Le operazioni militari in Siria non si fermano nonostante la tregua
siglata il 30 dicembre scorso. Dal cessate il fuoco mediato da Russia,
Turchia e Iran sono rimasti fuori i gruppi considerati ufficialmente
terroristi da entrambi i fronti, Isis ed ex al-Nusra.
Proprio i qaedisti sono stati oggetto dell’ultima
controffensiva dell’esercito governativo siriano a Wadi Barada, valle
vicino Damasco che le scorse settimane è diventata tanto centrale da
rischiare di far collassare la fragile tregua e il negoziato
organizzato in Kazakistan da Mosca, Ankara e Teheran. Perché a Wadi
Barada non ci sono solo gli uomini di Jabhat Fatah al-Sham (ex al-Nusra)
ma anche formazioni armate che prendono parte al dialogo.
Ieri le truppe di Damasco hanno ripreso la valle, strategica per la
vicinanza alla capitale ma soprattutto perché sede della sorgente
d’acqua e del fiume che riforniscono i damasceni della gran parte delle
risorse idriche che consumano. Dopo l’accordo di cessate il
fuoco stipulato poco prima dell’apertura del tavolo negoziale di Astana
(lo scorso 23 gennaio) che ha permesso di riparare le condutture e le
pompe e far tornare così a Damasco l’acqua che mancava da prima di
Natale, si è ripreso a combattere.
“Le nostre forze armate hanno portato a termine la missione di
restaurare sicurezza e stabilità nella regione di Wadi Barada”, si legge
nel comunicato dell’esercito siriano, emesso dopo l’ingresso – dopo 4
anni di guerra civile – nella stazione idrica della valle e la ripresa
di tutti i villaggi dell’area.
È stato quindi siglato un altro accordo con i gruppi armati presenti: chi
vuole può restare nell’area abbandonando le armi. Oppure sarà
trasferito a Idlib, provincia nord-occidentale in mano alla milizia
qaedista dove da tempo vengono convogliati tutti i miliziani evacuati
dalle zone riprese dal governo. Qui sono arrivati in massa i
gruppi sconfitti ad Aleppo, andando a creare un vero e proprio “bubbone”
jihadista. Da Wadi Barada dovrebbero partire a breve 400 miliziani
insieme a circa mille familiari.
È probabilmente questo il modello di conflitto a cui la Siria
assisterà nell’immediato futuro: una guerra a bassa intensità in zone
chiave, intorno Damasco e ai confini nord e sud, in parallelo con un
negoziato ancora indefinito dove le posizioni delle parti appaiono
tuttora inconciliabili. Da una parte sta il fronte pro-Damasco,
stretto intorno al presidente Assad, rafforzato dalla vittoria di
Aleppo ma ancora incapace di controllare una buona parte del paese.
Dall’altra stanno le opposizioni e i loro sponsor sconfitti – Turchia e
Arabia Saudita in primis – mai così deboli ma in grado di posporre
l’inizio di un’eventuale soluzione politica.
Tanto deboli da finire invischiate in una seria faida interna, esplosa nei giorni scorsi: Jabhat
Fatah al-Sham ha attaccato e distrutto intere unità dell’Esercito
Libero Siriano, con cui esisteva un’alleanza militare ad Aleppo e un
patto di non belligeranza, e ora punta agli islamisti “ribelli”,
distaccatisi dall’orbita qaedista accettando di sedersi al tavolo
kazako. Ma nel mirino c’è anche Ahrar al-Sham, che ad Astana non è
andata.
A riprova della fragilità del negoziato c’è l’annuncio del rinvio
della conferenza di Ginevra prevista per l’8 febbraio sotto l’egida
dell’Onu. Tutto rimandato alla fine di febbraio, ha detto pochi giorni
fa il ministro degli Esteri russo Lavrov. Resta da vedere quale
impatto avrà la nuova presidenza degli Stati Uniti, marginalizzati
dall’intervento a gamba tesa del trio Russia-Turchia-Iran. Trump non ha mai nascosto l’apprezzamento per il presidente russo Putin
con cui ha parlato al telefono – per la prima volta dalla Casa Bianca –
sabato scorso.
Interrogato sulla questione siriana, Trump ha paventato l’idea di creare “zone sicure” nel paese, in cui infilare gli sfollati.
Un progetto molto simile a quello desiderato dalla Turchia che sta
tentando unilateralmente di realizzarlo a suon di carri armati nel nord
della Siria e che ora riceve il plauso del Golfo. Perché per
Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi potrebbe essere l’occasione di
istituzionalizzare l’egemonia sunnita in determinate aree in chiave
anti-Assad, in vista di un’eventuale frammentazione settaria del paese, e permettere ai gruppi islamisti di riorganizzarsi e reclutare forze fresche in mezzo ad una popolazione allo stremo.
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