Marino è espressione di un ceto politico da primarie, da politica di relazioni altolocate, da brand televisivo. Senza una visione, e dei legami reali, col territorio, ma con un tessuto di relazioni con banche, imprese, consiglieri di amministrazione, dirigenti pubblici. Non è riuscito a durare. Anzi si è trovato contro una serie di poteri reali dall'immobiliare, alla finanza, a reti clientelari di ogni genere, alla Chiesa. Capita, se ci viene permessa la battuta, a chi fa da Papa straniero. Perché per farlo ci vuole l'appoggio sul campo di un'organizzazione politica degna di questo nome (e già per Cofferati a Bologna non fu facilissimo), non quel territorio per guerra tra bande detto Pd romano. A maggior ragione quando accade che meno di un romano su due ha votato alle amministrative del 2013. Un partito diviso tra bande, in lotta tra loro per i residui di spesa pubblica e per le posizioni di rendita di potere, che è rimasto paralizzato (e decimato) dalla vicenda Mafia Capitale. Già si capisce che Marino, che ha fatto i tipici errori di chi non capisce il cortocircuito tra comunicazione locale e territoriale, è rimasto senza le difese del proprio partito. Ma c'è dell'altro.
Il patto di stabilità per i
comuni, nonostante i fondi erogati per Roma Capitale, non permette
alcuna politica di governo dell'economia locale, di erogazione dei
servizi sociali, e rende molto più difficile la coltivazione delle
clientele. Un sindaco venuto dallo spazio autoreferenziale
della politica nazionale, con un partito in preda a lotte intestine, non
è in grado di governare o controllare i processi di ristrutturazione
delle amministrazioni dettati dal patto di stabilità. Figuriamoci con
una vicenda come Mafia Capitale.
Questo tanto più quando il patto di
stabilità mette in difficoltà i tradizionali bacini di voti, irrita i
poteri forti immobiliari e finanziari che non vedono riscontri in
termini di profitto, fa pensare alla Chiesa di poter gestire
direttamente sempre più ampie porzioni di sociale con un settore
pubblico debolissimo. Si capisce che Marino, a parte la volontà
di apparire duro con i lavoratori in tv (su questo eco ne ha trovata),
ha fatto la fine di Gorbaciov una volta segretario del Pcus: affossato
perché dotato solo di parole d'ordine generiche, senza un partito che
copre ma rimane dilaniato nella lotta per il potere, senza una base
sociale di consenso e con nemici che piovono da tutte le parti.
In più la vocazione di Marino a fare errori di immagine clamorosi,
frutto di un misto di stupidità e arroganza, come quello di ostentare
vacanze oltreoceano, ha fatto il resto. L'ultimo dei bischeri, viene da
dire, perché dopo, a intelligenza politica, si può solo risalire.
Se guardiamo però a quello che voleva
essere Marino, e che non è stato causa conclamato fallimento politico,
qualcosa avvertiamo. Come al solito il calcio, fenomeno
dell'economia globale, qualcosa ci suggerisce. Grazie al tentativo del
presidente giallorosso James Pallotta di fare della Roma, e di Roma, un
brand globale a traino di investimenti. Nel suo tentativo fallito, Marino
ha provato a fare questo. Il sindaco immagine che cerca di
vendere il brand Roma a investitori (e "mecenati" come li chiama lui) in
grado di ristrutturare la città plasmandola secondo interessi globali.
Ma per fare questo il territorio deve essere domato, amministrato e
controllato - e liberisticamente pacificato - non può dimostrarsi un
vaso di Pandora. E poi, per intercettare la ricchezza globale,
l'organizzazione del Pd è completamente inadeguata. Nonostante la
propaganda renziana, il Pd sui territori è un contenitore del
capitalismo predatorio, nepotistico e clientelare. Un luogo del capitale
dove il rischio viene esternalizzato, da poteri aggressivi quando senza
idee, agli strati circostanti al ceto politico. Se guardiamo ad una
capitale globale, della stessa fama di Roma, come New York, si capisce
che il comando deve fare un altro lavoro. New York è stata plasmata, a
misura di capitale globale nella fase apertasi nell'ultimo decennio, da
Bloomberg, l'omonima agenzia di servizi finanziari che ha espresso, per
diversi mandati, il sindaco nella persona del suo fondatore. È questa la
struttura che ci vuole per acquisire capitali globali, non Marino che
si imbuca al viaggio del Papa a Filadelfia. Il Pd su quel piano
esprime menti finanziarie solo rapaci, basti dire che Serra è un
ribassista e che il consigliere di Renzi di Unicredit è indagato per
riciclaggio, non in grado di stare su quel piano di ristrutturazione.
Oppure esprime i Marino o i Pisapia che, semplicemente, si arrendono a
tutti i poteri (come quello gonfio di titoli tossici della Deutsche
Bank).
Resta quindi solo da capire se
Marino è l'ultimo dei bischeri, un velleitario non in grado di stare in
un ruolo che neanche il suo partito può giocare, oppure un embrione di
ciò che può essere un sindaco in futuro. Perché è vero che le
alternative a Marino sembrano confuse ma è anche vero che se un domani,
non certo nella prossima tornata elettorale visti i tempi, si
presentasse una espressione di un Bloomberg Italia, vincerebbe a mani
basse. Una volta pacificato il territorio, naturalmente. Attraverso il
calcio si leggono due tipologie di potere romano: quello di tipo
laziale, espressione di potentati e cordate locali, e quello di tipo
romanista, il cui vertice di comando è comunque globale. Il capitalismo
su quei territori non sembra aver trovato la sintesi tra questo tipo di
poteri - specie quando il Papa, potere globale, ha sconfessato il potere
locale del sindaco - e non è detto che la trovi. Anzi è possibile che
le esigenze di valorizzazione del capitale globale alimentino reazioni
di quello territoriale (Uber contro tassisti è l'esempio più banale). Ma
di sicuro la sintesi non l'ha certo trovata un personaggio petulante
quanto grottesco come Ignazio Marino. Quanto il mondo renziano (al quale
Marino pure non appartiene) che, e non è certo problema nostro, deve
ancora saper dimostrare di navigare in un capitalismo persino più squalo
della specie che ha espresso il Presidente del Consiglio.
Redazione, 9 ottobre 2015
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