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03/04/2015

Il peso del centenario di Pietro Ingrao

Il diluvio meritato, di auguri, complimenti, commemorazioni, ricordi dedicati al centesimo compleanno di Pietro Ingrao non esenta da una qualche riflessione politica. Con questo non si intende andare a cercare l’episodio controverso nel percorso politico di una persona, ce ne sono in ogni sentiero compreso quello esistenziale dei santi, per poi procedere a sbrigativi giudizi da tastiera.

Per riflessione politica si intende un’altra cosa. Ovvero quale analisi è possibile davanti allo scorrere di una biografia, oltretutto centenaria, di un comunista, protagonista del ‘900, che è stato non solo militante, quadro politico, istituzionale ma persino poeta. Una persona attenta al potere ma anche curiosa. Attenta al realismo di partito, Ingrao votò l’espulsione dei compagni del Manifesto dal PCI nel ’69, ma anche capace di cercare di interrogarsi sul nuovo di un capitalismo, quello che si è imposto dalla fine degli anni ’70 e in Italia è esploso con il post-’89, che la sinistra italiana non ha mai capito (dissolvendosi proprio per questo). E questo tentativo di comprensione del liberismo, Ingrao lo fece, in un testo come Appuntamenti di fine secolo, proprio con Rossana Rossanda, una delle militanti comuniste espulse dal Pci con il voto di Ingrao del ’69. Agli occhi del giudizio politico di oggi, sempre isterico rispetto ad ogni comportamento ritenuto incoerente, un orrore, una particolare ambiguità politica nel rapporto tra l’epuratore, seppur critico, e l’epurata di un tempo. E invece si tratta dell’esito intellettuale di un percorso, politico e culturale, particolarmente complesso, ricco, controverso, spesso fortemente e implacabilmente criticabile ma mai sterile.

Per essere collocabile entro un’analisi politica, l’impressionante sequenza di eventi che sta nella biografia di Ingrao, deve sicuramente rendere conto di cosa è stato il Pci. E qui il problema si fa controverso. Visto che, a quasi un quarto di secolo dallo scioglimento del partito fondato da Gramsci, circolano sostanzialmente quattro letture, su tutti i livelli dall’elementare al complesso, di questo tipo: nostalgico-reducista, fatalista (la società italiana ormai mutata non poteva più riprodurre un Pci), liquidazionista di destra (rimasta a surreali giudizi da guerra fredda anche nel 21esimo secolo), liquidazionista di sinistra (che considera la storia del Pci, da vari punti di vista, come la vicenda, già scontata fin dall’inizio, di un esito reazionario).

E’ bene chiarirsi su una cosa. Chi scrive ha sempre cercato, quando c’è stata occasione, di trasformare in tesi storiografiche, fornita di categorie complesse, l’analisi di Rosso, periodico dell’autonomia, sul Pci degli anni ’70 come linea di difesa del capitalismo in Italia. E cercato comunque di metabolizzare positivamente le critiche al Pci provenienti da qualsiasi settore della sinistra storica rivoluzionaria italiana. Ogni critica, da quelle degli esteti a quelle di provenienza incoffessabile (per la politica ufficiale, s’intende). Ogni critica ripresa nella sua dignità analitica ed entro quel briciolo di preveggenza, in mezzo ad errori politici anche tragici, che suggeriva che il Pci del compromesso storico avrebbe aperto la strada ad un deserto capitalistico di straordinarie proporzioni. Era chiaro allora ed è, ancor più drammaticamente, chiaro oggi che il compromesso storico, la politica dell’austerità unita all’intesa politica con la Dc, hanno rappresentato la necessaria precondizione per la trasformazione di un paese socialmente e politicamente ricchissimo, come l’Italia di allora, in una wasteland liberista.

Un episodio su tutti: Luciano Lama, intervistato dal Corriere della Sera, il 2 dicembre 1978, sul tema dello SME, il dispositivo monetario europeo che poi sarebbe diventato l’euro dei tagli alla spesa pubblica, disse che SME o non SME l’unica politica da fare in Italia era quella dei sacrifici, della moderazione salariale e dell’austerità. Una spirale incontrollata e autoreferenziale di austerità e rigore, oltretutto da praticarsi in alleanza con il partito dei Gava e dei Ciancimino, che dovrebbe far riflettere i nostalgici di oggi. Quelli che scagliano la storia, e le icone, del Pci contro le politiche liberiste di Renzi. Politiche che altro non sono che quelle che Lama difendeva a prescindere persino dalla collocazione internazionale dell’Italia. Cari compagni, come dire, affezionati al tema, qui è chiara una cosa: come tutti, immancabilmente compreso chi scrive, la riflessione da farsi è su cosa non torna del proprio passato. Anche quello ereditato, a volte in forma irriflessa, dai genitori. L’unica condizione per produrre categorie politiche adatte per il futuro.

Questo per dire però, con franchezza, che il punto, e la biografia politica oggi centenaria di Ingrao ci aiuta a capirlo, che nessuna delle altre letture della storia del Pci – da quella fatalista a quelle liquidazioniste compresa quella di sinistra – rende conto della straordinaria complessità della vicenda storica del partito comunista italiano.

Nemmeno categorie che escono da letture classiche, come Michels, o più recenti, come Crouch, sono in grado da sole di rendere conto della storia di un partito che è stato contemporaneamente due cose diverse come popolo e classe, compromesso e antagonismo, radicamento sociale e nesso amministrativo, separatezza del politico e pratica di democrazia dal basso, potere autoritario e emancipazione sociale, subalternità culturale e ottusità politica ma anche creatività e invenzione. La biografia politica di Ingrao la troviamo sicuramente entro tutto questo. E allora ci appare non solo tutta la storia personale, che nei comunisti è inseparabile da una storia collettiva e politica, ma anche quella di un partito in tutta la sua profonda dimensione. Ecco così che, leggendo la storia di Ingrao, possiamo notare almeno due passaggi di importanza storica e politica.

Il primo, leggibile attraverso il congresso del Pci del 1966, è quello di una sinistra del partito incapace di prendere l’egemonia nel partito. E alla vigilia del ’68 un passaggio che, a suo modo, contribuirà a rendere il Pci sempre più permeabile al compromesso con la Dc e le nuove sinistre sempre più lontane da un partito alieno non solo nelle strategie ma anche nella cultura e nei linguaggi. L’altro elemento che riguarda, a sommi capi, la sinistra ingraiana del partito è il fatto di non aver avvertito, alla fine degli anni ’70, la sostanza delle potenti trasformazioni che stavano attraversando l’Italia e che provenivano dal mondo che oggi si chiama globale. Prima di tutto la società italiana di allora non era già più quella che avevano letto gli Asor Rosa, il figliol prodigo Tronti, i Luporini o, meno che mai, i Badaloni. Il passaggio verso una società post-industriale rendeva l’Italia velocemente illeggibile a categorie di lettura che apparivano agili appena pochi anni prima. Mancare poi, nel momento in cui si stava formando, la rivoluzione allora detta microelettronica e quella comunicativa, assieme alla trasformazione dei paradigmi economici, fu, per la sinistra del partito, fatale. E fu una mancanza che la costrinse a rifugiarsi, giocoforza, in un contenitore di una mera, per quanto onesta e in alcuni momenti pure dignitosa, occupazione di quote di posti nelle istituzioni e nelle amministrazioni. Amministrazioni ed istituzioni destinate a decadere nei cicli di ristrutturazione dell’Italia liberista.

Le parole –“un gorgo”– con cui lo stesso Ingrao, all’inizio degli anni ’90, definì l’Italia uscita dalle trasformazioni degli anni ’80, indicano però non solo una ammissione di impotenza. E non solo l’onestà di una autocertificazione della sconfitta politica. Ma anche la curiosità intellettuale di chi vuol vedere l’abisso in faccia, risalire la china, nonostante gli anni, e capire cosa è accaduto. Il peso dell’eredità politica di Pietro Ingrao è proprio questo. Quello di una sinistra che non avuto, e a volte nemmeno voluto, gli strumenti per entrare nella società e nel capitalismo che cambiano e non li ha, e spesso non li vuole, nemmeno oggi. Ma anche il peso di saper riprodurre una curiosità culturale, una vivacità ed una sensibilità pre-politiche che poi diventano facoltà del politico, che ritorna comunque nonostante ogni dramma, ogni stagnazione epocale.

Il peso è di quelli che ci fa capire una cosa: la storia l’hanno fatta, invariabilmente, i morti, e serve ai vivi perché non si trasformino in morti viventi. L’estremo prolungarsi della vita di Ingrao ci riporta interamente questo peso. Ingrao, forza della sua biografia ma anche significato dei tempi, sembra aver raccolto il suggerimento dello strepitoso Dylan Thomas: “infuria, infuria, contro il morire della luce”, lasciando vive, controverse e originali composizioni di significato proprio quando è certo che queste saranno ingoiate da un panorama dominato dall’incombente crepuscolo.

per Senza Soste, Nique la police

2 aprile 2015


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