Se c’è una cosa più ridicola, detestabile e miserevole del discorso
d’insediamento di Trump lo scorso 20 gennaio, questa è la prosopopea
mediatica sugli “scontri” avvenuti per le strade di Washington lo stesso
giorno. A dire la verità, ad essere miserevoli sono stati gli scontri
stessi, che hanno riproposto, su scala planetaria, la dicotomia sociale e
politica tra un proletariato anestetizzato da Trump e una borghesia che
avvia la sua santa alleanza contro il presunto tiranno. E’, in grande,
ciò che è avvenuto in Italia con Berlusconi. Individuando il problema
politico non nel liberismo trasversale, nel capitalismo, nello
sfruttamento, nell’imperialismo statunitense, ma nel leader
“antidemocratico”, la versione “progressista” del liberismo ha
fagocitato ogni movimento alla sua sinistra in nome del “fronte
popolare” contro il nuovo fascismo. Negli Usa si sta producendo – non da
oggi – la stessa traiettoria miserevole. Ovviamente il problema non
risiede nella “protesta contro Trump”, legittima e anzi necessaria.
Risiede altrove, e cioè nella concreta sensazione, anzi l’assodata
certezza, che se avesse vinto Hillary Clinton non ci sarebbero stati né
scontri né cortei, né donne in marcia né indignazioni mediatiche. Perchè
quei cortei, quell’indignazione e quella protesta altro non è che
l’assecondamento di una narrazione mediatica imposta e interessata, che
niente ha a che vedere con gli interessi popolari contro Trump e il
capitalismo anti-globalizzazione che lui vorrebbe rappresentare.
La campagna elettorale della Clinton è filata via liscia come l’olio, a
differenza della contestazione continua e trasversale a Trump. Dov’è il
marcio di questo scenario? Sta nel fatto che a contestare Trump è
quella borghesia liberal a cui viene sottratto il giochetto del potere e
delle narrazioni rincuoranti sulla difesa dei diritti civili. Ad
appoggiarlo, invece, un multiforme brodo sociale in cui trovano posto
anche vasti settori di quel proletariato annichilito che, non sapendo a
chi affidare in dote la propria rassegnazione, decide di scommettere su
chi si propone come soggetto resiliente alla globalizzazione. Per
completare la costruzione narrativa ad usum democratico, la
strizzata d’occhio alle vetrine rotte dai redivivi “black bloc”:
cattivoni, ma in fondo per la giusta causa di contestare il molestatore
seriale, il mangiatore di bambini, l’uomo pettinato male e che, massima
delle ingiurie, non riesce neanche a seguire il passo della moglie nel
ballo inaugurale la presidenza.
Le capriole mediatiche di questi giorni sono addirittura esaltanti
per la loro manifesta volontà di costruire dissenso liberale attorno a
Trump. I vomitevoli servizi televisivi rispecchiano questa rinnovata
alleanza contro il tiranno. In Italia, improvvisamente, i “black bloc”
non sono più gruppi di eversivi infiltrati teppisti
anarcoinsurrezionalisti debosciati emarginati; si trasformano in sintomo
del malessere popolare contro Trump, eccedenza di una rivolta
sacrosanta contro il male, insofferenza sbagliata ma comprensibile nei
confronti dell’impresentabile. Ad esempio, La Stampa. A Washington erano “in corso scontri tra gruppi di manifestanti anti Trump e la polizia. Alcune vetrine di banche e di altri esercizi commerciali sono state infrante dai manifestanti” (qui); altrove, l’apogeo: “le divisioni politiche americane sono
sfociate in violenti scontri per le strade di Washington in occasione
dell’investitura a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump” (qui).
Insomma, le vetrine sfasciate dai black bloc si trasformano nella
narrazione anti-trumpiana in “gruppi di manifestanti”, e il processo che
porta alla violenza di piazza il frutto delle “divisioni politiche
americane”. Eppure, in questi anni quegli stessi manifestanti
etichettati invariabilmente come “black bloc” erano oggetto di ben altre
considerazioni. I No Borders, ad esempio: “Ventimiglia blindata per gli antagonisti“; le manifestazioni di Parigi: “I black bloc nel corteo dei sindacati: guerriglia!“; al Brennero: “Guerriglia black bloc“.
E così via, si potrebbe continuare per giorni. Nel caso di Washington,
scompaiono guerriglie e infiltrazioni, e le vetrine rotte magicamente
tornano a rappresentare l’insofferenza, la protesta civile, la parte
giusta della storia.
A perderci, in questa dinamica stritolante, alienante e perversa, non
è la sinistra americana, che non esiste, né quella europea, che non
esiste più. A perderci è quel proletariato incantato dalle sirene
trumpiane ma che, se si volta a sinistra, vede il matrimonio tra
sinistra liberal e Wall Street sugellato dal ritorno dei black bloc in
salsa dirittoumanista. questo
ne è un massimo esempio simbolico: padroni e lavoratori contro Trump,
nell’eterna mortale santa alleanza contro il cattivone. Insomma, se
Trump è spregevole, a sinistra s’intravede chiaramente il nemico di
classe. E quella stessa classe continuerà ad affidarsi a chi
quell’alleanza con la finanza e il “libero mercato” dice a parole di
volerla distruggere.
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