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20/01/2017

Fin qui tutto bene, forse… La Bce non cambia politica monetaria

Una rondine non fa primavera, e un mese di inflazione in rialzo non costituisce una tendenza. Mario Draghi, presidente della Bce, ha presentato la decisione del board di Francoforte – tassi fermi a zero, quantitative easing da 60 miliardi al mese fino a capodanno; esattamente come prima – con argomenti che testimoniano la preoccupazione per l'andamento dell'economia continentale.

Il rialzo dei prezzi registrato in dicembre (+1,1%) è stato dovuto unicamente all'aumento del prezzo del petrolio, conseguente alla decisione dell'Opec e della Russia (per la prima volta concordi) di ridurre i volumi di estrazione nei mesi a venire. Tecnicamente un aumento dei prezzi energetici è “inflazione importata”, volatile, non derivante da un “surriscaldamento” della dinamica economica che si trascina dietro in genere anche un aumento dei salari. All'opposto, questa fiammata dei prezzi petroliferi arriva in un momento delicato, di crescita bassa o inesistente. Dunque è un pericolo, non un segnale di vitalità.

Le espressioni usate da Draghi – forse l'ultimo esponente di rilievo a servirsi sempre in modo formale del linguaggio diplomatico – sono state particolarmente chiare. L’inflazione non mostra ancora «un trend convincente di rialzo», dunque la politica monetaria ultra-espansiva della Bce («un grado di accomodamento monetario molto sostanziale») è pienamente giustificata. Tanto da tacitare anche quanti – olandesi e soprattutto tedeschi, con il presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, stavolta rimasto silente sullo sfondo – avevano fin qui manifestato pubblicamente, e più volte, insofferenza per gli acquisti di titoli di stato da parte di Francoforte.

Draghi ha tenuto infatti a sottolineare come la discussione nel Consiglio direttivo della Bce sia stata «unanime» proprio riguardo ai risultati della politica monetaria fin qui contestata e ora definita «una risposta corretta alla situazione».

Di più. Le scelte fatte finora sono «sempre più chiaramente di successo». L'elenco dei successi fatto da Draghi è stato puntiglioso, anche se contestabile sotto diversi aspetti. La crescita trimestrale del Pil europeo – 0,3-0,6% – sembra infatti ben poca cosa dopo anni di crescita piatta o addirittura negativa; e soprattutto non è un dato omogeneo per tutta l'Eurozona, ma fortemente differenziato. Ma è indubbio che senza il quantitative easing e i tassi a zero (come avrebbe voluto Bundesbank) anche quel refolo di crescita sarebbe stato un obiettivo impossibile.

Anche l'aumento dell'occupazione nell'area – 4.5 milioni di posti di lavoro creati negli ultimi tre anni – è un dato ottimistico solo se non si guarda alla qualità di quei nuovi posti, sia in termini di competenze sia di livello salariale. Ma anche in questo caso, la “ricetta tedesca” avrebbe certamente provocato un risultato opposto.

“Fin qui tutto bene”, scandiva la voce narrante all'inizio del film La Heine, ricordando che “il problema non è la caduta, ma l'atterraggio”. Tradotto: cosa accadrà quando la Bce comincerà a tornare a una politica monetaria “normale”? Ossia a tassi di interesse ben superiori allo zero e soprattutto a zero liquidità aggiuntiva?

Questo non lo sa nessuno, o perlomeno nessuno ne vuol parlare. Per ora l'orizzonte resta quello di un tasso di inflazione ottimale (intorno al +2% annuo), ma derivante dalla normale dinamica economica e non da interventi “poco ortodossi” della baca centrale. Su questo punto Draghi è stato chiaro solo nel dire che il tapering (la graduale riduzione degli stimoli monetari) «non è stato discusso». Segno che la normalità è ben oltre l'orizzonte delle previsioni plausibili.

La distinzione fatta tra picchi inflazionistici dovuti ai prezzi e «effetti di secondo round» da questi provocati indica chiaramente che l'inflazione “buona” attesa dalla Bce è quella derivante da pressioni salariali e aumento dei tassi di mercato. Ossia da fattori di cui per ora non si vede traccia, neanche in Germania.

Nessuna valutazione, infine, sui possibili effetti di due tempeste annunciate: la Brexit e le politiche economiche che verranno illustrate da Trump nelle prossime settimane. “Troppo presto”, ha anticipato Draghi. E troppo grande la dimensione delle variabili che entreranno in fibrillazione.

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