I primi tre atti firmati nello studio ovale vanno a coprire un arco vasto di temi su cui ha raccolto consensi. Due mosse sono molto tradizionali, per un repubblicano, anche se importanti. Ha infatti reintrodotto il "Mexico City abortion rules", ossia il divieto di finanziare con soldi pubblici federali le Ong che praticano l'aborto. Non è una novità, comunque. Si tratta di una legge fatta dai repubblicani oltre 30 anni fa, cancellata da ogni presidente democratico e reintrodotta da ogni repubblicano. Una bandiera, insomma, da sventolare in faccia agli elettori, ma dai limitati effetti pratici.
Assolutamente in linea con la tradizione del Gop anche lo stop alle assunzioni nel pubblico impiego, eccezion fatta per i corpi militari.
Fin qui, a dirla tutta, nessun elemento davvero “innovativo”. L'unica decisione che esorbita – entro certi limiti – dalla normalità è la terza. Ha infatti firmato il decreto operativo che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dal Tpp. Ossia dal Trans Pacific Partnership, un accordo di libero scambio con 11 paesi del Pacifico che era costato due anni di sforzi diplomatici (condotti pressoché in contemporanea con il più noto Ttip, con i paesi dell'Atlantico, affossato dall'asse franco-tedesco). Poco prima dell'insediamento del neopresidente, il Giappone lo aveva ratificato, sperando in tal modo di “pesare” sulla decisione del tycoon. Niente da fare. In campagna elettorale, ogni giorno e più volte al giorno, Trump lo lo aveva giudicato "pericoloso per l'industria americana". Quindi non era pensabile che potesse tornare indietro senza pagare da subito un prezzo molto alto nel suo blocco sociale.
Sul piano pratico, in ogni caso, non è una mossa che gli sia costata fatica. Il Tpp non era stato ancora approvato dal Congresso, dunque non cambia nulla negli scambi economici in atto. Certo, getta un'ombra consistente sulle dinamiche di “libero mercato” per gli anni a venire.
Solo i media più legati al vecchio carrozzone, o alla vecchia “narrazione”, inquadrano questo ritiro dal Tpp con il risorgere dell'antico “isolazionismo” dei repubblicani.
È una vecchia volpe dell'establishment Usa come Ian Bremmer a spiegare – in un'intervista al Corriere della sera – che
«Non è isolazionismo: Trump continuerà a tessere rapporti, ma lo farà sul piano bilaterale. Lo considera più conveniente in termini di forza negoziale, ma in questo modo non solo getta nel caos l’attuale sistema di scambi commerciali, ma rende precari i rapporti politici degli Stati Uniti con molti Paesi in Asia e in America Latina».Non è insomma meno “imperialista” dei predecessori che hanno cercato di governare la globalizzazione dell'economia; è semplicemente l'espressione dell'impossibilità di governarla “con benefici per tutti”, e quindi ne decreta la fine contando sulla forza preponderante degli Usa nei rapporti “bilaterali”. Insomma, invece di faticare a costruire il consenso generale tra interessi nazionali o continentali divergenti (c'è “concorrenza e competizione”, in ambito capitalistico), Trump dà voce a quella parte dell'economia Usa che ritiene di poter “competere” meglio se non ci sono regole uguali per tutti, ma tante regole commerciali quanti sono i partner (tutti più deboli, presi singolarmente).
E' la fine del sistema costruito proprio dagli Usa nel corso degli ultimi 70 anni e “sbocciato in tutte le sue potenzialità” con la caduta del Muro, dell'Urss e del “socialismo reale”. I sintomi della crisi erano stati registrati da tutti i sismografi economici fin dal 2007, la domanda era soltanto: dove inizierà a smagliarsi quel tessuto? La old economy statunitense ha selezionato Trump per giocare d'anticipo rispetto ad altri attori, ma per riuscirci ha dovuto segare il rampo su cui l'egemonia degli States era assisa dalla fine della Seconda guerra mondiale.
«Gli organismi multinazionali che ha citato, e aggiungerei anche l’Onu, hanno di certo preso un colpo durissimo con la nuova politica di Trump. Sono organismi nati dalla “pax americana” del Dopoguerra, riflettono una visione dei rapporti internazionali che era soprattutto quella di Washington. Se l’America inverte la rotta, crolla tutto. Come sa, io parlo da anni di un mondo “G-Zero”, privo di una guida. Ecco, quel mondo adesso è qui. E da venerdì è finita anche l’era della “pax americana”».Del resto, se si legge attentamente lo stesso Bremmer, reduce dall'appuntamento di Davos, il cosiddetto Gotha mondiale che aveva fin qui gestito un lungo periodo di globalizzazione – un modello economico complesso e strutturato, che ha determinato le attuali disparità infernali di ricchezza sul pianeta (8 persone detengono la stessa ricchezza di altri 3,5 miliardi) – non ha più soluzioni per far fronte allo sgretolarsi dell'architettura che aveva messo in piedi.
«Purtroppo è così: le classi dirigenti faticano a capire che il populismo non è, o non è solo, una minaccia, ma è soprattutto il sintomo di un malessere che va affrontato agendo sulle cause. Non ho visto gente disposta a rimettere in discussione in modo radicale le distorsioni del modello di sviluppo degli ultimi anni».Bremmer non è certamente un marxista, ma ha colto quella che nel nostro linguaggio è una contraddizione insanabile. La vecchia nave-mondo va incontro alla fine, ma coloro che stanno ancora al timone non hanno alcuna intenzione di mollarlo pur non avendo più idea di come tracciare una nuova rotta.
Ma se questa è, crudamente, la situazione, credete davvero che il problema sia stare a fare il tifo per Trump o per i "globalizzatori politically correct" che non sanno più che fare?
Eppure proprio questa realtà suggerirebbe di sperimentare al più presto qualche idea indipendente rispetto a due strade egualmente dirette verso l'esplosione...
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