Quel volantino, segnalato alla Cgil e di qui alla magistratura, è partorito dalla fervida mente di un proprietario di "agenzia interinale" basata in Romania, ma probabilmente italiano del genere più squallido. Nell'articolo di Massimo Franchi, su il manifesto di oggi, sono riportati in dettaglio i termini inqualificabili del testo.
A noi qui interessa inquadrare questa notizia come "applicazione diretta" di quello spirito animale del capitalismo rappresentato dalla "direttiva Bolkestein" - dal nome del commissario europeo che l'aveva proposta, al tempo in cui il presidente della Commissione era Romano Prodi - che tante proteste aveva sollevato in tutta Europa, fino ad affossare la Costituzione europea sottoposta a referendum in Francia e Olanda (da allora nessuna decisione dell'Unione Europea è più stata oggetto di referendum nazionale). Proteste animate non solo dai sindacati nazionali - persino da quelli più "complici" - ma anche dai piccoli imprenditori (memorabile, in questo senso, la polemica francese sull'"idraulico polacco").
La direttiva era stata presentata dalla Commissione Europea nel febbraio 2004 da Frits Bolkestein, commissario per il mercato interno, ma i lavori per disegnarla erano iniziati nel 2002, con l'asettica presentazione di una "relazione sullo stato del mercato interno dei servizi". L'obiettivo dichiarato in pubblico era "l'integrazione del mercato interno per sfruttare in pieno le potenzialità di crescita economica", puntando a facilitare la circolazione e la liberalizzazione dei servizi all'interno dell'Unione europea. Che non sono però un settore limitato, visto che rappresentano il 70% dell'occupazione nel continente.
Naturalmente venne presentata come necessaria a migliorare "competitività e dinamismo in Europa", nello spirito della Strategia di Lisbona; addirittura qualificando come un "importante dritto dei cittadini europei" avere dei prestatori di servizi liberi di muoversi e insediarsi dove meglio credono all'interno dell'area Ue.
Il principio generale giuridico faceva appello alla sentenza Cassis de Dijon, del 1979, relativa alla libera circolazione dei beni, emessa dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. La Corte aveva sostenuto che se un bene è prodotto e commerciato legalmente in uno stato europeo, gli altri stati membri non possono limitarne la circolazione bensì presupporre la sua conformità.
Ma la Bolkestein estendeva questo principi dagli inerti "beni" ai "servizi", che sono invece forniti da esseri umani in carne e ossa, e che lavorano secondo regole e salari nazionali anche molto differenti.
Il cavallo di Troia escogitato da Bolkestein era tutto sommato banale: veniva adottato il principio del paese di origine. Quindi un prestatore di servizi che si sposta in un altro paese europeo era obbligato soltanto al rispetto della legge del proprio paese di origine, pur operando in un altro. In pratica, secondo quello schema, un "prestatore di servizi" bulgaro o rumeno poteva aprire una filiale in Italia, Francia o Germania e assumere gente secondo le regole (e lo stipendio) del proprio paese. Pochi giorni fa Eurostat ha pubblicato i dati sul costo del lavoro (salario netto più contributi previdenziali e tasse) in tutta Europa: in Bulgaria è di 3,8 euro l'ora, in Romania di 4,6, in Germania di 40.
Chiaro dunque cosa sarebbe potuto accadere se la direttiva fosse stata approvata con quella formulazione: immediatamente tutte le società di servizi de continente avrebbero aperto delle "società controllate" nei paesi della Ue col salario più basso e con le tutele del lavoro più evanescenti; e da lì sarebbe "tornate in patria" per riassumere magari gli stessi lavoratori con un contrattino da terzo mondo, ma "comunitario". Quindi legale.
Questa conseguenza fu eliminata cancellando il principio del paese di origine per quanto riguarda tutti gli aspetti rientranti nel diritto del lavoro, e rimase in vigore - nella versione infine approvata nel 2006 - solo per gli aspetti legali, come riconoscimento di diplomi, regolamenti, necessità di autorizzazioni particolari.
Da allora, il sogno capitalistico di un "mercato del lavoro europeo senza tutele e con salari da terzo mondo" è stato perseguito in altro modo: ora va sotto il nome di "riforme strutturali". In Italia si chiama Jobs Act, per esempio. O anche "adeguamento dell'età pensionabile alle aspettative di vita", "blocco della rivalutazione dell'assegno pensionistico", ecc.
L'impresa finto rumena molto italiana che ha diffuso il suo volantino a Modena reinterpreta dunque, a modo suo, lo "spirito originario" della direttiva Bolkestein. Va espulsa immediatamente.
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La «Spectre» del caporalato
Massimo Franchi
«Supera la crisi! Riduci i costi del 40 per cento! Con i lavoratori interinali con contratto rumeno». L’invito è musica per le orecchie della peggiore — e non si sa quanto minoritaria — imprenditoria italiana. Quella che pur di risparmiare sul costo del lavoro sarebbe disposta a vendere la madre.
Personaggi che verosimilmente si sono strofinati le mani continuando la lettura del volantino, distribuito e affisso lungo la via Emilia rossa, a Modena. «Niente Inail, niente Inps, niente malattia, niente infortuni, niente Tfr, niente consulenti, niente tredicesima, niente quattordicesima, no problems». E ancora: «Alla tua azienda non rimane che pagare 11 mensilità e non 14 più Tfr e contributi come stai facendo… ed in più: niente anticipo di Iva perché le nostre fatture sono comunitarie».
Al mondo però c’è ancora speranza. Il volantino infatti ha fatto letteralmente bestemmiare perfino un consulente del lavoro italiano. «È troppo anche per me», per chi come lui cerca ogni giorno di inventarsi modi per far calare il costo del lavoro. È stato lui a portarlo alla Cgil di Modena che mercoledì ha presentato denuncia alla Procura.
«All’inizio abbiamo pensato ad una bufala — racconta Franco Zavatti, coordinatore legalità della camera del lavoro sotto la Ghirlandina — . Poi però abbiamo fatto le nostre verifiche. E tutto torna, specie le garanzie bancarie assicurate da un noto istituto italiano che ha parecchie filiali in Romania. Non c’è ancora una notizia di reato, ma dopo aver contattato la Finanza e l’Ufficio del lavoro, è stata la Procura a dirci che se avessimo formalizzato la denuncia avremmo velocizzato le indagini».
«Ci auguriamo che sia un caso straordinario per dimensione, crudezza e cinismo, palese illegittimità, con fasulla maschera europea di super sfruttamento del lavoro, di moderno caporalato», chiude la nota della Cgil di Modena.
Sul volantino c’è un numero italiano. Potrebbe trattarsi di un promoter. O peggio, del vero proprietario dell’agenzia rumena. Che su internet ha un sito coi fiocchi.
Si tratta della Wsa — Work Support agency di Brasov, città e distretto omonimo al centro del paese. Il sito spiega in maniera più raffinata gli stessi concetti. Una sorta di Spectre del caporalato. Che però asserisce di essere totalmente legale, rispettando la legislazione rumena, il loro Jobs act — «il Codice del Lavoro, aggiornato e modificato, dalla legge 40/2011».
«Siamo un’agenzia di lavoro temporaneo creata sulla base dell’estesa esperienza internazionale del suo fondatore e dei suoi collaboratori, nel mondo della consulenza d’affari e delle risorse umane», viene sottolineato.
Il programma fa tremare i polsi. «Selezioniamo e reclutiamo lavoratori qualificati e non, secondo le richieste specifiche dei clienti interessati. Le persone identificate sono assunte dalla nostra società ai sensi della legislazione romena e sono messe a disposizione dei clienti richiedenti» «in tempi celeri, in conformità con i parametri richiesti» con «riduzione dei costi, offerte personalizzate» per «far fronte facilmente alle fluttuazioni di ordini, nonché di personale dovute alle ferie, vacanze o malattie», «organizziamo nel dettaglio l’arrivo dei lavoratori al luogo di lavoro».
I settori coperti sono innumerevoli: «Autotrasporti: autisti professionali, carrozzieri, meccanici auto, addetti al movimento, amministratori di flotta»; «turismo: receptionist, aiuto cuoco, barman, camerieri e cameriere ai piani»; «settore industriale: operai qualificati o non qualificati, tornitori, fresatori, rettificatori, montatori, saldatori»; «settore sanitario: infermiere professionali, badanti a domicilio», «settore edilizio: operai qualificati o non».
Infine: «il certificato di attestazione fiscale della nostra società garantisce il fatto che regoliamo tutti gli obblighi finanziari, in qualità di datore legale di lavoro dei lavoratori temporanei (Durc)».
E se all’imprenditore italiano tutto ciò non basta, l’agenzia rumena ha pronta anche l’alternativa. L’altra branca in cui è specializzata è «la delocalizzazione». Il costo del lavoro è indentico, ma «l’imposta sul profitto è al 16 per cento».
Sulla questione il senatore di Sel Giovanni Paglia ha presentato una interrogazione parlamentare. «Questo succede a Modena, ma probabilmente anche altrove — ha spiegato — perchè non esiste limite al peggio, se il lavoro è merce e non dignità e diritti. Presenterò un’interrogazione al ministro Poletti, sperando che almeno stavolta si degni di rispondere».
dal quotidiano il manifesto
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