Ci fu un tempo in cui la sinistra si divise fra rivoluzionari (che volevano conquistare il potere con l’insurrezione armata e fondare, con un solo atto di volontà, un sistema sociale e politico totalmente diverso da quello esistente) e riformisti (quanti volevamo andare al potere con il voto per cambiare il sistema attraverso una politica, appunto, di riforme graduali).
Poi sorsero una serie di correnti che ibridavano in vario modo le due posizioni di partenza; l’antirevisionismo luxemburghiano, il gradualismo malatestiano, le riforme di struttura togliattiane, il riformismo rivoluzionario di Lelio Basso o Andrè Gorz, i movimenti del sessantotto che comprendevano una fitta gamma di posizioni che miscelavano l’antica vocazione insurrezionale con forme di lotta sociale extraistituzionali ma non necessariamente violente.
Qui non entriamo nel merito delle singole posizioni, limitandoci a segnalare uno “slittamento semantico” per il quale, la socialdemocrazia accettò via via il sistema capitalistico e il riformismo non fu più un metodo per giungere ad un mutamento del sistema sociale, ma una politica orientata ad ottenere le migliori condizioni di vita per le classi subalterne, attraverso il welfarestate.
Mentre la sinistra “radicale”, abbandonata la prospettiva insurrezionale, manteneva l’aspirazione ad un diverso sistema sociale e si dichiarava “riformatrice” per distinguersi dai “riformisti” e pensava che le “riforme di struttura” potessero essere lo strumento idoneo a raggiungere l’obiettivo. Per definizione, la sinistra riformista era “ritenuta interna al sistema”, mentre quella radicale “antisistema”, in riferimento alla sua alterità di sistema, a prescindere dai mezzi utilizzati per il cambiamento. Poi, man mano, anche la sinistra radicale (primo fra tutti il Pci) finì per accettare il sistema capitalistico, e ripiegò sulla difesa e l’espansione dello Stato Sociale. In qualche modo, le politiche welfariste diventavano l’”alternativa interna al sistema”. Il sistema restava capitalistico ma aperto ad una redistribuzione della ricchezza (in particolare attraverso la leva fiscale) ed alla modificazione delle gerarchie di classe attraverso le politiche sociali (in particolare l’istruzione e l’estensione dell’intervento statale in economia). Non si usciva dal sistema, ma lo si poteva modificare restando al suo interno perché il sistema prevedeva alternative interne.
Lasciamo perdere in questa sede differenze, successi ed insuccessi di queste diverse linee politiche e soffermiamoci a ragionare sul presupposto comune a tutte queste posizioni: la possibilità di modificare la struttura economica attraverso l’azione politica (più moderatamente nella prospettiva riformista, più radicalmente in quella rivoluzionaria), entro la cornice della sovranità dello stato nazionale. Anche la prospettiva della rivoluzione mondiale coltivata dall’Internazionale Comunista, scontava che la rivoluzione si affermasse nel contesto nazionale e la presa del potere avvenisse di contesto nazionale in contesto nazionale. Peraltro, la prospettiva della rivoluzione mondiale, intesa come rapido processo di estensione dei regimi rivoluzionari in tutta Europa, fu sconfitta sin dall’ottobre 1923 e mantenuta solo nominalmente nel ventennio successivo, in cui prevalse la politica del “socialismo in un solo paese” che, di fatto, risolveva la prospettiva rivoluzionaria nell’estensione dell’area di influenza dell’Urss.
Dunque, riformisti o rivoluzionari (e di tutte le sfumature intermedie o confinanti) definivano la loro politica all’interno dello schema concettuale statale che prevedeva alternative politiche interne al sistema.
La rivoluzione neo liberista (a suo modo è stata una rivoluzione, per quanto regressiva) ha distrutto questo presupposti:
1. affermando il primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica;
2. costruendo un ordine gerarchico mondiale tendenzialmente monopolare (oggi in crisi) che riduce la sovranità degli stati nazionali;
3. sottraendo i grandi capitali finanziari al fisco, attraverso la mobilità mondiale dei capitali, che consente al “grande contribuente” di scegliere il fisco cui pagare le sue tasse;
4. attraverso la delocalizzazione produttiva e la liberalizzazione degli scambi commerciali che, inevitabilmente premia i paesi a costo del lavoro più basso e, quindi, agendo come attrattore verso il basso dei livelli salariali;
5. realizzando un sistema monetario sganciato dalla base aurea o, comunque, da parametri oggettivi e basato solo sull’apprezzamento reciproco delle monete, che fa dipendere la stabilità monetaria di ciascuno dalla dittatura del rating e dalle decisioni dei mercati finanziari (in realtà da Wall Street) di fatto, riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria dei singoli paesi;
6. coprendo l’intero ambito dei rapporti economici ed a livello mondiale, con una fittissima rete di accordi e trattati internazionali (a partire dagli accordi di Marrakesh del 1993) che precludono ogni politica diversa da quella neo liberista e proibiscono esplicitamente l’intervento statale in economia;
7. impedendo ogni politica industriale nazionale, privatizzando le imprese pubbliche e promuovendo grandi fusioni internazionali a guida finanziaria;
8. liquidando i presupposti stessi dello stato sociale.
Di conseguenza, l’ordine neo liberista ha carattere politicamente monistico e non ha spazio per una sinistra interna. Nel mondo della globalizzazione neo liberista non c’è spazio per politiche keynesiane, per compromessi welfaristi e, di conseguenza, per ogni politica riformista. L’ordine neo liberista non prevede alcuna sinistra interna, è tutto ed organicamente di destra. A fronte dell’assolutismo neo liberista, il riformismo, anche il più moderato, assume valenza antisistema al pari di qualsiasi indirizzo rivoluzionario.
Ne consegue che occorre abbandonare la pratica istituzionale per passare a forme di lotta violente o addirittura armate? Per nulla: sarebbe una risposta incongrua rispetto all’obiettivo. Che si prenda il potere in un paese tanto per via pacifica e legale quanto per via violenta ed illegale, il problema non si sposta di un centimetro, perché il nuovo governo, comunque formatosi, avrebbe di fronte lo stesso problema di fare i conti con un ordine mondiale ostile, dove l’unica variabile decisiva sarebbe quella dei rapporti di forza. La Cina ha realizzato un sistema di capitalismo di Stato che si discosta per più versi dall’ordinamento neo liberista, ma può permetterselo perché i rapporti di forza economici, finanziari e, non ultimo, militari, glielo consentono e rappresenta una torsione del sistema internazionale nella misura in cui i rapporti di forza glielo consentono. Il passaggio a diverse politiche non liberiste è antisistema nella misura in cui presuppone la rottura dell’ordine mondiale e della sua rete di trattati ed accordi.
Dunque, il problema, al di là della praticabilità ed auspicabilità di un ricorso a forme di lotta interna violente, si pone in termini diversi: come maturare i rapporti di forza internazionali che consentano di aprire spazi a politiche sociali ed economiche non liberiste. Il che significa che l’asse dell’azione politica si sposta dall’arena nazionale a quella internazionale.
Le sinistre riformiste (Spd, Socialisti francesi e spagnoli, Labour party ecc.) perdono terreno e sono destinate all’estinzione o all’assorbimento organico nelle formazioni di destra, perché all’interno di questa cornice di sistema non possono avere altra sorte.
Le sinistre “radicali” (Linke, Front de Ganche, Izquierda Unida, Rifondazione Comunista e Sel ecc.) stanno subendo lo stesso declino perché non hanno iniziativa politica e non possono averla, perché, incapaci di iniziativa internazionale (neppure a livello europeo), mancano di una proposta politica che non sia pura propaganda senza contenuto.
Syriza è destinata al fallimento perché non trova supporto internazionale e perché non ha il coraggio di utilizzare l’unica arma (a doppio taglio) in suo possesso: il ricatto del debitore.
Podemos (che, tutto sommato, è una variante intermedia fra Sel ed il M5s) è destinata ad analogo insuccesso, perché non pensa neppure di mettere in discussione la cornice europeista.
Il M5s temo sia destinato a schiantarsi contro le resistenze del sistema perché, pur avendo intuito che il nodo è quello dell’ordine internazionale (come dimostra la posizione sull’Euro), non riesce ad articolare questa intuizione in un progetto politico adeguatamente articolato, perché non svolge alcuna azione internazionale e, quando tenta qualcosa, sbaglia (leggi Ukip), perché non ha costruito uno strumento organizzativamente adeguato allo scontro.
Come si vede siamo in un cul de sac, dal quale non usciremo né con improbabili referendum e colpi di testa, né con le solite alchimie di orrendi cartelli elettorali costruiti sul nulla. Ma sarebbe già un passo avanti una convenzione europea, nella quale Podemos, Syriza, M5s, la “sinistra radicale”, i restanti partiti comunisti e le sinistre socialdemocratiche concordino una o più campagne europee sulla ristrutturazione del debito, sull’uscita concertata dall’Euro, la revisione dei principali accordi internazionali. Non sarebbe la soluzione dei nostri problemi, ma un possibile inizio. Il resto è già votato al fallimento.
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