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25/01/2017

Big dell’auto alla corte di Trump

La old economy che ha portato Trump alla Casa Bianca passa all'incasso e mira a cancellare definitivamente ogni percezione del disastro ambientale. Più ancora della promessa fatta alle “big three” dell'industria automobilistica statunitense (“saremo il paese più accogliente”, ossia con meno normative sulle emissioni), è significativa la nomina a capo dell'Epa (l'agenzia federale per l'ambiente) di un procuratore convinto che non ci sia alcun cambiamento climatico globale in corso. Come mettere una volpe a guardia del pollaio, insomma.

Ancora più indicativo è il divieto – comunicato a tutti i dipendenti dell'Epa – di rendere note le rilevazioni eseguite e i dati raccolti, sia verso i social che verso la stampa. Di fatto, l'agenzia viene resa non più operativa, sul piano dell'informazione, secretando la sua attività perché di ostacolo allo sviluppo dell'industria.

Naturalmente, Trump tenta di coprire questa concreta politica di distruzione dell'ambiente con affermazioni di segno opposto, tipo “sono un ambientalista”, ma «le normative ambientali sono fuori controllo». In Italia, tra Berlusconi e Renzi, abbiamo visto uno stile assai simile di “post verità” o “fatti alternativi”.

Ri-localizzare l'industria automobilistica è un obiettivo di immagine forte per la nuova presidenza, per il ruolo che ancora l'auto ricopre nell'immaginario produttivistico dell'americano medio. Anche se il livello di automazione delle nuove catene di montaggio riduce a ben poco l'impatto occupazionale un tempo derivante dagli investimenti in questo settore. Ma la nuova amministrazione ha bisogno di far vedere che fa qualcosa di rilevante e usa qualunque mezzo, soprattutto la minaccia di imporre dazi doganali alle auto (e qualsiasi altra merce) prodotta all'estero da società Usa e poi reimportate solo per la vendita.

Non ha stupito nessuno, in questo contesto, la rapidità con cui gli amministratori delegati di Ford, General Motors e Fiat-Chrysler sono salito sul carro di Trump. Addirittura entusiasta Sergio Marchionne, che alla fine dell'incontro ci ha tenuto a far sapere che «Apprezzo l’intento del presidente di fare degli Stati Uniti un grande luogo dove fare business. Lavoreremo con il presidente Trump e i membri del Congresso per rafforzare l'industria americana». La promessa di azzerare le normative ambientali funziona come la carota mostrata di fianco al bastone dei dazi doganali.

Per ora tutto sembra estremamente facile, ma è certo che questo ritorno di protezionismo nazionalistico innescherà in breve tempo risposte uguali e contrarie da parte dei paesi concorrenti; e allora sarà divertente vedere come cercheranno di sbrogliare la matassa queste stesse società multinazionali, abituate da tre o quattro decenni di "frontiere aperte", alle prese con richieste "nazionalistiche" da parte di ogni Stato.

Stesso discorso per la pipeline Keystone XL che doveva attraversare il territorio sacro ai Sioux su richiesta della compagnia Transcanada. Alla fine, sotto la presidenza Obama, non se n'era fatto nulla. Non tanto per l'ambientalismo esibito dalla vecchia amministrazione, quanto per il crollo del prezzo del petrolio negli ultimi anni. Il greggio che avrebbe dovuto essere pompato nell'oleodotto, infatti, doveva essere estratto da sabbie bituminose canadesi, con la costosa e devastante tecnica del fracking. Il crollo del prezzo internazionale aveva reso questo business poco o nulla profittevole, così che i costi aggiuntivi per realizzare il gigantesco oleodotto avevano infine convinto Transcanada a ritirare la domanda di costruzione.

Ora, con il prezzo del greggio in risalita e la prospettiva che crescerà ancora potrebbero spingere le aziende dello shale oil a ripresentare il progetto. E Trump si è già espresso per una “rinegoziazione dell'accordo” che – visti i termini già pessimi, per i Sioux, di quello che si andava prospettando sotto Obama – cancellerà definitivamente la resistenza legale della tribù pellerossa.

Ultima chicca di giornata. Il neo presidente col ciuffo ha annunciato per oggi la firma di un altro ordine operativo per la costruzione del muro al confine con il Messico, per sbarrare la porta ai flussi migratori dal centro e sud America. Anche qui c'è molta propaganda, visto che un lungo muro già esiste (costruito ai tempi di George W. Bush e mai toccato da Obama).

Ma questi sono i primi 100 giorni della nuova amministrazione. Per altri tre mesi ne sentiremo di ogni tutti i giorni. E si tratterà di andare a vedere ogni volta cosa c'è di orrendamente vero e quanto invece sono solo chiacchiere.

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