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22/01/2017

Liberal Bloc

Se c’è una cosa più ridicola, detestabile e miserevole del discorso d’insediamento di Trump lo scorso 20 gennaio, questa è la prosopopea mediatica sugli “scontri” avvenuti per le strade di Washington lo stesso giorno. A dire la verità, ad essere miserevoli sono stati gli scontri stessi, che hanno riproposto, su scala planetaria, la dicotomia sociale e politica tra un proletariato anestetizzato da Trump e una borghesia che avvia la sua santa alleanza contro il presunto tiranno. E’, in grande, ciò che è avvenuto in Italia con Berlusconi. Individuando il problema politico non nel liberismo trasversale, nel capitalismo, nello sfruttamento, nell’imperialismo statunitense, ma nel leader “antidemocratico”, la versione “progressista” del liberismo ha fagocitato ogni movimento alla sua sinistra in nome del “fronte popolare” contro il nuovo fascismo. Negli Usa si sta producendo – non da oggi – la stessa traiettoria miserevole. Ovviamente il problema non risiede nella “protesta contro Trump”, legittima e anzi necessaria. Risiede altrove, e cioè nella concreta sensazione, anzi l’assodata certezza, che se avesse vinto Hillary Clinton non ci sarebbero stati né scontri né cortei, né donne in marcia né indignazioni mediatiche. Perchè quei cortei, quell’indignazione e quella protesta altro non è che l’assecondamento di una narrazione mediatica imposta e interessata, che niente ha a che vedere con gli interessi popolari contro Trump e il capitalismo anti-globalizzazione che lui vorrebbe rappresentare.  La campagna elettorale della Clinton è filata via liscia come l’olio, a differenza della contestazione continua e trasversale a Trump. Dov’è il marcio di questo scenario? Sta nel fatto che a contestare Trump è quella borghesia liberal a cui viene sottratto il giochetto del potere e delle narrazioni rincuoranti sulla difesa dei diritti civili. Ad appoggiarlo, invece, un multiforme brodo sociale in cui trovano posto anche vasti settori di quel proletariato annichilito che, non sapendo a chi affidare in dote la propria rassegnazione, decide di scommettere su chi si propone come soggetto resiliente alla globalizzazione. Per completare la costruzione narrativa ad usum democratico, la strizzata d’occhio alle vetrine rotte dai redivivi “black bloc”: cattivoni, ma in fondo per la giusta causa di contestare il molestatore seriale, il mangiatore di bambini, l’uomo pettinato male e che, massima delle ingiurie, non riesce neanche a seguire il passo della moglie nel ballo inaugurale la presidenza.

Le capriole mediatiche di questi giorni sono addirittura esaltanti per la loro manifesta volontà di costruire dissenso liberale attorno a Trump. I vomitevoli servizi televisivi rispecchiano questa rinnovata alleanza contro il tiranno. In Italia, improvvisamente, i “black bloc” non sono più gruppi di eversivi infiltrati teppisti anarcoinsurrezionalisti debosciati emarginati; si trasformano in sintomo del malessere popolare contro Trump, eccedenza di una rivolta sacrosanta contro il male, insofferenza sbagliata ma comprensibile nei confronti dell’impresentabile. Ad esempio, La Stampa. A Washington erano “in corso scontri tra gruppi di manifestanti anti Trump e la polizia. Alcune vetrine di banche e di altri esercizi commerciali sono state infrante dai manifestanti” (qui); altrove, l’apogeo: “le divisioni politiche americane sono sfociate in violenti scontri per le strade di Washington in occasione dell’investitura a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump” (qui). Insomma, le vetrine sfasciate dai black bloc si trasformano nella narrazione anti-trumpiana in “gruppi di manifestanti”, e il processo che porta alla violenza di piazza il frutto delle “divisioni politiche americane”. Eppure, in questi anni quegli stessi manifestanti etichettati invariabilmente come “black bloc” erano oggetto di ben altre considerazioni. I No Borders, ad esempio: “Ventimiglia blindata per gli antagonisti“; le manifestazioni di Parigi: “I black bloc nel corteo dei sindacati: guerriglia!“; al Brennero: “Guerriglia black bloc“. E così via, si potrebbe continuare per giorni. Nel caso di Washington, scompaiono guerriglie e infiltrazioni, e le vetrine rotte magicamente tornano a rappresentare l’insofferenza, la protesta civile, la parte giusta della storia.

A perderci, in questa dinamica stritolante, alienante e perversa, non è la sinistra americana, che non esiste, né quella europea, che non esiste più. A perderci è quel proletariato incantato dalle sirene trumpiane ma che, se si volta a sinistra, vede il matrimonio tra sinistra liberal e Wall Street sugellato dal ritorno dei black bloc in salsa dirittoumanista. questo ne è un massimo esempio simbolico: padroni e lavoratori contro Trump, nell’eterna mortale santa alleanza contro il cattivone. Insomma, se Trump è spregevole, a sinistra s’intravede chiaramente il nemico di classe. E quella stessa classe continuerà ad affidarsi a chi quell’alleanza con la finanza e il “libero mercato” dice a parole di volerla distruggere.

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