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24/01/2017

Egitto: omicidi e falsità di regime da Said a Regeni

Nel voler fare dell’omicidio Regeni l’ennesimo dramma ‘irrisolvibile’ ecco che indizi e prove spuntano e ricadono con una periodicità finalizzata a rimandare a infinite rivelazioni successive. Una trama perfetta in cui la tensione sale e scema senza giungere al cuore del mistero, che mistero poi non è, perché la vicenda rientra a pieno nella casistica globale degli omicidi di Stato. Bastava aver seguito quel che accade in Egitto da anni, e dopo la speranza di Thawra in occasione della scadenza del 25 gennaio. Nell’ultima messa in scena di queste ore la regia cairota decide di mostrare un altro tassello. Non parliamo della regia televisiva che manda in onda un filmato del ricercatore ripreso dal sindacalista-spione a servizio dell’Intelligence di Sisi tramite una microtelecamera nascosta. Il presunto scoop è solo uno strumento usato dalla cabina di regia del regime medesimo, dai suoi uomini di punta come il ministro dell’Interno Ghaffar da cui l’Agenzia di Sicurezza prende ordini. Con quelle immagini e quel colloquio rubati costoro vorrebbero rilanciare la tesi di un Regeni che, consapevolmente o meno, si fa tramite di raccolta d’informazioni che l’Università di Cambridge passerebbe all’Intelligence britannica. Un filone da spy story, gettato lì, come altre congetture (il decesso per incidente, l’intreccio di relazioni gay, il presunto rapimento da parte di una gang con tentativo d’estorsione e tragica fine) che gli apparati polizieschi hanno prodotto nelle settimane successive al ritrovamento del cadavere.

Se n’è scritto a lungo, si sono lanciate anche ipotesi a seguito di passaggi incongruenti: perché fare trovare il corpo seviziato del giovane e non farlo sparire nel nulla com’è drammaticamente accaduto per decine di attivisti scomparsi? C’è chi vuole screditare il governo? Chi gli rema contro? Potrebbe essere un’ipotesi, ma manca di conferme. Al contrario il regime dice altro e lo ribadisce da tempo. Attraverso un sistema di terrore diffuso, di delazione e di omertà l’attuale generale-presidente, la lobby militare da cui proviene, gli organi repressivi di cui si serve, i gruppi politici ed economici che lo sostengono hanno instaurato nel Paese dal luglio 2013 un odioso clima persecutorio lanciato contro gli oppositori. Quelli di sponda islamista, iniziati a massacrare per via (con la mattanza della moschea di Rabaa del 14 agosto 2013), e a seguire omicidi di attivisti laici, lavoratori e sindacalisti, cui norme sedicenti di sicurezza diventate legge marziale di fatto, impediscono di riunirsi in piazza. Sfidandole il 25 gennaio di due anni fa Shaimaa al-Sabbagh, un’insegnante, scesa in strada a manifestare insieme a dei colleghi, trovò la morte. Dell’assassinio nessuno rispose. Tutto è rimasto vagante, come i proiettili che le hanno fermato la vita. Questa vittima, una donna, una professionista, non uno scalmanato ragazzotto di Tahrir, serve a Sisi per tracciare il confine fra quel che è lecito (l’obbedienza e l’asservimento) e ciò che al potere risulta insopportabile (la contestazione). E naturalmente chi vuole narrare tutto ciò.

Il messaggio serve da monito, come le migliaia di arresti e sparizioni, le bocche cucite all’informazione, lo strazio del ricercatore trattato come un agente provocatore. Tutto condito col consenso dei concittadini, anche dei più sensibili a questioni sociali come gli iscritti a taluni sindacati inquinati da collaboratori della polizia, resi perversamente complici attraverso l’arma del ricatto oppure spinti nuovamente nel ghetto del silenzio, della paura, dell’impossibilità di cambiare, all’opposto delle speranze innescate il 25 gennaio di sei anni fa. Doveva accadere lo scempio di Giulio Regeni, che studiando il Paese scopriva i gangli d’una mai morta corruzione, per osservare da vicino la violenza istituzionalizzata che gli oppositori denunciavano dai tempi di Mubarak, epoca in cui la polizia faceva di Khaled Said un’angosciante maschera di morte anche più sinistra dello studioso friulano. La costante della violenza non ha conosciuto soste in Egitto, praticata da ogni apparato: i baltagheyah, picchiatori prezzolati che assaltavano le tende degli accampati a Tahrir durante il governo provvisorio del Consiglio Supremo delle Forze Armate, o quelli che bruciavano le sedi della Fratellanza Musulmana nei mesi della contestazione alla presidenza Morsi, sia la polizia che stuprava Samira Ibrahim oppure spogliava e picchiava per via le dimostranti. Col regime di Sisi, introdotto dallo sciagurato sostegno offerto ai militari dai liberali di El Baradei e dalla “sinistra” di Sabbahi, i mukhabarat, gli agenti segreti hanno mutato nome (National Security Agency) non la sostanza e i metodi, rimasti quelli di sempre.


Visto che in quel Paese quasi nulla si può muovere sono la politica e la società civile internazionali a dover lanciare segnali e opporsi alle sevizie d’un popolo. I vertici del nostro Stato, il ministro degli Esteri Gentiloni diventato premier, che dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni prometteva fermezza e giustizia, non profferisce parola. Segue le scelte del suo predecessore che all’ipotesi di rotture diplomatiche con un regime di torturatori, ha pensato alle casse delle nostre imprese (una è l’Eni) dirigendo lo sguardo altrove. Verità e giustizia per Giulio Regeni, ma quando e grazie a chi?

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