di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Bengasi è completamente
nelle mani del generale Khalifa Haftar. Ad annunciarlo è la sua
creatura, l’Esercito nazionale libico, braccio armato del governo-ombra
di Tobruk: dopo mesi di scontri ha cacciato Ansar al-Sharia,
gruppo salafita legato ad al Qaeda, dall’ultimo quartiere della città
capoluogo della Cirenaica in cui era ancora presente, il distretto di Ganfounda.
Secondo fonti interne, ci sarebbero ancora sacche qaediste nei
distretti di Souq al-Hout e al-Saberi. A riprova, l’autobomba esplosa
ieri nel primo pomeriggio in via Nasser a Bengasi: fonti mediche parlano
di sei feriti, la polizia di un veicolo fatto saltare in aria a
distanza con un telecomando.
L’operazione di Haftar non è nuova: da quasi tre anni il
generale, tornato in pompa magna dagli Stati Uniti dopo l’uccisione di
Gheddafi, alla guida di 60mila uomini (stimati) si è fatto ispiratore di
una crociata anti-islamista che ha portato la Cirenaica alla rottura
definitiva con la Tripolitania. Infilatosi nella
contrapposizione istituzionale dei due esecutivi (e due parlamenti),
sfruttando magistralmente la miriade di gruppi armati in cerca di denaro
e potere, ha imbastito un potere rivale a quello tripolino, oggi
affidato dall’Onu ad un debolissimo governo di unità.
E non è solo: visto da molti come l’uomo forte che potrebbe
trascinare la Libia fuori dal caos, riceve l’endorsement di potenze
mondiali. A partire dalla Francia (e i suoi divisivi interessi
energetici) che punta alle ricchezze naturali della Cirenaica,
dall’Egitto dell’anti-islamista al-Sisi fino alla Russia,
“fiore” all’occhiello di una rete di alleanze che non solo si
contrappone a quella immaginata da Italia e Nazioni Unite ma che ha
buone possibilità di imporsi sullo scenario libico.
Il governo di unità del premier al-Sarraj, rintanato a Tripoli e
incapace di imporsi come soggetto legittimo in buona parte del paese,
prova a difendersi proprio attraverso l’Italia, vituperata da Tobruk che
l’accusa di neocolonialismo: ieri il contro-terrorismo della capitale
ha fatto sapere di aver individuato i responsabili dell’autobomba che il
21 gennaio è esplosa di fronte alla sede dell’ambasciata italiana,
appena riaperta (unica rappresentanza occidentale tornata in Libia, a
dimostrazione dell’interesse economico e politico che Roma ha in una
stabilizzazione del paese).
«Questo atto terroristico è il risultato del conflitto
politico tra est e ovest», si legge nel comunicato delle unità speciali,
che aggiungono che i tre attentatori «sono collegati alla cosiddetta
Operazione Dignità [quella lanciata da Haftar nel maggio 2014],
ma non è chiaro se abbiano agito spontaneamente o su suo ordine». Uno
di loro, in particolare, Omer Kabout, sarebbe un ufficiale dell’esercito
del generale.
Aldilà delle accuse incrociate e della reciproca delegittimazione,
l’ultimo mese ha consegnato un quadro relativamente nuovo. Come in
Siria, a introdurre altre coordinate è l’intervento russo: il presidente
Putin non nasconde affatto il favore verso Haftar, già volato a Mosca e
poi sulla portaerei Kuznetsov.
I media egiziani riportano del tentativo congiunto di Mosca e
Il Cairo di far sedere allo stesso tavolo Haftar e al-Sarraj per
individuare una via d’uscita attraverso l’ingresso del primo nel governo
di unità del secondo. Un appoggio a suon di supporto militare: secondo l’agenzia Middle East Eye,
che cita fonti interne all’esercito algerino, la Russia avrebbe siglato
un accordo con Haftar: armi (munizioni, veicoli e strumenti di
sorveglianza) in cambio di una base militare in Cirenaica e quindi
dell’agognato stivale sul terreno nordafricano.
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