Una raffica di decreti, approvati dal consiglio dei ministri senza
neanche leggerli (sono materia complessa e contorta, come stiamo per
vedere), dà corpo e sostanza alla restaurazione del potere aziendale,
riportando le condizioni dei lavoratori dipendenti alle condizioni del
1953.
Ogni singolo decreto, su ogni aspetto specifico della condizione di lavoro, è figlio di un'unica filosofia unitaria: l'impresa può fare ciò che vuole, con regole minime utili quasi solo al rilevamento fiscale, il lavoratore non può nulla.
Tantomeno difendersi, resistere, contrattare da pari a pari. Basterebbe
il decreto che autorizza la “sorveglianza a distanza” – estesa a
smartphone, tablet, computer, telefoni, oltre che ovviamente alla
libertà di installare telecamere fin dentro ai bagni – per far capire
che il lavoratore d'ora in poi potrà essere trattato come un detenuto,
ma con l'obbligo di lavorare. Velocemente e senza interruzioni né
distrazioni.
Proviamo ad andare con ordine, premettendo che non abbiamo ancora
davanti i testi definitivi, ma solo sintesi giornalistiche più o meno
estese e affidabili. Non mancherà occasione per compagni più esperti di
noi in materia (sindacalisti, giuslavoristi, ecc) di definire un quadro
ancora più dettagliato e preciso.
Saltiamo anche a piè pari il decreto che autorizza il
“demansionamento” del lavoratore quando l'azienda si “riorganizza”
(ovvero quando vuole, perché la produzione è sempre in via di
riorganizzazione), rinviando al chiarissimo intervento di Giorgio Cremaschi su questo giornale.
Contratti a termine. I media vendono il contenuto di questo
decreto come “una stretta” all'uso fittizio di questa forma contrattuale
per nascondere un rapporto continuativo. Ma è esattamente il contrario.
Non c'è infatti alcun obbligo per l'impresa di addurre delle “causali”
per il ricorso a questa forma contrattuale invece che al contratto a
tempo indeterminato. Resta anche il 20% come tetto massimo di contratti a
termine (rispetto al totale dei dipendenti), ma il decreto si preoccupa
soprattutto di rassicurare l'azienda che sforerà questo limite: il rapporto di lavoro non verrà comunque mai trasformato in contratto a tempo indeterminato.
In ogni caso, se alcuni sindacati saranno d'accordo, a livello
aziendale si potrà derogare da questo limite. Ma ci sono anche numerose
possibilità di derogare senza contrattazione (es: le nuove imprese,
ecc).
Altro regalo ai padroni: i lavoratori "over 50" non vengono
conteggiati ai fini del raggiungimento della soglia limite; in pratica,
un'azienda potrebbe avere soltanto lavoratori “a termine”, basta che
rispetti la giusta proporzione tra over e under 50. A chi comunque
dovesse violare anche questo confine larghissimo, verrà al massimo
comminata – come prima – una multa, pari al 50% del salario corrisposto.
Ma qui il governo ha voluto aggiungere alla beffa il danno: la
normativa precedente prevedeva che i soldi versati come multa finissero
al lavoratore, il decreto glieli leva di tasca per girarli al fisco!
Falsi co.co.co. Altra “stretta” inesistente. Anzi. Per esempio
si può assumere “collaboratori” senza che sia più necessario presentare
un “progetto” cui dovrebbero collaborare... La nuova norma promette,
sì, di considerare “rapporto di subordinazione” ogni co.co.co. dove si
verifichino “prestazioni di lavoro esclusivamente personali,
continuative e organizzate dal committente” (in effetti un
“collaboratore” dovrebbe potersi “autorganizzare”, specie su tempi e
luogo di lavoro). Ma viene stilata una lista di “eccezioni” così lunga
da coprire di fatto qualsiasi fattispecie: si va dagli “accordi normati
da contratti collettivi” ai professionisti, dalle società sportive agli
organi di amministrazione, ecc. Significativa, rispetto alla prima
stesura, la cancellazione della formula “prestazioni di contenuto
ripetitivo”, che avrebbe potuto rendere illegale la collocazione di un
co.co.co. alla catena di montaggio o simili. In ogni caso, i termini
usati sono talmente generici che “questa normativa resta ampiamente
soggetta a interpretazione”, dicono già alcuni giuslavoristi. E non è
difficile immaginare in quale direzione si muoverà l'interpretazione
delle aziende...
Apprendistato. Si introducono
modifiche all'apprendistato “per qualifica e diploma”, oltre che per
“alta formazione e ricerca”, dando così vita a un “sistema duale” che
lascia inalterate le “funzioni basse”. In pratica, si dà all'azienda la
possibilità di far valere il periodo di “apprendistato” come se fosse un
ciclo di studi. Una possibilità che chiarisce meglio di un faro quale
sia la filosofia della “buona scuola”. Di fatto, si apre al lavoro
minorile come “professionalizzante”, facendo entrare in produzione dei
quindicenni che risulteranno “diplomati” allo scattare della maggiore
età o a conclusione del periodo di apprendistato.
Somministrazione. Una sola innovazione: la
cancellazione delle “causali” che l'azienda doveva addurre per ricorrere
a questa tipologia contrattuale. Anche qui viene fissato un “limite del
20%” rispetto al totale degli addetti, naturalmente “derogabile” con
accordi aziendali peggiorativi.
Part time. Vengono ammessi ancora gli
straordinari, ma solo nella misura del 15% rispetto all'orario
settimanale concordato; la retribuzione dovrebbe anch'essa salire del
15% rispetto alle ore normali. Ma si può sempre e comunque “derogare”...
Voucher. Sarà utilizzabile fino a 7.000
euro per le “prestazioni occasionali”. In pratica, si allunga il periodo
di lavoro considerabile “occasionale”, fino a coprire – a seconda del
salario corrisposto – anche più di sei mesi.
Conciliazione vita-lavoro. Si allungano i
tempi utilizzabili per il congedo parentale nel caso di cura dei
bambini, ma bisogna anche considerare che il livello salariale è appena
del 30% per chi deve accudire bambini fino ai sei anni, e addirittura
zero fino ai dodici anni. In ogni modo, il periodo utilizzabile dal
lavoratore è comunque di soli sei mesi. In alternativa, potrà passare in
part time al 50%.
Fin qui i decreti approvati in via definitiva e quindi operativi non appena firmati dal presidente della Repubblica.
Poi ce ne sono quattro “approvati in prima lettura” che sono
destinati a stravolgere sia gli ammortizzatori sociali che l'attività
ispettiva, senza dimenticare la “semplificazione” – la libertà, per
l'azienda – dei controlli a distanza su ogni singolo lavoratore.
Il più rilevante nell'immediato riguarda però gli ammortizzatori.
La logica è sempre la stessa: meno diritti per tutti.
Come si fa a nascondere questo scempio? Semplice: si concede qualcosa a
chi non aveva quasi nulla e si toglie sostanziosamente a chi aveva una
protezione più robusta.
L'esempio è immediato. La cassa integrazione viene estesa anche
alle aziende da 6 a 15 dipendenti. Bisogna però sapere che a) la cig è
un istituto finanziato con contributi delle aziende e dei lavoratori,
non dallo Stato; b) la cig viene chiesta dalle aziende, perché permette
loro di non pagare gli stipendi per un certo periodo; c) la cig di questo
tipo di imprese era fin qui solo “in deroga”, e questa veniva invece
pagata dallo Stato; d) i lavoratori licenziati usufruivano soltanto
dell'assegno di disoccupazione.
Il cambiamento consiste in pratica in questo: ora
aziende e lavoratori (da 6 a 15) verseranno un'aliquota mensile che servirà a finanziare la cig (alleggerendo i conti dello Stato).
Dov'è la perdita? Per i lavoratori di questo tipo
di imprese (salvo smentite da analisi più approfondite) forse non c'è,
ma è sostanziosa per tutti gli altri.
Scompare infatti la cig “straordinaria” resta solo
quella "ordinaria". In pratica, solo per le aziende colpite da crisi
congiunturali (alluvioni, terremoti, ecc).
Soprattutto viene ridotta a soli 24 mesi (anziché 48!).
E se, giustamente, viene estesa anche agli “apprendisti”, non sarà però
più utilizzabile in caso di chiusura dell'azienda. Che era poi il campo
di applicazione della cig “straordinaria”. Quindi: periodo di tutela
dimezzato, leggera estensione della platea, esclusione definitiva di una
tipologia di cig tra le più frequenti in periodi di crisi e di chiusura
di un gran numero di stabilimenti.
L'unico ombrello universale resta perciò il Naspi,
nuovo nome dell'assegno di disoccupazione, che sostituisce anche la
“mobilità”. Anche qui si toglie molto fingendo di concedere qualcosa: il
periodo coperto dal Naspi passa da 18 a 24 mesi (una buona notizia per
chi aveva solo questa possibilità; non sono molti, però), ma scompare la
“mobilità” che durava tre anni (e di cui usufruiscono la maggior parte dei lavoratori licenziati).
Con in più la licenziabilità ad libitum, dopo la
cancellazione dell'art. 18... Non c'è angolo del rapporto di lavoro in
cui un "dipendente" non possa essere raggiunto da questa raffica.
Benvenuti negli anni '50!
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