Quello di Yahya Jammeh sembrerebbe un caso classico
di dittatore giunto a fine corsa, che come ultimo dispetto scappa con la
cassa. Ma se di fuga lungamente negoziata si è trattato, sarebbe
interessante conoscere i termini dell’accordo che il presidente (non
più) «uscente» ha chiuso in extremis, venerdì scorso, con i principali
leader dell’Africa occidentale.
All’indomani della sua partenza da Banjul girava già una
stima della buonuscita che avrebbe trattenuto per sé, dopo 22 anni di
onorato servizio: l’ammanco sarebbe di 11,4 milioni di dollari, con
tanto di calcolo percentuale sulla base del Pil nazionale (l’1% circa)
del più piccolo paese dell’Africa continentale. Dettagli molto
precisi in una storia dai tanti punti oscuri. Ma in Gambia il sollievo
generale per una uscita di scena senza spargimenti di sangue sembra
superare ampiamente la rabbia generata dal modo in cui ha finito per
farla franca.
Avere sull’uscio di casa la forza militare a guida senegalese messa
in campo dal blocco regionale Ecowas non sembrava condizione a lui
favorevole per intavolare l’ultima trattativa. Invece dall’incontro con l’ultimo emissario
– il presidente della Guinea Alpha Condé, sceso a Banjul in
rappresentanza di Ecowas e indirettamente di Unione africana e Onu – Jammeh
è uscito praticamente amnistiato, con in tasca un lasciapassare per
raggiungere un luogo sicuro che estende la protezione alla sua famiglia e
alla cerchia dei collaboratori, oltre all’assicurazione che le sue
proprietà in Gambia non verranno toccate. Nel pacchetto c’è
anche un aereo cargo, messo a disposizione dal Ciad, per caricarci su un
po’ del suo parco macchine e altri beni di lusso.
Fa quasi tenerezza l’ordine lanciato ai doganieri di bloccare un tale
espatrio di ricchezze, come ha fatto il vincitore delle elezioni
presidenziali dello scorso 1 dicembre, il facoltoso proprietario
immobiliare Adama Barrow. A digiuno di politica ma
sostenuto da sette partiti, è stato costretto a giurare da presidente
nell’ambasciata del Gambia a Dakar per sfuggire alle bizze dell’iracondo
Jammeh. La scorsa settimana non è tornato neanche per i funerali del
figlioletto di 8 anni. Lo farà presumibilmente nelle prossime ore, per
quella che sarà comunque una festa.
Resta la doccia gelata per chi sperava di inchiodare Jammeh e
il suo regime a un curriculum di torture, carcerazioni e sparizioni
indiscriminate di oppositori. Allergico alle libertà civili e
ai media, il «pio» Jammeh, con il suo grand boubou immacolato, il Corano
in una mano e il bastone da guaritore tradizionale nell’altra – si
vantava di guarire l’Aids con le erbe – voleva trasformare il Gambia in
repubblica islamica, dopo averlo portato fuori dal Commonwealth. Va da
sé che dall’oggi al domani si è trovato completamente isolato sul piano
internazionale.
Ma la Corte penale internazionale che molti sognavano per lui può attendere.
La Guinea Equatoriale, dove per ora Jammeh ha trovato rifugio, non ha
mai aderito a un organismo che peraltro risulta sempre più screditato
nel continente per la sua azione «asimmetrica», da cui emergerebbe che
solo l’Africa pullula di criminali. E l’economia ultrapetrolifera del
paese che il suo amico Teodoro Obiang guida dal 1979, stabilendo il
record dei capi di stato africani più cocciuti, è probabilmente il posto
migliore in cui investire la liquidazione.
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