Finalmente la Brigata Ebraica abbandona il corteo dell’Anpi
del 25 aprile. Dopo aver disattivato completamente ogni significato
politico della Liberazione, averne pacificato il ricordo per
riconvertirlo in una inconsistente celebrazione della
“liberaldemocrazia” contro “l’autoritarismo”, la frangia sionista della
comunità ebraica romana decide di schierarsi contro l’Anpi e la festa
antifascista. Anche il Pd dichiara la sua non partecipazione al corteo, seminando incertezza tra la popolazione.
Finalmente il 25 aprile torna ad essere, anche nella sua manifestazione
ufficiale, un appuntamento antifascista. Se l’abbandono degli evidenti
elementi contraddittori al carattere antifascista della manifestazione è
un segnale positivo, lo è meno la modalità complessiva di un 25 aprile
ridotto a stantia memorialistica, distante tanto dalle istituzioni
quanto dalle lotte reali che pure dovrebbe in qualche modo contenere
idealmente. Forse è addirittura meglio
così. Durante la Prima repubblica la festa della Liberazione ha
legittimato la presenza politica del Pci come attore protagonista delle
sorti costituzionali del paese. Le retoriche sul fronte comune
antifascista hanno si impedito la marginalizzazione politica del Partito
comunista, ma al prezzo di annacquare definitivamente i caratteri di
classe della Resistenza partigiana (o anche solo negarne il carattere di
guerra civile). Crollato il Pci e la Prima repubblica, il 25 aprile si è
ritrovato abbandonato e inutile agli scopi delle nuove forze politiche:
a che pro ricordare lo “sforzo comune” di partiti che non esistevano
più, in un mondo collassato su se stesso e di una lotta con ogni
evidenza lontana dall’attualità politica? Da appuntamento in qualche
modo “attuale” – o costantemente attualizzato dall’arco parlamentare,
escluso il Msi – il 25 aprile non ha trovato più senso politico che non
fosse quello di tramandare un ricordo dovuto. Ma la memoria o trova un
senso nella quotidianità o è destinata ad esaurire le sue energie
narrative. Oggi siamo esattamente al punto in cui la Liberazione ha
esaurito ogni forza narrativa capace di attualizzare il ricordo della
Resistenza. Peggio ancora, quel ricordo, rimasticato, digerito e
defecato dai nuovi soggetti della politica, serve come false flag della
lotta “all’autoritarismo”, che nella vulgata comune corrisponde alla
lotta contro ogni “estremismo”, e che tradotto ulteriormente significa
la lotta a qualsiasi ipotesi contraria alla liberal-democrazia
capitalista. Materialmente oggi celebrare la lotta contro il fascismo
significa – per la grande massa dell’opinione pubblica e in primo luogo
per le istituzioni di ogni livello – schierarsi per la democrazia
liberale. A che pro allora persistere nella “memoria comune” in un
“corteo ufficiale” distante anni luce non solo dalle lotte di classe, ma
incomprensibile alla maggioranza degli abitanti della sterminata
periferia (quantomeno romana)?
Il fascismo è un fenomeno storico preciso. Aver affibbiato la
qualifica di “nuovo fascismo” a qualsiasi vicenda politica non
progressiva, aver etichettato come “nuovo duce” qualsiasi improbabile
personaggio politico, può aver funzionato politicamente nell’immediato
ma reso ha incomprensibile il fenomeno storico nel medio-lungo periodo. Ci
ritroviamo così oggi a replicare costantemente, fosse anche
implicitamente, il paradigma storico-politico del “fronte antifascista”
in assenza di fascismo e in assenza di forze popolari schierate su
opposti versanti di classe (come il Pci e la Dc) ma comunque capaci di
organizzare concretamente vastissimi settori sociali. Sull’altare della
lotta ai “nuovi fascismi” – di volta in volta identificati con Renzi,
Trump, Berlusconi, la Brexit, Grillo o chissà cos’altro – per molti anni
la sinistra ha tenuto in vita un’intelligenza col nemico che ne ha
determinato la sua crisi storica e la sua conseguente scomparsa dalla
scena politica. Se, insomma, in nome della lotta al fascismo il
proletariato poteva accettare (e lo “accettò” molto difficilmente, al
prezzo di scontri intestini e pagando un prezzo salatissimo) la Dc al
governo, oggi questa resa politica non fa più presa. Ecco perché il
tentativo anacronistico delle “sinistre” di riattivare quel paradigma
non funziona più. Perché allora reiterare la necessità di un momento
comune con quelle forze politiche che fanno parte a pieno titolo dei
principali problemi per le classi subalterne del paese? E’ anche per
questo che o il 25 aprile torna ad essere una festa di parte o sarà
destinata inesorabilmente alla scomparsa. La memoria è importante se
serve ai propri bisogni politici, altrimenti è memorialistica. La stessa
che riguarda d’altronde il 14 luglio francese: nessuno dei politici
francesi che oggi lo commemorano sarebbe rimasto vivo sotto i colpi
fatali della ghigliottina robespierriana, ma tutti fanno finta di
celebrarne il ricordo solamente perché ormai talmente pacificato da
essere sinonimo di “democrazia liberale”. Democrazia liberale i
montagnardi rivoluzionari? Ma figuriamoci, ma tant’è, anche per la Presa
della Bastiglia vale il discorso fatto sul 25 aprile: disattivato il
senso politico storico dell’evento, questo è ormai sovrapposto alle
laudi della liberaldemocrazia contro “l’autoritarismo”. Ma se questo
andava bene nel mondo della guerra fredda (e, ribadiamo: non è pacifico
che sia così), oggi non trova più alcun senso: perché insistere in un
antifascismo “comune” o “trasversale”?
Dunque, ha ancora senso celebrare la Liberazione nelle forme unitarie
e istituzionali seguendo la tradizione? Non è facile rispondere alla
domanda, perché se da un lato vale il ragionamento appena fatto,
dall’altro rimane comunque necessario mantenere un vincolo istituzionale
a quella data e a quell’evento. Perché, sebbene disattivata e
pacificata, perimetra un campo (ormai però quasi completamente
sbrindellato) fuori dal quale non ci dovrebbe essere legittimità
istituzionale, e quindi democratica, almeno verso il
neofascismo. Si dirà che questo fatto non è dato una volta per tutte
dalla difesa istituzionale della legittimità antifascista, ed è
sicuramente vero. Ma ci sembra altrettanto vero che allontanare le
istituzioni da quel vincolo rischia di legittimare anche ufficialmente
quel neofascismo verso il quale dovrebbe persistere una esclusione
democratica dalla normale agibilità politica. La democrazia antifascista
sarà pure una pappa informe fatta di “valori condivisi” e “memoria
comune”, ma sempre meglio della democrazia a-fascista.
Non se ne esce facilmente. Il Pd abbandona il 25 aprile, e menomale.
Ma con la scomparsa degli ultimi partigiani sarà l’Anpi stessa a non
trovare più fondamento istituzionale, spingendo tutto il quadro politico
all’abbandono di quel legame che pure c’era tra democrazia formale e
antifascismo. Per quanto ormai forse inutile, per quanto deleteria certa
memorialistica, la rottura formale del vincolo antifascista sarà un
passaggio nuovo per una Repubblica nonostante tutto “nata dalla
Resistenza”. L’a-fascismo della nuova democrazia a quel punto metterà
sullo stesso piano, senza nessuna delle remore che ancora oggi
flebilmente permangono, i movimenti antagonisti e i gruppi neofascisti. E
a contare non saranno altro che i nudi rapporti di forza, cioè i
numeri. Come evidente da qualche anno in Francia con il protagonismo del
Front National, non è detto che questi saranno sempre(?) dalla nostra parte. Anzi.
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