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30/01/2017

L’America si divide, una buona notizia...


L'America è uscita dal torpore politico. E ha scoperto di essere – da sempre – profondamente divisa. L'unità fittizia (quasi un format per la società divisa in classi) era stata garantita per decenni dall'esportazione della crisi all'esterno, tramite la politica monetaria che poteva usare il dollaro e il “persuasivo” uso della forza militare. Il tutto attutito, all'interno, da un'ideologia e un linguaggio che solo per brevità chiamiamo politically correct.

L'irruzione della variabile reazionaria, il blocco sociale che ha espresso Trump, ha interrotto il lungo sonno del conflitto sociale, politico, ideale e morale interno. Leggiamo, come tutti, della grande mobilitazione in corso in tutti gli States contro l'ordine operativo presidenziale che sospende temporaneamente – tre mesi – l'ingresso per gli stranieri originari (e cittadini) di ben sette paesi musulmani.

La motivazione ufficiale è la “guerra al terrorismo”. E mai come questa volta risulta palesemente falsa. Sei paesi sono in effetti attraversati da guerre civili con connotazioni religiose, quasi sempre come conseguenza dell'intervento militare statunitense ed europeo, che ne ha distrutto l'infrastruttura statuale senza poterla sostituire con un'altra altrettanto solida. Iraq, Siria, Somalia, Sudan, Yemen e Libia sono i grani di un rosario che ricorda al mondo la follia Usa degli ultimi 30 anni. Paesi in prevalenza sunniti e accomunati dall'essere stati a lungo fuori o contro il sistema di alleanze intessuto dalla politica imperiale statunitense. Non a caso, non fanno parte dell'elenco degli esclusi l'Arabia Saudita e le altre piccole petromonarchie del Golfo, ormai individuate planetariamente come il principale sponsor di Al Qaeda prima e dell'Isis poi. Né vi rientra il Pakistan, che pure ospitava Bin Laden addirittura in una base dell'esercito; né l'Afghanistan, che resta terra incontrollabile dopo ben 16 anni di occupazione militare.

C'è invece l'Iran, capofila della minoranza sciita del mondo islamico, che combatte l'Isis in Siria e Iraq – teoricamente anche al fianco degli Stati Uniti... – direttamente o attraverso gli sciiti libanesi e iracheni. I primi – Hezbollah – sono stati anche inseriti nella lista dei movimenti “terroristi” solo per rassicurare Israele, nonostante siano componente importante del governo di Beirut.

Un guazzabuglio che mescola interessi geostrategici in via di ridefinizione, conseguenze tragiche della politica Usa degli ultimi 70 anni, e necessità di brevissimo periodo di un reazionario giunto al potere politico senza precedenti esperienze, osteggiato dalla parte di amministrazione (Cia compresa!) sagomata a immagine e somiglianza dell'establishment bipartisan demo-repubblicano.

L'America in piazza e negli aeroporti in queste ore tiene a sua volta insieme anime molto diverse: dai movimenti per i diritti civili all'attivismo più classicamente liberal, alle minoranze etniche e religiose.

Quel che è andato in pezzi è l'immagine dell'America come grande contenitore in grado di assorbire e metabolizzare differenze etno-culturali senza perdere una virgola della propria identità; anzi, rafforzandola attraverso questa iniezione perenne di nuove subculture. L'immagine di un'America in grado di progredire.

Non è palesemente solo uno scontro di cultura politica (isolazionisti wasp contro globalizzatori multiculturali), anche se questo resta per il momento l'aspetto dominante nelle narrazione mediatica e nell'auto rappresentazione dei manifestanti. E' naturalmente un bene che questo scontro si sia acceso, ma sarebbe un errore interpretarlo secondo questa schematizzazione di comodo.

L'America che ha selezionato Trump è l'America di Abu Graib, delle extraordinary rendition, della tortura e dell'aggressione imperialista a qualsiasi paese nel mondo non accettasse immediatamente il predominio statunitense. E' l'America della polizia che ammazza i neri per strada, e con più frequenza da quando alla presidenza era stato eletto per la prima volta un nero (ma che ha smesso di uccidere una volta che Trump ha vinto le elezioni...). E' l'America che pretenderebbe di mandare i propri soldati (o preferibilmente i droni) in qualsiasi paese del mondo, ma senza accettare nessuno che provenga da laggiù. Nemmeno i collaborazionisti... E' un'America di cui pubblicamente l'establishment faceva mostra di vergognarsi, ma che è stata utilizzata alla grande ogni volta che bisognava passare all'azione. E' un'America che accettava in silenzio questa funzione di manovalanza sporca, da “americani di serie B”, perché briciole dell'immenso bottino ramazzato nel mondo cadevano comunque sulla sua tavola.

L'America che oggi gli si oppone ha magari storto spesso il naso davanti alle pagine peggiori della storia del dopoguerra, ma che – con l'enorme eccezione dell'opposizione alla guerra in Vietnam, a cavallo tra gli anni '60 e '70 – non si è mai troppo preoccupata di quel che gli Usa infliggevano al resto del mondo. Per le stesse ragioni dell'altra: un guadagno, per tutti, c'era. E ampio.

Dieci anni di crisi e venticinque di delocalizzazioni produttive hanno svuotato il sacco del bottino. O perlomeno hanno cancellato la quota redistribuita attraverso salari, sussidi, ecc. Il totale dei senza lavoro sfiora i 100 milioni di persone in un paese che non ha ammortizzatori sociali, welfare, sanità pubblica (l'Obamacare, ora in smantellamento, copriva un decimo di quanto non faccia la bistrattata sanità italiana). La stragrande maggioranza degli occupati, specie quelli “nuovi”, sono precari, sottopagati, senza reddito adeguato e soprattutto senza prospettive di miglioramento.

Per questa America il sogno americano non esiste più da un pezzo. I nuovi immigrati – pochi o tanti, non importa – sono solo concorrenti nella caccia a un reddito già scarso. Qui i “valori americani” più decantati non contano nulla; solo il mito del ricorso alla forza appare risolutivo.

E ovviamente non può più esserlo, come dimostra proprio quel rosario di paesi islamici i cui cittadini sono oggi respinti ai posti di frontiera, esattamente come messicani e latinoamericani in genere lungo il muro iniziato da Bill Clinton e prolungato da George W. Bush.

La rottura nella faglia sociale statunitense è stata preparata dagli ultimi venticinque anni, ed ora sta cominciato a terremotare davvero. L'establishment demo-repubblicano è stato spazzato via sia da destra (Trump) sia da sinistra (Sanders), ma ha prevalso fin qui l'ondata di destra perché il richiamo della foresta del politically correct (Sanders che invita a votare per Hillary) ha ricondotto l'ondata di sinistra verso il riflusso o il tentativo di “conquistare dal basso” la macchina elettorale democratica.

Guardare all'America attuale con gli occhiali fornitici da tutti i media mainstream impedisce di vedere quel che di buono sta avvenendo. Che non è soltanto il gonfiarsi di un'opposizione alle follie più evidenti di Trump, ma la rottura interna al paese che per 70 anni ha governato il mondo secondo i propri interessi e sotto la regia del capitale multinazionale.

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