Lavoro Insubordinato è un collettivo di
uomini e donne sull’orlo dell’occupabilità che hanno cominciato a
discutere dell’organizzazione politica del lavoro precario in un momento
in cui parlare di sciopero era un po’ come evocare un santo. Tra il
2012 e il 2013 l’esperienza degli Stati Generali della Precarietà, a cui
abbiamo preso parte, ci aveva lasciato contemporaneamente il senso di
una possibilità, un orizzonte politico sul quale investire e una
considerevole dose di realismo. Da buoni atei abbiamo perciò cominciato a
interrogarci a partire dai limiti, dagli ostacoli, dalle domande che le
esperienze pregresse avevano aperto.
La prima considerazione è stata quella della difficoltà oggettiva di organizzare i precari e, anche per questa ragione, l’idea
di uno sportello tecnico di supporto alle vertenze, nella sua
innegabile utilità, ci sembrava lasciare aperto il problema della
comunicazione politica, ovvero di processi organizzativi capaci
di assumere una forma espansiva andando al di là della singola
vertenza. Poi si è profilato all’orizzonte il Jobs Act. Lo abbiamo
subito interpretato come il tentativo di accelerare e portare a
compimento i processi di precarizzazione in atto da tempo. Il Jobs Act
non ha inventato la precarietà, ma punta decisamente a darle una forma
compiutamente neoliberale. Non si tratta più di colpire dove è
possibile, di permettere alle imprese pubbliche e private di fare
profitti sull’abbassamento costante del costo del lavoro grazie alla
compressione dei salari. Si tratta di costringere il lavoro dentro a un
sistema di vincoli che lo rendono sempre disponibile al prezzo più basso
e con le minime garanzie normative. La vera innovazione del
Jobs Act è il suo essere dichiaratamente elemento di un sistema che
vuole produrre una costante disponibilità al lavoro, un sistema
del quale fanno parte anche la riforma della pubblica amministrazione e
della scuola, la revisione della spesa sanitaria e la tanto annunciata
nuova politica fiscale.
Siamo perciò partiti da noi, sapendo che
quanto stava avvenendo in Italia assumeva il suo reale significato nel
quadro europeo e globale. Sapevamo anche che, proprio perché la
precarietà è ormai la forma generale di tutto il lavoro, rendendo
fatiscente ogni distinzione tra lavoro garantito e non garantito, il
lavoro nel suo complesso è diventato una zona grigia per l’iniziativa
politica, scomodo per i sindacati, scivoloso per i movimenti. Con il suo linguaggio trendy
e la retorica della semplificazione, il Jobs Act si presenta invece
esplicitamente come un discorso sul lavoro sebbene punti a stabilizzarne
la crisi. Con la precarizzazione del contratto a tempo indeterminato si
dice ai lavoratori e a chi cerca, suo malgrado, di diventarlo, che il
salario se lo devono conquistare continuamente. La retorica della ripresa dalla crisi nasconde nient’altro che un aumento del tasso di sfruttamento e del ricatto.
Il primo passo, perciò, è stato partire da un’analisi di quanto
accadeva con questa riforma del lavoro, cercare cioè di capire in che
direzione andavano le sue trasformazioni. L’obiettivo non era solo
informare o fare cronaca, né offrire soluzioni immediate di cui – ahinoi
– non disponiamo, ma ragionare sui cambiamenti in corso nell’ottica di
creare le condizioni per organizzarsi, individuare la controparte,
fornire strategie utili per districarsi nella nuova situazione che si
stava determinando.
Questa serie di articoli, pubblicati sul
sito connessioniprecarie.org da aprile 2014 a luglio 2015, è nata
perciò con lo scopo di comprendere e analizzare gli effetti politici e
materiali del Jobs Act e le tendenze di lungo periodo alla base della
riforma del mercato del lavoro in Italia. Nel cuore della crisi,
o meglio della sua normalizzazione e delle politiche di austerità, il
lavoro diviene sempre più informale, nel senso che perde ogni forma
prestabilita, effetto di una contrattazione più o meno
allargata. Le principali innovazioni apportate dal Jobs Act e dai suoi
decreti attuativi appaiono inoltre come il naturale epilogo di un lungo
processo transnazionale che punta tutto proprio su questa produzione di
un lavoro informale.
Analizzando gli effetti di questa legge
ci siamo resi conto che quello che si stava cercando di imporre era una
ridefinizione complessiva dei rapporti di potere dentro e fuori i luoghi
di lavoro. Abbiamo definito «regime del salario» questo
rapporto di dominio dentro e contro il quale ci troviamo oggi a vivere.
Il governo del capitale pretende che al suo interno la dipendenza dal
salario sia assoluta, nonostante e spesso attraverso forme di
compensazione come il reddito. Questo è possibile innanzitutto
attraverso l’isolamento dei singoli lavoratori: la sconnessione definitiva del nesso sociale diritti/lavoro produce una segmentazione che si estende dentro e fuori i luoghi di lavoro. Il regime del salario è l’estensione del comando capitalistico anche al di là del rapporto di lavoro salariato in essere.
Esso impedisce qualsiasi definizione omogenea e unitaria del lavoro
salariato perché si impone attraverso la moltiplicazione delle forme
contrattuali, le trasformazioni dei servizi e la monetizzazione del
welfare. Il regime del salario non è un ritorno al passato capitalistico
della mera coazione al lavoro, ma un rapporto di dominio più complesso
nel quale il salario si scompone in forme e figure diverse della
produzione sociale. Si tratta di un regime complesso proprio perché una
moltitudine di figure che entrano ed escono dal rapporto di lavoro sono
comunque dipendenti dal salario per la propria riproduzione. Esso
dimostra che la mediazione del salario non è solamente un residuo
fordista e nemmeno, come recita il desiderio del capitale, un intensivo e
nascosto sfruttamento possibile solo nelle sterminate fabbriche
asiatiche. Il regime del salario punta a imporre una disponibilità costante a essere occupati
e questa è una condizione che in Italia milioni di lavoratori
conoscono, da Melfi alle regioni metropolitane del Nordovest, dalle
fabbriche verdi del meridione alle fabbriche piccole e grandi del
Nordest.
In questa costante disponibilità just in time e just in space
il lavoratore o l’occupabile – come si definisce oggi chi
quotidianamente combatte per conquistare un salario – è costretto a
pensare la propria riproduzione nei termini di un problema
esclusivamente individuale. Come osserva Ferruccio Gambino nella Prefazione, arriva
a essere messo in questione persino il «diritto alla generatività»,
ovvero alla possibilità di pensare oltre la mera sopravvivenza
quotidiana. Nel regime del salario non è necessario che il
denaro dato in cambio di lavoro garantisca la riproduzione di chi
lavora, anzi. Il salario che – se va bene – entra nelle tasche del
lavoratore, serve piuttosto come arma di ricatto: per ottenerlo, devi
essere sempre flessibile e pronto a ogni esigenza ed esercitare il tuo
appeal esibendo le tue innumerevoli competenze, sbandierando la tua
«auto-imprenditorialità» e provvedendo costantemente alla tua
formazione, alla tua previdenza e anche alla tua mobilità. Praticamente
devi fare tutto tu.
Il regime del salario, perciò, ha molte facce: è precarizzazione, voucherizzazione, decontribuzione.
Esso riguarda anche le condizioni meno visibili della precarizzazione:
lo smantellamento e la finanziarizzazione del welfare,
l’iperspecializzazione e la privatizzazione della formazione,
l’imposizione della conciliazione al ribasso di famiglia e lavoro. A
ciascuno di questi aspetti sono dedicati gli articoli raccolti in questo
opuscolo. Mentre l’istrione del governo rivendica il rilancio
dell’occupazione come tangibile risultato del Jobs Act, è chiaro che sul
lungo periodo questa riforma rilancia soltanto il profitto dei padroni.
Dove l’atipico diventa tipico, il contratto a tutele crescenti è una
curiosa forma di lotta contro il tempo già vinta in partenza dalle
aziende e l’unico aumento salariale possibile è ottenuto facendo
confluire un TFR ipertassato in busta paga per ricavare più entrate
fiscali. L’ulteriore liberalizzazione dei licenziamenti va a braccetto
con la riforma della NASpI, un peculiare sussidio di disoccupazione,
pensato anche per i lavoratori già abituati a saltare da un lavoro
all’altro o da un tirocinio all’altro, che ben si adatta alle esigenze
di aziende che non possono perder tempo dietro alle pretese dei
lavoratori. Il rilancio dei voucher, così utili per le aziende – per
così dire – «incerte» sulle assunzioni, il cui tetto massimo sale fino a
7000 euro, fa di uno strumento nominalmente nato per combattere il
lavoro nero in determinati settori il mezzo privilegiato a disposizione
delle aziende per liberarsi di qualunque responsabilità nei confronti
dei lavoratori. Questi dovranno, loro sì, offrire delle certezze ai
padroni, anzitutto garantendo la più completa disponibilità al lavoro in
ogni sua forma, in ogni suo luogo, e rispondendo con prontezza alla
chiamata dell’azienda di turno. In piena contraddizione con la natura
stessa del rapporto che nasce, in teoria, come occasionale, il prezzo da
pagare sarebbe la facile perdita del posto in quanto le aziende
dispongono di un largo bacino di lavoratori. La scelta è quanto mai semplice: totale disponibilità o completa sostituibilità. Un divide et impera
che agisce al cuore dei rapporti di lavoro e rende facile la gestione
di quei lavoratori che sono più soggetti alle regole dell’occupabilità
dettata dalla scarsità e dalla temporaneità del lavoro. Queste ultime
cessano così di essere gli effetti congiunturali del cosiddetto mercato
del lavoro per diventare sue caratteristiche strutturali. Dietro a questa trasformazione c’è appunto quella che abbiamo chiamato la normalizzazione della crisi,
ovvero la consapevolezza acquisita dal governo del capitale che quelli
che si erano presentati come suoi effetti transitori sono invece molto
utili per ottenere il massimo di sfruttamento della forza lavoro.
Il regime del salario consegna
all’incertezza la classe operaia e investe tanto il lavoro che nasce
precario quanto il lavoro una volta chiamato garantito. Non si
tratta però, è bene specificarlo, di dire che la precarietà è un
fenomeno del tutto inedito, caduto dal cielo della crisi, o che il Jobs
Act e le riforme che lo hanno preceduto hanno aggredito e deteriorato un
mondo del lavoro pieno di garanzie e di sindacati eroici
improvvisamente detronizzati. Oggi la classe operaia non sta in
paradiso, ma non ci stava neanche ieri. La fine della contrattazione
collettiva, l’attitudine settoriale o settaria dei sindacati, la perdita
di potere delle lavoratrici e dei lavoratori sono processi di lungo
periodo che hanno il loro specifico peso nella trasformazione in atto.
Il regime del salario crea le
condizioni per una costante estorsione di obbedienza che impone un
ripensamento dell’organizzazione e della comunicazione politica
necessarie per mettere in pratica nuove strategie di insubordinazione
collettiva. In questi anni, precarie e precari non sono rimasti a
guardare a testa bassa: anche dove il comando è più violento si è
sedimentata un’accumulazione di conoscenze, di esperienze e di
comunicazione politica precaria. In questo senso, le lotte dei migranti e delle migranti offrono un bagaglio di esperienza imprescindibile.
I migranti e le migranti hanno messo in atto strategie efficaci per
rivendicare potere nelle fabbriche della logistica e di fronte alle
questure, cercando di aggredire simultaneamente il loro quotidiano
sfruttamento e le sue condizioni politiche – in Italia, il razzismo
istituzionale della legge Bossi-Fini – e indicando al contempo la
prospettiva necessariamente transnazionale dell’insubordinazione. Anche
queste lotte si sono tuttavia scontrate con la frammentazione e con le
gerarchie che attraversano i luoghi di lavoro, mentre la solidarietà,
che pure occasionalmente si è manifestata, non è stata in grado di
innescare processi di politicizzazione espansivi. Sono questi i limiti
che hanno incontrato le esperienze di lotta degli ultimi anni,
caratterizzate da una forte frammentazione
che limita il potenziale politico delle loro iniziative. Proprio questi
limiti – l’isolamento e l’individualizzazione dei lavoratori che la
precarizzazione generalizzata ha prodotto e che il Jobs Act ha
normalizzato – sono non a caso l’ostacolo con cui si è scontrata la
nostra ambizione di costruire uno sportello politico per i precari.
A queste difficoltà una parte del movimento, coinvolta nel percorso dello sciopero sociale, sta cercando di dare una risposta.
Si tratta della sfida di «organizzare l’inorganizzabile», sapendo che,
se ormai la precarietà è la forma generalizzata di tutto il lavoro, non
si tratta di organizzare chi non è rappresentato sindacalmente o chi non
ha un rapporto continuativo di lavoro. La sfida che abbiamo di fronte
investe la moltitudine di figure che dipendono da un lavoro sempre più
informale. Nuovi discorsi politici hanno cercato di aggredire la
svalorizzazione politica del lavoro come la richiesta di un salario
minimo europeo, di un reddito e di un welfare incondizionati, di un
permesso di soggiorno minimo europeo di due anni, il mutualismo, il
sindacalismo sociale. Si tratta di strumenti pratici oltre che di
discorsi che stanno cercando di affrontare il problema
dell’accumulazione di potere in un contesto in cui le singole vertenze
locali, le singole lotte e mobilitazioni, non riescono a innescare
processi di lungo periodo e di lunga gittata, né riescono da sole a
produrre una comunicazione politica precaria.
La serie di articoli raccolti in questo opuscolo risponde precisamente a questa esigenza.
Abbiamo cercato di offrire una conoscenza utile a chi abita la jungla
contrattuale e simbolica del lavoro informale, perché sappiamo che per
innescare processi di organizzazione collettiva e per rompere
l’isolamento a cui tutti sembriamo inesorabilmente condannati è
necessario prima di tutto spezzare il ricatto che grava su ciascuno. Tra
questa accumulazione di conoscenza e un’accumulazione effettiva di
forza c’è una differenza sostanziale, ma i processi collettivi di
organizzazione, la possibilità di insubordinazione e di sabotaggio del
regime del salario, non possono prescindere da questo sapere. Qualsiasi
forma di lotta che si occupi di riorganizzare una difesa sindacale al
passo coi tempi o di supplire a un sistema di welfare evanescente,
infatti, deve oggi necessariamente fare i conti con il comando
esercitato dal regime del salario. Noi sappiamo che non è
desiderabile, e probabilmente nemmeno possibile, opporsi al lavoro
informale restaurando le precedenti forme contrattuali certe e
obbligatorie. Sono stati le operaie, i precari e i migranti che per
primi le hanno messe in discussione. Si tratta di conquistare spazi
individuali e collettivi di libertà che i contratti semplicemente non
possono garantire, anche se possono essere utili per assicurare
posizioni. Deve essere chiaro che lo squilibrio di potere che
attualmente caratterizza il regime del salario non può essere
neutralizzato dalla concessione di un reddito di base che – come
dimostrano le recenti sperimentazioni regionali e proposte governative – rischia se mai di alimentarlo. Noi
condividiamo pienamente la richiesta politica di un reddito
incondizionato, ma pensiamo che essa debba funzionare dentro al regime
del salario e non al suo esterno ignorando le condizioni che esso costantemente pone.
Separare i due tempi significa pensare
che un momento assolutamente individuale come il godimento di un reddito
possa meccanicamente rovesciarsi in un’azione collettiva come la
contestazione del regime del salario. Se, come il suo riconoscimento in
diversi paesi europei e ormai anche in qualche regione italiana
dimostra, il reddito può essere una parte integrante del regime del
salario, la sua rivendicazione deve porsi chiaramente contro quel
regime. Non esiste un ipotetico dopo in cui, grazie a un’accumulazione
contingente di forze, sarà possibile restaurare meccanismi di
contrattazione o di conflitto interno ai luoghi di lavoro. Il legame tra
reddito e salario – come tra il regime del salario e il governo della mobilità,
ovvero l’insieme di politiche orientate a mettere a valore per il
profitto i movimenti del lavoro vivo attraverso e all’interno dei
confini europei – richiede un ragionamento che parta dagli effetti
reciproci e quindi dalla complessità del quadro. L’espropriazione
sociale che avviene sul terreno dei diritti, delle forme di
organizzazione, dei bisogni è prodotta e riprodotta dal rapporto di
dominio che si esprime tramite il salario e viceversa. È dunque
impossibile e in parte controproducente pensare un termine senza
l’altro. La rivendicazione politica di un reddito incondizionato
deve mirare ad agire puntualmente contro questa espropriazione, deve
diventare parte delle lotte sui luoghi di lavoro, deve agire
direttamente contro il regime del salario, non può essere una misura
politico-amministrativa concessa per ottenere ulteriore occupabilità.
Lo stesso vale per le forme di sindacalizzazione che possono essere costruite dentro e contro il regime del salario.
Se lo sciopero è sociale nel momento in cui registra l’impossibile
distinzione tra garantiti e non garantiti, tra operai, precari e
migranti, nel momento in cui assume che le lotte del lavoro riproduttivo
sono lotte contro la produzione di questa società, allora il
sindacalismo sarà sociale solo se saprà congiungere tutti questi
momenti, se sarà in grado di aggredire teoricamente e praticamente il
regime del salario in ogni sua manifestazione. Non è più
possibile accettare politicamente una differenziazione degli ambiti
lavorativi per poi appaltarli a tipi diversi di sindacalizzazione. La
necessaria unificazione simbolica delle lotte che deve essere opposta
alla attuale frammentazione deve aggredire il rapporto complessivo di
dominio che il regime del salario ci pone davanti agli occhi. Abbiamo la
responsabilità di riconnettere ciò che il regime del salario
quotidianamente e sapientemente divide, il lavoratore e la sua
condizione sociale, ripoliticizzando questo rapporto, riorganizzando il
conflitto fuori dall’arena pacificata in cui è stato assorbito.
Oggi la sfida forse più urgente è quella
di guardare con brutale onestà a queste trasformazioni a partire dai
problemi che la dimensione globale del regime del salario, e il suo
rapporto funzionale con il governo della mobilità, pone. Pur essendo il
Jobs Act l’oggetto di analisi e di critica di questi articoli, sappiamo
che le trasformazioni che abbiamo davanti hanno una portata globale, e
di questa portata deve essere la nostra risposta organizzativa. Rovesciare il regime del salario non è e non può essere allora un problema locale ma deve essere la sfida che uno sciopero sociale transnazionale può raccogliere.
È con questo orizzonte che abbiamo scritto le analisi che seguono, con
l’obiettivo di chiarire il fine nascosto e la cornice complessiva delle
riforme sul lavoro, fornendo indicazioni politiche contro l’obbedienza
che questo regime impone.
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