di Michele Paris
Il delicato
processo di transizione che dovrebbe portare Donald Trump alla Casa
Bianca e alla sostituzione dei membri dell’amministrazione Obama con
quelli nominati dal presidente eletto, sembra essere già precipitato in
piena crisi soltanto alcuni giorni dopo la chiusura delle urne.
L’inesperienza politica del miliardario di New York, assieme alla
necessità di premiare i suoi più fedeli sostenitori e di dare
un’impronta marcatamente populista – se non apertamente fascista – al
governo entrante, hanno contribuito a generare il caos e ad alienare una
parte dell’establishment Repubblicano che lo ha sempre visto con
estremo sospetto.
In maniera insolita e a conferma del carattere
eccezionale dell’elezione di Trump, le manovre di questi giorni sono
sfociate in una serie di licenziamenti e dimissioni all’interno del team
incaricato della gestione della transizione del neo-presidente.
La
prima “purga” era arrivata venerdì scorso con la rimozione improvvisa
dall’incarico di capo della transizione del governatore del New Jersey,
Chris Christie, rimpiazzato dal vice-presidente, Mike Pence. Questa
decisione è stata dettata in parte dai problemi di immagine di Christie,
ritenuto sempre meno utilizzabile nella nuova amministrazione dopo il
coinvolgimento nello scandalo della chiusura al traffico di un ponte,
che collega il suo stato a New York, come ritorsione contro alcuni
sindaci di città del New Jersey che non lo avevano sostenuto nella
rielezione a governatore.
Soprattutto, però, i giornali americani
hanno assegnato la responsabilità dell’allontanamento di Christie al
genero e consigliere di Trump, Jared Kushner, coinvolto nel processo di
transizione. Da procuratore federale, nel 2005 Christie aveva infatti
ottenuto la condanna a due anni di carcere del padre di
quest’ultimo, il costruttore Charles Kushner, per evasione fiscale.
A
fare le spese della possibile vendetta del marito della primogenita di
Trump, Ivanka, sono stati così anche altri membri della squadra del
presidente eletto vicini a Christie, tra cui l’ex deputato Repubblicano
del Michigan, Mike Rogers, già indicato come possibile candidato alla
direzione della CIA.
Consiglieri e consulenti vari, estromessi
dalle attività che dovrebbero sfociare nella nomina dei membri del
prossimo gabinetto e di migliaia di altre cariche nei dipartimenti che
lo compongono, fanno capo anche alla precedente amministrazione
Repubblicana di George W. Bush o, in generale, alla corrente “moderata”
del Partito Repubblicano.
Diffusamente citata dalla stampa è
stata ad esempio la vicenda di Eliot Cohen, ex consigliere del
dipartimento di Stato all’epoca di Condoleezza Rice, ostile a Trump
durante la campagna elettorale ma mostratosi disposto a collaborare dopo
il voto. Le raccomandazioni di Cohen allo staff del neo-presidente
sarebbero state respinte bruscamente, tanto da spingerlo a consigliare
pubblicamente ai Repubblicani che condividevano il suo giudizio critico
su Trump di “stare lontani” dalla nascente amministrazione.
Se
il processo di transizione è dunque ancora in alto mare, gli scossoni
di questi giorni hanno spinto ancora più a destra sia la squadra di
Trump sia i candidati ad assumere posizioni di spicco nel nuovo governo.
L’esempio più lampante è quello del possibile futuro segretario di
Stato americano, carica per la quale sarebbero favoriti l’ex sindaco di
New York, Rudolph Giuliani, e l’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite,
John Bolton.
Quest’ultimo, in particolare, sarebbe una scelta
inquietante, visti i suoi precedenti al dipartimento di Stato sotto la
presidenza Bush, durante la quale si distinse come uno dei principali
architetti dell’invasione dell’Iraq, mentre a tutt’oggi continua a
promuovere l’adozione di misure estreme, inclusa l’aggressione militare,
nei confronti dell’Iran.
L’eventuale nomina di individui come
Giuliani o Bolton per la carica di primo diplomatico degli Stati Uniti
prospetta anche una marcia indietro di Trump dalle promesse di mettere
fine agli interventi militari dell’ultimo decennio. Sia Giuliani sia
soprattutto Bolton sono infatti accesi sostenitori dell’interventismo
USA nel mondo e il primo, nel candidarsi apertamente al posto occupato
oggi da John Kerry, ha mostrato un atteggiamento bellicoso verso la
Russia e di avere tutta l’intenzione di continuare a fare della “guerra
al terrore” la principale priorità della prossima amministrazione.
Le
speranze dei Repubblicani moderati e di quanti auspicano un approccio
relativamente cauto agli scenari internazionali risiedono per il momento
in una possibile nomina a segretario di Stato del senatore del
Tennessee, Bob Corker, ma alcuni giornali americani hanno rivelato che
Trump sarebbe orientato ad escluderlo dalla rosa dei candidati. Giuliani
e Bolton restano comunque scelte problematiche, visti i loro
precedenti, e il timore di provocare scontri o polemiche al Senato,
incaricato di confermare i membri della nuova amministrazione, lascia
ancora aperti i giochi per questa nomina cruciale.
Gli
orientamenti di Trump in politica estera sono probabilmente oggetto di
accese discussioni in casa Repubblicana e negli ambienti di potere che
fanno capo in particolare alla corrente “neo-con”. Il senatore
dell’Arizona, John McCain, è stato tra quelli che hanno espresso
pubblicamente queste preoccupazioni, ammonendo in questi giorni Trump a
non allentare le pressioni su Putin e il governo russo.
In ogni
caso, a dare la misura della deriva reazionaria che si prospetta negli
Stati Uniti, Giuliani e Bolton non sono nemmeno le personalità più
estreme coinvolte nelle manovre in atto per l’avvicendamento alla Casa
Bianca. La nomina più preoccupante annunciata finora da Trump è
piuttosto quella di Stephen Bannon, ex Goldman Sachs e numero uno del
sito di estrema destra Breitbart News, scelto come “capo stratega” del
presidente.
A Bannon era stata affidata la direzione della
campagna elettorale di Trump nel mese di agosto, suscitando già una
valanga di polemiche per le sue posizioni apertamente razziste e
anti-semite. Il suo possibile ingresso alla Casa Bianca in una posizione
che avrà profonda influenza sul presidente americano fa intravedere fin
da ora gli orientamenti della nuova amministrazione Repubblicana.
La
nomina di Bannon, compensata in maniera trascurabile da quella a capo
di gabinetto del “centrista” Reince Priebus, già segretario nazionale
del partito, appare significativa. L’agenda ultra-reazionaria che essa
prospetta sembra non essere giustificata dal mandato ottenuto da Trump,
vista la bassa affluenza alle urne e ancor più la conquista da parte di
Hillary Clinton del voto popolare con un margine superiore al milione.
La
sicurezza con cui Trump e il suo entourage hanno proceduto con la
scelta di Bannon, così come con la selezione di candidati ugualmente di
estrema destra per gli incarichi di governo, deriva anche dal singolare
atteggiamento dei leader Democratici dopo l’elezione di martedì scorso.
A
parte la richiesta del leader uscente di minoranza al Senato, Harry
Reid, di ritirare la nomina di Bannon, da Hillary a Obama, da Bernie
Sanders alla “icona liberal” Elizabeth Warren, le personalità più
influenti del partito di opposizione hanno tenuto finora posizioni
generalmente accomodanti nei confronti di Trump. Molti di questi ultimi
si sono detti disponibili a collaborare con la nuova amministrazione,
chiudendo di fatto gli occhi sulla natura reazionaria che essa
inevitabilmente avrà. Un atteggiamento, questo, che lascia intendere
come i vertici Democratici temano molto di più una rivolta popolare
contro un governo di tendenze fasciste che la nascita e il
consolidamento di quest’ultimo.
Trump, da parte sua, continua a
proiettare sicurezza nonostante le difficoltà. Mercoledì il presidente
eletto è tornato a parlare su Twitter per garantire che la transizione
sta procedendo senza problemi e per attaccare i giornali “liberal”,
colpevoli a suo dire di diffondere notizie false sullo scontro in atto
all’interno della sua squadra.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento