di Chiara Cruciati
Un altro muro si sta
sollevando, stavolta a definire la conquista di territorio compiuta
negli anni successivi all’avanzata dello Stato Islamico in Iraq. A
innalzarlo è il Kurdistan iracheno, come riporta oggi il Guardian: a nord e ad est di Mosul, montagne di terra sono state accumulate a formare una barriera lunga più di mille km.
La barriera correrà da Sinjar, vicino il confine siriano, a
Khanaqin, a oriente, nel distretto di Diyala, a pochi passi dalla
frontiera con l’Iran. Definirà il territorio sotto il controllo di
Erbil. Una mossa che accompagna le dichiarazioni di indipendenza che
ormai da tempo caratterizzano la politica kurdo-irachena,
ampiamente sostenuta dal vicino alleato turco. Ma è anche una mossa che
genererà altre tensioni: da due anni, da quando l’Isis prese Mosul, i
peshmerga hanno approfittato della guerra in corso e dell’implosione
dell’esercito governativo di Baghdad per ampliare i propri confini verso
sud, verso territori che rivendicano come propri.
A partire dalla ricca Kirkuk, città contesa teatro di una
violenta arabizzazione sotto Saddam e oggi sottoposta al processo
inverso, la kurdizzazione della comunità che ha portato alla fuga o alla
cacciata di numerose famiglie arabe. Oggi Kirkuk è gestita
amministrativamente da Erbil, controllata dalle sue forze militari,
costellata di bandiere kurde e di poster con il volto del presidente
Barzani.
Ma Kirkuk non è il limite ultimo: da anni sono in corso scontri
violenti tra peshmerga e milizie sciite a sud della città, nella zona di
Tuz Khurmatu, dove sono finiti intrappolati nel conflitto interno
migliaia di sfollati sunniti scappati dai territori occidentali e da
Mosul. E ora gli obiettivi sono le città cristiane di Bartella e
Bashiqa, dove i peshmerga stanno consolidando le proprie posizioni dopo
la liberazione dal giogo islamista.
Molti, all’epoca della presa di Mosul, mossero accuse aperte ad Erbil: si
parlò di un accordo segreto con la leadership del “califfato” che
evitasse scontri diretti tra i due con l’Isis più interessato all’inizio
ad avanzare verso Baghdad. Ma le difficoltà incontrate dallo Stato
Islamico lo hanno fatto ripiegare, spingendolo verso nord-est e aprendo
il fronte con il Kurdistan iracheno. Il primo incontro
vis-a-vis fu a Sinjar, nell’agosto 2014, dove la popolazione yazidi
assistette impotente al massacro con i peshmerga che si davano alla
fuga.
Ma nonostante la perdita della piana di Ninawa, oggi i kurdi
iracheni controllano un territorio del 40% più ampio di quello pre-2014.
L’obiettivo è chiaro: costringere Baghdad, una volta sradicata la
presenza islamista da Mosul, a negoziare territorio e maggiore
autonomia. Dietro, cane da guardia, c’è la Turchia che non ha
mai allentato il sostegno all’alleato kurdo-iracheno, unica realtà kurda
con cui fa affari consistenti e tiene rapporti politici continuativi.
In chiave anti-Pkk, principalmente, ma anche con lo scopo di impedire
una chiara unità politica e amministrativa del futuro Iraq, a
maggioranza sciita e sotto l’ala iraniana.
Lo ha ribadito pochi giorni in un’intervista al Washington Post
lo stesso presidente Barzani: “Continueremo a esportare petrolio
attraverso la Turchia, Baghdad non ha alcun diritto di lamentarsi o
criticare visto che ha deciso illegalmente di tagliare il nostro
budget”. Una risposta a metà: il taglio del budget è arrivato dopo
l’inizio del trasferimento del greggio di Kirkuk verso Ankara.
“La linea su cui siamo oggi è militare, non politica – dice
una fonte governativa di Erbil – Non faremo alcun compromesso su quanto
fatto prima del 17 ottobre [data di inizio della controffensiva su
Mosul, ndr]”. Insomma, Baghdad dovrà sedersi al tavolo e
accettare le conquiste kurde. Target principale resta proprio Sinjar:
Erbil intende assumerne il controllo, una posizione strategica a metà
tra Mosul e la Siria, a poca distanza dal confine turco. C’è chi guarda a
tanta insistenza come al modo per tenere lontani gli uomini del Pkk e
delle Ypg, il cui intervento è stato fondamentale alla liberazione della
comunità yazidi.
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