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06/04/2017

Cambiare il carcere? Facciamo prima a cambiare vocabolario...

Una specialità tutta italiana è la riforma del linguaggio. Avete un problema concreto grosso come un casa? Chiamatelo in un altro modo, più accattivante, e il problema sarà quasi sparito.

Se poi il problema è grande come le case circondariali – in gergo popolare: le galere – allora l’effetto “cura del linguaggio” assume caratteristiche decisamente comiche. O, più seriamente, fanno incazzare.

In Italia abbiamo le carceri peggiori d’Europa, è risaputo. Come si migliora questa situazione? Gli ingenui penseranno che bisognerebbe evitare la detenzione per “reati bagatellari”, l’eccessivo uso della carcerazione soprattutto per gli extra comunitari, una revisione in meglio della vecchi “legge Gozzini”...

Macchè, al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) sono stati molto più rapidi e innovativi: un bel regolamento per chiamare con altri nomi le cose. E così, se la cella vi sembra un posto orrendo dove far vivere gli esseri umani (specie se accatastati, come avviene nelle nostre prigioni), basta chiamarla vezzosamente “camera di pernottamento”, e improvvisamente sarà percepita quasi come una suite a tre stelle; un posto dove passare una notte e via... Invece delle 20-22 ore quotidiane passate a fissare il soffitto o le maglie della branda sopra la tua. E poi, perché chiamare ancora “scopino” quel detenuto lavorante che spazza i corridoi? Che lo si appelli come “addetto alle pulizie” (qualcuno avrebbe magari preferito “operatore ecologico”, come fuori, ma si sarebbe potuta creare qualche pericolosa illusione), che fa tutto un altro effetto.

Il vocabolario carcerario viene rinnovato quai totalmente, con il piantone (il detenuto che deve assistere un detenuto malato) riqualificato come “addetto alla persona”, e lo spesino elevato ad "addetto alla spesa dei detenuti".

Le motivazioni addotte dal direttore del Dap, Santi Consolo, sono un campionario di “comunicazione innovativa”, seguendo il fulgido esempio dei Berlusconi e dei Renzi: “La vita all'interno del carcere deve essere il più possibile simile a quella esterna e questa assimilazione deve comprendere anche il lessico. I termini attualmente utilizzati nelle carceri riferiti ai detenuti sono spesso avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività ed è causa di una progressiva e deprecabile infantilizzazione, di un isolamento del detenuto dal mondo esterno che crea ulteriori difficoltà per il possibile reinserimento, oltre ad assumere in alcuni casi una connotazione negativa”.

Immaginiamo quanti accoglieranno con autentica gioia, invece che con diffidenza, un ex “addetto alle pulizie” che ha trascorso magari quattro o cinque anni in “camera di pernottamento”... O un idraulico che non è stato più chiamato “stagnino”, un addetto alla cucina non più “cuciniere”, un “compagno di socialità” non più svillaneggiato come “dama di compagnia”.

Del resto cosa aspettarsi da una classe politica che è arrivata a definire i licenziati – quelli fregati da accordi di prepensionamento svuotati dalla signora Fornero – come “esodati”?

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