Su CorriereEconomia dello scorso 9 gennaio Marcello Minenna si chiedeva “cosa c’è dietro il successo dell’export tedesco?”,
arrivando alla clamorosa risposta: “il segreto? Nell’euro debole”. E
grazie al cazzo, verrebbe da dire, visto che da anni parte importante
della comunità politica ed economica, nazionale e internazionale,
individua proprio nell’euro il problema originario della crisi europea.
Ma Minenna, sebbene buon ultimo, ancora non coglie il problema nella
sua ampiezza, che non sta in un “euro debole”, ma nell’euro in quanto
tale. La debolezza altro non è che l’inevitabile direzione impressa
dall’economia tedesca, visto che se l’euro si apprezzasse
proporzionalmente alla sua produttività, la Germania andrebbe in crisi
economica e tutto il circo europeista crollerebbe un minuto dopo. Ma
nell’articolo si citano un po’ di dati interessanti: “il surplus
commerciale tedesco per l’anno appena passato raggiungerà il valore
stratosferico del 9,2% del Pil, circa 260 miliardi di euro. Il più alto
del mondo, superiore a quello della Cina anche in valore assoluto per
oltre 30 miliardi di euro […] La Germania dunque da oltre 16
anni continua ad esportare più di quanto importi, accumulando crediti
finanziari nei confronti del resto del mondo; in pratica da quando è
nata l’Unione monetaria. E non si tratta di una coincidenza”. E no, non si tratta di una coincidenza.
La relativa stabilità economica tedesca è garantita unicamente dalle
sue esportazioni, visto che la domanda interna è in depressione da anni e
solo ultimamente vede una leggerissima ripresa (nell’ordine dell’1%).
Ma c’è una relazione diretta tra la depressione della domanda interna e
l’elevato livello di export dell’economia teutonica. Infatti quella
stessa produttività è stata realizzata grazie alla moderazione salariale
imposta ai lavoratori tedeschi dalle riforme Hartz
dei primi anni Duemila (riforme targate centrosinistra, ovviamente). Il
mercato del lavoro tedesco è basato su relazioni impoverite e
precarizzate, nonché sulla natura duale di queste relazioni,
che si fondano sulla separazione competitiva tra un ristretto nucleo di
lavoratori sindacalizzati e ultra-garantiti, contrapposti all’enorme
platea di lavoratori non sindacalizzati, non garantiti e impoveriti su
cui si fonda per intero la produttività di cui sopra. Un modello
economico di questo tipo, iper-produttivo grazie alla presenza, in un
territorio ricco, di relazioni lavorative di tipo asiatico, non sarebbe
possibile con una moneta nazionale tipo il Marco.
Questo andrebbe infatti incontro ad un apprezzamento talmente elevato
che spingerebbe immediatamente la Germania fuori dai mercati
internazionali. Come minimo, la vedrebbe perdente rispetto ai suoi
competitors internazionali, ad esempio l’Italia, che ha una struttura
economico-produttiva speculare a quella tedesca, fondate ambedue
sull’industria manifatturiera. Anche qui il buon Minenna è in vena di
importanti rivelazioni: “entrambe le posizioni si basano su dati
oggettivi, ma evitano accuratamente l’elefante nella stanza, cioè il
fattore fondamentale che determina il surplus commerciale tedesco:
l’euro. Rispetto al vecchio marco tedesco, l’euro nasce infatti come
moneta debole... pertanto la moneta unica ha offerto un vantaggio
strutturale alle esportazioni tedesche”. La natura mercantile (cioè
votata alle esportazioni) dell’economia tedesca è lo strumento
attraverso cui aggirare il problema enorme che la sua economia ha nel
mercato interno.
A questo punto si potrebbe dire: facciamo anche in Italia quello che
ha fatto la Germania, sosteniamo con le esportazioni ciò che il sistema
produttivo non riesce a fare stimolando la domanda interna. Il problema è
che l’Italia già sta orientando il proprio modello produttivo
sulla falsa riga del mercantilismo tedesco, e infatti è il paese che
esporta di più in Europa dopo Germania e Regno Unito (che però è fuori
dall’euro e quindi risponde a logiche indipendenti dal punto di vista
monetario, quindi non paragonabile). Questo, con ogni evidenza empirica,
non risolve nessuno dei problemi dell’economia italiana, nonché
(figuriamoci) della redistribuzione interna dei redditi. E questo per
varie ragioni. In primo luogo, l’economia mercantile funziona quando c’è
un paese forte che esporta e molti altri deboli che importano. Se i
paesi forti diventano tanti (oltre la Germania, pensiamo alla Cina), la
possibilità di competere si assottiglia notevolmente. Secondo, la forza
produttiva della Germania si fonda sulla possibilità di vampirizzare la
produzione degli altri paesi interni a uno stesso sistema
monetario, cosa che è avvenuta in questo ventennio a scapito di paesi
come l’Italia, la Spagna o la Francia. E questo perché a parità di
moneta, la produzione convergerà nei territori in cui questa trova
maggiore valorizzazione. In terzo luogo, anche qui con ogni evidenza
empirica, l’export non risolve il problema della crescita economica del
paese. Questo può riflettersi, e sostenere la crescita generale del Pil,
solo se la bilancia commerciale è notevolmente sproporzionata (come in
Germania), ma non laddove c’è un surplus commerciale non decisivo, come
in Italia. E due bilance commerciali sproporzionatamente in surplus non
possono esserci all’interno dello stesso sistema monetario, perché
quella del paese più forte avviene a scapito dei restanti paesi, e non
cooperando vicendevolmente.
Sul Corriere di lunedì 16 gennaio, però, un’intervista a Roland Berger
(un consigliere economico di Angela Merkel) ribalta la faccenda:
“Meglio che Berlino adesso esca dall’euro”. Secondo l’economista
tedesco, “ero scettico sull’euro prima che fosse introdotto e
purtroppo i miei timori si sono dimostrati corretti. E’ stato un
fallimento. L’Euro era partito sulla base di alcuni presupposti
sbagliati. Si pensava che il tasso di cambio all’ingresso avrebbe
garantito che la competitività dei diversi paesi si sarebbe aggiustata”.
La competitività si sarebbe aggiustata con una valuta monetaria
unica a tasso fisso per diversi livelli di produttività? Purtroppo per
gli economisti da laboratorio, il livello di produttività e quello del
tasso di cambio della valuta con cui si vendono le merci prodotte, sono
direttamente relazionati. Più aumenta la produttività più si apprezza la
moneta. Se a un aumento della produttività non si aggancia un
apprezzamento monetario, per il paese produttivo è il bengodi liberista,
ma per tutti gli altri è la catastrofe industriale. Oggi è come se la
Germania producesse vendendo in Lire e in Italia circolasse il Marco. E’
una condizione economicamente insostenibile, e che infatti non viene
sostenuta, producendo desertificazione industriale e scorribande del
capitale transnazionale nel nostro paese. Berger la sintetizza così,
anche lui profeta del senno del poi: “Il bilancio secondo lei qual è
(chiede il giornalista)? Che ora abbiamo Paesi con gradi di competitività molto diversi”. Grazie al cazzo, parte seconda.
L’economista tedesco però immette nella discussione un ulteriore e interessante elemento di riflessione: “[la Germania] corre
il rischio di perdere competitività essa stessa perché per noi il tasso
di cambio dell’euro è troppo debole. La nostra economia dipende al 50%
dall’export e perciò dalla nostra competitività globale. Con il marco,
il mondo delle imprese era abituato a rivalutazioni costanti, dunque
investiva per guadagnare produttività. Questa esigenza è ora scomparsa.
L’attuale tasso di cambio dell’euro non è tale da aiutare la Germania.
Aiuta il nostro export, ma superficialmente, proprio perché scoraggia
gli investimenti e gli aumenti di produttività. Ci sarebbe molta più
armonia se fosse fuori e i Paesi latini, Francia inclusa, restassero
nell’euro”. Nel lungo periodo, secondo Berger, il tasso di cambio
artificialmente tenuto al ribasso frenerebbe la propensione
dell’economia tedesca ad aumentare la propria produttività. E’ un
elemento che andrà valutato meglio, ma di certo a nessuno, in Germania,
verrà in mente di cambiare modello di relazioni produttive e lavorative
finché queste garantiscono surplus commerciali e aumenti del Pil. E
questo perché il sistema capitalista non agisce secondo un piano
politico, ma è la somma degli interessi individuali dei singoli
produttori, e sempre a livello impersonale, mai cosciente. In altri
termini, finché i singoli capitalisti guadagneranno con questo sistema,
nessun volere politico invertirà la rotta perché “nel lungo periodo”
questo potrebbe nuocere allo sviluppo economico nel suo complesso. Se
così non fosse, ci troveremmo nell’anacronistica condizione di una
politica che determina il mercato, mentre con la globalizzazione
liberista siamo in presenza dell’opposto: è il libero mercato che
determina le scelte politiche. Dunque, la Germania non solo rimarrà
saldamente nell’euro, ma si batterà contro ogni sostanziale modifica
dell’attuale modello economico-finanziario. Per il capitalismo tedesco,
nonostante contraddizioni, resistenze e passi falsi, l’Europa attuale è
il migliore dei mondi possibili. Non a caso il modello politico che
questa situazione ha generato – le larghe intese con tutte le forze
pro-mercato dentro – ha fin qui retto in maniera egregia, bloccando sul
nascere populismi o disaffezioni, e anzi mantenendo dignitosi livelli di
consenso. Anche qui non è un caso, e non dipende dalle qualità
dell’attuale personale politico di governo e men che meno dalle capacità
di Angela Merkel. Resiste unicamente perché permette una crescita
economica, nonostante il prezzo sociale sacrificato a questa crescita. E
perché l’alternativa, come vedono i tedeschi confrontandosi col resto
d’Europa, non esiste, se non in peggio. Perché cambiare allora? Solo
perchè qualche economista cacadubbi prevede orizzonti nefasti? Ma
figuriamoci...
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