uomini. Voluti e incaricati per la politica sporca e sanguinolenta, su cui il capo della Cia Panetta e il presidente statunitense Obama annuivano. Nelle testimonianze rese, non senza timore, da parte di superstiti e familiari delle vittime ce n’è per ciascuno degli otto.

Ma i curricula di Asadullah Khakid, Abdul Razziq, Atta Mohammad Noor superano ampiamente quelli dei compari. Khalid è un politico della provincia Ghazni, aderente al partito Ittihad, gli islamici fondamentalisti di uno dei più coriacei signori della guerra: Rasul Sayyaf, che un anno fa correva per la presidenza. Khalid, dopo aver lavorato per il National Directorate of Security (motivo per cui subì un primo attentato nel 2007), dopo essere stato ministro degli affari tribali, è assurto alla direzione dell’Intelligence interna, beneficiandone del potere e della prossimità coi consiglieri della Cia. Per questo la componente talebana più intransigente gliel’ha giurata e nel 2011 e 2012 ha cercato di ucciderlo con altri agguati, tutti falliti. Il rapporto si dilunga sui trattamenti che gli agenti del NDS riservano anche ai semplici sospettati di prossimità al fronte talebano, sospettati unilateralmente e pescati fra la popolazione civile. Come e più di lui in fatto di macabri dettagli, che descrivono anche le tipologie delle violenze sui prigionieri, è l’attuale capo della polizia Abdul Razziq. Dietro la faccia di eterno ragazzo cela una sorta di adorazione per la brutalità. E’ accusato del rapimento e dell’uccisione di sedici persone come vendetta per l’assassinio di suo fratello. Lui si giustifica sostenendo che quelle morti avvennero a seguito d’un agguato anti talebano, ma è smentito da testimoni e da parenti di alcune vittime.

Da quando nel 2011 Razziq ha assunto la dirigenza della polizia si sono verificate sistematiche torture verso gli arrestati e anche solo sospettati di azioni d’insorgenza. I cadaveri di cittadini sospetti - fermati, seviziati e mutilati presumibilmente nei posti di polizia - stati trovati e denunciati da varie fonti (da HRW a Ong afghane che si sono occupate di violenze sui e fra i civili). Razziq aveva sempre negato addebiti, sostenendo che il suo “buon lavoro” veniva infangato da tanti nemici. Sicuramente quelli che potevano ancora parlare... Ultimo, ma non certo di truculenza inferiore, Atta Mohammad Noor, governatore di Balkh, considerato fra gli altri crimini un profittatore. E’ responsabile di reiterati accaparramenti di fondi del piano Nato per l’addestramento e l’implemento di ufficiali e soldati di truppa afghani. Con quel denaro era solito pagare le sue milizie private, perorandone l’utilizzo per le carenze d’organico nella polizia della provincia addebitate a Karzai. L’ex presidente per anni ha sorriso e protetto tutto ciò, a Kabul dicono perché ne condivideva le ruberie. Al malcontento e ai timori popolari riguardanti le proprie bande armate Noor rispondeva a tono: “Chi li teme ha legami coi Taliban”. In realtà la vicinanza a certi talebani era sua: più che combatterli li corrompeva proponendogli di pagarli in cambio di tregue. Un comportamento tollerato e in varie circostanze praticato dagli stessi eserciti occidentali, timorosi di attentati.

Queste mani insanguinate e menti criminali non salvano le istituzioni passate e lasciano le attuali davanti a un imbarazzato bivio, visto che in fatto di tortura le strutture della Nato non temono confronti. Ricordiamo che solo due mesi or sono, nel dicembre 2014, in piena campagna propagandistica sul “ritiro” militare, venne alla luce il famoso documento sulle sevizie ai prigionieri che ha fatto indignare taluni politici d’Oltreoceano. Davanti al report, fortemente voluto dalla senatrice californiana Feinstein, il presidente Ghani più che uno scatto d’orgoglio attuò uno scarto d’ostacolo. Condannò ciò che accadeva nel super lager di Bagram, evitando però di commentare il lungo operato del predecessore Karzai che anno dopo anno, cattura dopo cattura, sevizia dopo sevizia praticata dagli occupanti-amici nulla faceva e niente diceva o soltanto pensava. Oggi sappiamo perché: con le sue squadrette del terrore era in perfetta sintonìa con quella prassi. A dicembre la forza delle cinquecento pagine di dossier fece passare con un paio di settimane d’anticipo sui tempi previsti la gestione della base Nato al governo di Kabul, mentre il raffinato lager di Bagram, che aziende italiane nel 2010 avevano contribuito ad ampliare, avrebbe dovuto chiudere. Non sembra sia accaduto. Conoscendo le linee guida del Pentagono pochi credono al totale allontanamento dei supervisori statunitensi dall’attività di sicurezza globale. Lecita e illecita.

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