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27/01/2017

Libia - Haftar conquista Bengasi e sigla l'accordo con la Russia

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Bengasi è completamente nelle mani del generale Khalifa Haftar. Ad annunciarlo è la sua creatura, l’Esercito nazionale libico, braccio armato del governo-ombra di Tobruk: dopo mesi di scontri ha cacciato Ansar al-Sharia, gruppo salafita legato ad al Qaeda, dall’ultimo quartiere della città capoluogo della Cirenaica in cui era ancora presente, il distretto di Ganfounda.

Secondo fonti interne, ci sarebbero ancora sacche qaediste nei distretti di Souq al-Hout e al-Saberi. A riprova, l’autobomba esplosa ieri nel primo pomeriggio in via Nasser a Bengasi: fonti mediche parlano di sei feriti, la polizia di un veicolo fatto saltare in aria a distanza con un telecomando.

L’operazione di Haftar non è nuova: da quasi tre anni il generale, tornato in pompa magna dagli Stati Uniti dopo l’uccisione di Gheddafi, alla guida di 60mila uomini (stimati) si è fatto ispiratore di una crociata anti-islamista che ha portato la Cirenaica alla rottura definitiva con la Tripolitania. Infilatosi nella contrapposizione istituzionale dei due esecutivi (e due parlamenti), sfruttando magistralmente la miriade di gruppi armati in cerca di denaro e potere, ha imbastito un potere rivale a quello tripolino, oggi affidato dall’Onu ad un debolissimo governo di unità.

E non è solo: visto da molti come l’uomo forte che potrebbe trascinare la Libia fuori dal caos, riceve l’endorsement di potenze mondiali. A partire dalla Francia (e i suoi divisivi interessi energetici) che punta alle ricchezze naturali della Cirenaica, dall’Egitto dell’anti-islamista al-Sisi fino alla Russia, “fiore” all’occhiello di una rete di alleanze che non solo si contrappone a quella immaginata da Italia e Nazioni Unite ma che ha buone possibilità di imporsi sullo scenario libico.

Il governo di unità del premier al-Sarraj, rintanato a Tripoli e incapace di imporsi come soggetto legittimo in buona parte del paese, prova a difendersi proprio attraverso l’Italia, vituperata da Tobruk che l’accusa di neocolonialismo: ieri il contro-terrorismo della capitale ha fatto sapere di aver individuato i responsabili dell’autobomba che il 21 gennaio è esplosa di fronte alla sede dell’ambasciata italiana, appena riaperta (unica rappresentanza occidentale tornata in Libia, a dimostrazione dell’interesse economico e politico che Roma ha in una stabilizzazione del paese).

«Questo atto terroristico è il risultato del conflitto politico tra est e ovest», si legge nel comunicato delle unità speciali, che aggiungono che i tre attentatori «sono collegati alla cosiddetta Operazione Dignità [quella lanciata da Haftar nel maggio 2014], ma non è chiaro se abbiano agito spontaneamente o su suo ordine». Uno di loro, in particolare, Omer Kabout, sarebbe un ufficiale dell’esercito del generale.

Aldilà delle accuse incrociate e della reciproca delegittimazione, l’ultimo mese ha consegnato un quadro relativamente nuovo. Come in Siria, a introdurre altre coordinate è l’intervento russo: il presidente Putin non nasconde affatto il favore verso Haftar, già volato a Mosca e poi sulla portaerei Kuznetsov.

I media egiziani riportano del tentativo congiunto di Mosca e Il Cairo di far sedere allo stesso tavolo Haftar e al-Sarraj per individuare una via d’uscita attraverso l’ingresso del primo nel governo di unità del secondo. Un appoggio a suon di supporto militare: secondo l’agenzia Middle East Eye, che cita fonti interne all’esercito algerino, la Russia avrebbe siglato un accordo con Haftar: armi (munizioni, veicoli e strumenti di sorveglianza) in cambio di una base militare in Cirenaica e quindi dell’agognato stivale sul terreno nordafricano.

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