Fare comizi e governare sono due attività diverse. E molto spesso non coincidono affatto. Ma il discorso di insediamento di Donald Trump, se sarà seguito da un'azione anche solo vagamente somigliante a quanto affermato, cambia radicalmente il ruolo e la funzione degli Stati Uniti d'America nel mondo.
Nei suoi 45 minuti di retorica nazionalista, Trump ha chiuso il lungo periodo in cui gli Usa hanno cercato di governare il pianeta, lo sviluppo economico globale, negli interessi del capitale multinazionale che aveva ed ha negli Stati Uniti il pilastro politico-militare indispensabile per tale compito. In un certo senso, ha segato il ramo su cui gli States erano rimasti vantaggiosamente seduti per 70 anni.
L'America di Trump – nelle intenzioni, certo – è un paese che pensa soltanto o prevalentemente a se stesso, che si impegna a ricostruire una “comunità nazionale” dopo decenni in cui proprio gli Stati Uniti hanno permesso e promosso il “libero mercato”, l'abbattimento dei confini per le merci e i capitali (molto meno per le persone, visto che il “muro con il Messico” già esiste dai tempi di Bush junior…). Una lunga fase di globalizzazione che da un lato ha permesso di distruggere l'antagonista storico del '900 – il “socialismo reale” – ma dall'altro ha svuotato l'America della sua capacità produttiva in tutti i comparti della produzione di massa.
Il deserto occupazionale degli Stati Uniti oggi va misurato non con le statistiche ufficiali, che certificano un tasso di disoccupazione intorno al 5%, ma con l'oceano di persone classificate tra gli “inattivi”, che non cercano più un lavoro perché hanno perso anche la speranza di trovarlo. Se si sommano – come è indispensabile fare, se si vuol guardare in faccia il paese reale e non i pezzulli agiografici degli inviati dei media mainstream – disoccupati ufficiali e “inattivi” si raggiungono i 100 milioni di senza lavoro. Su una popolazione di quasi 320 milioni, scartando minorenni e pensionati, si tratta di una cifra vicina al 50%.
Con un esercito salariale di riserva di queste dimensioni, continuamente accresciuto dal flusso migratorio dal Sud America attraverso la frontiera messicana, anche chi un lavoro ce l'ha se la passa male. Il “sogno americano” è diventato intangibilmente, per la maggioranza della popolazione, una “narrazione” senza significato. E soprattutto senza futuro.
In questa condizione sociale ha trovato facile presa la retorica trumpiana del make America great again. Retorica confermata senza variazioni significative nel discorso di insediamento. “Questa cerimonia ha un significato molto importante. Non è solo il trasferimento da un'amministrazione a un'altra. Stiamo ridonando il potere al popolo. Per troppo tempo un gruppo ristretto di persone ha gestito il governo. La prosperità era solo per i politici, non per le imprese. L'establishment ha protetto se stesso, non le imprese. Non sono stati i trionfi della gente, c'era poco da celebrare per le famiglie che lottavano in tutti gli Usa. Da ora tutto cambia. E' il vostro momento, vi appartiene".
Chiacchiere, ovviamente. Il potere resta ben saldo nelle mani di un establishment che però non è più quello “globalizzante” degli ultimi decenni. Il patto tra proprietari che caratterizza il modello anglosassone non permette mai al common people di modificare la direzione di marcia delle istituzioni; ma una faglia si è prodotta tra i proprietari che controllano il business in America. La frazione del mondo degli affari che ha espresso Trump come terminale dei propri interessi ha bisogno di protezionismo per poter reggere la concorrenza globale, ha bisogno di confini e investimenti pubblici, ha bisogno di riprendere il monopolio del mercato interno. In qualche misura, è il mondo della old economy, con scala dimensionale e orizzonti più modesti. Da qui parte il nucleo del “programma economico” che viene brutalmente riassunto nelle “due regole” ossessivamente ripetute dal tycoon inaspettatamente arrivato alla Casa Bianca: “Da oggi il potere torna al popolo e ci saranno due regole da seguire: comprate americano e assumete americano”.
Il tentativo è chiarissimo: saldare il risentimento popolare con gli interessi di una parte importante, ma fin qui in secondo piano, del capitalismo statunitense. “Per decenni abbiamo chiuso alle nostre imprese e non abbiamo difeso i nostri confini, spendendo all'estero miliardi di dollari per difendere gli altri mentre le nostre infrastrutture crollavano nella decadenza generale. Mentre la fiducia nel nostro Paese spariva. Le imprese se ne andavano senza pensare ai milioni di lavoratori che restavano indietro. La middle class è stata tagliata fuori dalla redistribuzione della ricchezza".
E dunque la facile promessa: “Non sarete più dimenticati. Decine di milioni di persone vogliono far parte di un movimento storico, che il mondo non aveva mai visto. Nella convinzione che una nazione esiste per servire i suoi cittadini: nel lavoro, nella scuola. Cose ragionevoli. Ma troppi dei nostri cittadini vivono intrappolati nella povertà, imprese che chiudono, l'istruzione che viene meno. E anche i crimini, le droghe che mietono vittime e ci tolgono tanto potenziale. Tutto questo finisce adesso, in questo momento”.
La soluzione è quella classica del nazionalismo novecentesco: “Questa carneficina finisce qui e ora. Per molti anni abbiamo arricchito l’industria straniera a scapito di quella statunitense, abbiamo difeso i confini di altre nazioni e non i nostri. Da oggi ci sarà una nuova visione: l’America viene prima. Ogni decisione sul commercio, sulle tasse, in materia di immigrazione, sugli esteri sarà presa a beneficio dei lavoratori americani e delle famiglie americane. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri paesi che distruggono i nostri prodotti, rubano le nostre aziende e distruggono il nostro lavoro. L’America tornerà a vincere, come mai prima. Ci riprenderemo i nostri posti di lavoro. Ci riprenderemo i nostri confini. Ci riprenderemo la nostra ricchezza. E ci riprenderemo i nostri sogni. Ricostruiremo il nostro paese con mani americane e lavoro americano”.
La globalizzazione è finita, ora è tutti contro tutti. Una conferma in più di quanto abbiamo scritto in questi anni sul passaggio alla fase della competizione globale.
“L'America viene prima” è uno slogan che chiunque, nel mondo, declinerà in altro modo. “Prima la Russia”, “prima la Cina”, “prima la Germania”, “prima l'Italia”, “prima Scurcola”, “prima la scala B”… Per le filiere produttive che debbono metter d'accordo molti paesi diversi si annunciano tempi complicati.
Certo, non è detto che Trump duri a lungo. E' possibile che la “guerra tra le agenzie” (Cia, Fbi, Nsa, ecc.) possa partorire colpi di mano clamorosi, concretizzabili in dossier di supporto a procedure di impeachment o soluzioni più sbrigative ma non rare nella storia Usa. Ma il sommovimento dentro l'assetto sociale statunitense è tale da non poter essere altrettanto facilmente ricondotto all'ovile.
Ed in ogni caso le onde sismiche che da ieri hanno cominciato a scuotere le faglie tettoniche del sistema globale seguiranno il loro corso. Non si rimette il dentifricio nel tubetto, una volta che è uscito.
Lo scenario globale va mutando a una velocità mai vista dai tempi della “caduta del Muro” e questo mutamento trascina con sé – esattamente come avvenuto con il tracollo del Patto di Varsavia – modi di ragionare, gruppi dirigenti, interessi sociali differenti, modalità di governance, alleanze internazionali, ecc...
Da stamattina siamo in un nuovo mondo, non meno terribile di quello che abitavamo mentalmente fino a ieri sera, ma è un altro mondo. Basti pensare che l'Europa ha trovato posto, nel discorso di Trump, solo come “fonte di costo eccessiva” per il mantenimento della struttura militare della Nato.
La competizione globale è in corso. I suoi esiti sono una incognita per tutti.
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