Dopo l’entusiasmo prodotto dalla prima sollevazione globale contro il neoliberalismo,
non è facile essere all’altezza dello sciopero dell’8 marzo e dello
spazio politico che ha aperto. In tutti i luoghi in cui è stato
praticato, le donne si stanno domandando come raccogliere i
frutti di un’esperienza capace di abbattere con la forza di una marea
gli argini delle abitudini consolidate e le certezze stabilite nel tempo.
In molte hanno salutato l’evento come il segno di una «nuova ondata» di
femminismo. È una prospettiva incoraggiante e forse persino
rassicurante, perché ricerca una continuità con pratiche e discorsi
riconosciuti e riconoscibili soprattutto da chi non ha smesso di
praticare il proprio femminismo nemmeno nei momenti della «ritirata
carsica» del movimento delle donne. Eppure bisogna chiedersi se questa
prospettiva non dia per scontato, pur nel riconoscimento della pluralità
dei femminismi possibili, che cosa il femminismo può diventare. L’8
marzo rischia così di essere solamente una conferma, anziché la novità
che impone di chiederci che cosa significa pensare e come praticare il
femminismo dopo un’esperienza a tutti gli effetti eccezionale.
L’8 marzo è stato eccezionale perché il movimento delle donne contro la violenza maschile ha incontrato quello dello sciopero che da mesi sta attraversando il pianeta e gli ha impresso una decisa accelerazione. Dalle lotte contro la loi travail alla prossima Mayday statunitense – dove lo slogan «una giornata senza di noi» mobiliterà i migranti e con loro le donne del Women’s strike
‒ passando per l’America Latina, la Russia, l’Irlanda, la Guyana
francese, lo sciopero è praticato da una moltitudine di soggetti come la
risorsa più potente per esprimere in massa il rifiuto della violenza
dell’ordine neoliberale. Questa violenza si manifesta in modi diversi,
ma sempre nella forma di un dominio che si impone unilateralmente e senza mediazioni.
Queste diverse esperienze politiche di sciopero segnalano la
consapevolezza che nessuna istituzione, municipale, statale o
sovranazionale si assumerà il compito anche solo di smussare gli effetti
più violenti della situazione presente, senza che coloro che li
subiscono impongano un rovesciamento dei rapporti di forza. Lo sciopero
perciò non è uno strumento di negoziazione. Lo sciopero è un movimento reale che non si lascia confinare dentro a schemi prestabiliti.
Esso scuote non solo i rapporti sociali, ma anche i soggetti che lo
hanno promosso. Il movimento dello sciopero ha bisogno di una nuova
misura che guardi alle dinamiche che esso libera, prima ancora che agli
effetti che esso produce sul piano della contrattazione. Solo così è
possibile vedere che, anche laddove non è stato direttamente praticabile
e praticato come astensione dal lavoro, senza diventare per questo
semplicemente «simbolico», lo sciopero dell’8 marzo ha permesso a
soggetti diversi di prendere parola autonomamente, di uscire dal proprio
isolamento e avanzare in massa una pretesa di potere. Questa è
l’opportunità che le donne hanno saputo cogliere appropriandosi dello
sciopero, trasformandolo e rendendolo finalmente transnazionale e
sociale. Le donne si sono fatte valere come parte contro il
tutto e grazie a questa parzialità lo sciopero ha potuto attraversare i
confini, sincronizzare politicamente pratiche e istanze molto diverse e
coinvolgere anche gli uomini ‒ precari, operai e migranti ‒ in un
rifiuto di massa della loro condizione e della violenza sulle donne. Per
questo abbiamo potuto dire che l’8 marzo è stato la prima sollevazione
globale contro il neoliberalismo.
Dopo l’8 marzo, la sfida è perciò
ripensare il femminismo sotto il segno dello sciopero. Non perché lo
sciopero sia destinato a ripetersi tutti i giorni, ma perché siamo
chiamate a tenere viva la sua capacità di innescare una presa di parola
complessiva e un coinvolgimento di massa anche al di là delle strutture
organizzate, delle reti esistenti, dell’attivismo femminile. In questa
direzione, il nostro femminismo non può limitarsi a denunciare una condizione di subordinazione che riguarda le donne come tali.
Certamente, la differenza sessuale stabilisce un taglio all’interno
della società perché su di essa si innestano specifici rapporti di
potere. Ma questi rapporti e la loro struttura patriarcale vanno
ripensati e attaccati a partire dalla loro riorganizzazione neoliberale.
Il più bieco conservatorismo che sul piano globale si esprime nella
restrizione della libertà delle donne di abortire va di pari passo con
la più avanzata privatizzazione e finanziarizzazione del welfare, che fa
leva su una rinnovata centralità simbolica e materiale della famiglia.
Lo schema più tradizionalmente patriarcale della divisione sessuale del
lavoro si combina con la più completa apertura dello spazio domestico al
mercato transnazionale e al regime dei confini, dove il lavoro
riproduttivo delle donne migranti può essere scambiato con il salario di
un’altra lavoratrice. La violenza ad alta intensità dello stupro e
quella a bassa intensità della cultura di massa sono parte integrante di
un processo di addomesticamento della libertà femminile, che è ammessa
come libertà individuale di lavorare, vendere e comprare, di consumare
merci, sesso e stili di vita, ma è duramente repressa quando mette in
questione i ruoli e le gerarchie sessuali necessari alla riproduzione
ordinata della società. Da agente della mediazione ‒ come erogatore di
welfare o garante della negoziazione tra parti sociali ‒ lo Stato è diventato un funzionario globale del neoliberalismo, regolando istituzionalmente i suoi pilastri patriarcali.
La repressione indiscriminata nei confronti delle donne seguita allo
sciopero dell’8 marzo a Buenos Aires ‒ come la brutale normalità del
diritto che emerge dalle sentenze emesse dai tribunali nostrani nei casi
di stupro ‒ confermano lo Stato nella sua posizione di agente della
violenza organizzata del patriarcato. Parlare di patriarcato
neoliberale, perciò, non è soltanto un esercizio retorico; non si tratta
nemmeno di offrire una descrizione storicamente aggiornata dei modi in
cui le donne sono quotidianamente oppresse. Se questo ordine sessuato
struttura la produzione e la riproduzione della società, esso allora non
riguarda soltanto le donne. Non riconoscere il nesso che lega la
persistenza del patriarcato al neoliberalismo indebolisce o persino
vanifica le lotte, limitando il loro orizzonte alla transizione da una
subordinazione a un’altra, rendendole un semplice e fugace momento
dell’eterno scontro tra oppressi e oppressori. Si tratta perciò di
riconoscere che, proprio in forza della loro posizione, le donne
hanno la possibilità di farsi valere non soltanto contro l’ordine
patriarcale, ma anche e nello stesso tempo contro il comando del
capitale amministrato dallo Stato globale.
Lo sciopero dell’8 marzo ha reso
visibile questa possibilità. Esso ha creato le condizioni per una
comunicazione politica che va ben al di là dell’incontro fra tante donne
e molti femminismi a partire dalla parola d’ordine trasversale del
rifiuto della violenza maschile. Per tenere aperto lo spazio dello
sciopero non è perciò sufficiente sommare alla differenza sessuale
quelle di razza, di genere e di classe, ripetendo un mantra che
troppo spesso si è rivelato semplicemente una formula retorica per
contare le differenze. Il problema non è l’intersezione occasionale fra identità date, ma riconoscere che il femminismo, così come
qualsiasi processo di soggettivazione, comincia là dove si esprime il
rifiuto collettivo di una posizione e di una subordinazione imposte, e
che a partire da questo rifiuto è possibile costruire una comunicazione
politica in grado di travolgere ogni identità. Il femminismo del nostro
presente non può mirare a realizzare l’unità delle donne come oppresse,
magari in nome dell’universalismo di diritti ormai vuoti. Esso deve essere globale, agendo nei punti di congiunzione tra l’ordine patriarcale e quello neoliberale
e rifiutando le posizioni sessuate e sociali che essi impongono a
milioni di precarie, migranti e operai. Il femminismo del nostro
presente non può essere un femminismo delle identità, che si incontrano
grazie a un’alleanza contingente restando in definitiva isolate e
individualizzate come il patriarcato neoliberale impone. Esso deve
essere un femminismo di parte capace di spingersi oltre i
confini della «questione femminile», di rompere l’isolamento
individuale, di produrre rotture collettive e processi comuni.
Noi crediamo che lo sciopero dell’8 marzo indichi la possibilità di questo femminismo globale e di parte.
Certamente, resta la questione di come mantenere lo spazio politico
aperto dallo sciopero senza ripiegare nell’ordinaria amministrazione
della resistenza alla violenza. Protestare di fronte ai tribunali contro
la compiacenza dei giudici nei confronti degli stupratori, censurare il
sessismo dei mass media, denunciare l’obiezione di coscienza
antiabortista, scandalizzarsi per il maschilismo che organizza la
cultura di massa è comprensibile, persino necessario, ma anche
insufficiente. Dobbiamo assolutamente evitare di rimettere le
donne nella posizione di vittime e affidare alle istituzioni il compito
di proteggerle dalla violenza quotidiana. Non possiamo
ripiegare nelle pratiche di un femminismo di difesa o di denuncia, che
parla soltanto alle donne che lo praticano. Le intollerabili urgenze del
presente impongono di ripensare il nostro femminismo dando continuità
allo sciopero come rottura, riconoscendo che nessuna mediazione e
nessuna conquista per le donne – e non solo per le donne ‒ è possibile,
senza tenere aperto lo spazio di soggettivazione e protagonismo politico
che lo sciopero ha determinato.
Noi pensiamo che a partire da questa
esigenza vada pensato il Piano femminista antiviolenza di cui si
discuterà a Roma il prossimo 22 e 23 aprile. Tra le donne che
scriveranno il Piano e quelle che hanno incrociato le braccia e
attraversato le piazze dell’8 marzo c’è uno scarto inevitabile che non
può essere colmato in termini rappresentativi. C’è una differenza
fondamentale tra il «parlare per le donne» di fronte alle istituzioni e
il creare i percorsi affinché le donne parlino in prima persona e in
massa, diventando protagoniste di un’insubordinazione generale contro
l’ordine neoliberale. C’è una distanza altrettanto rilevante tra un
programma operativo che riguarda le donne e si fa carico del problema,
difficilmente eludibile, di migliorare le loro concrete condizioni di
vita e di lavoro, e un programma politico che ambisce a essere
espansivo, portando alla luce la connessione sistematica tra quelle
condizioni e i processi contemporanei di precarizzazione e sfruttamento.
In questo senso gli «8 punti per l’8 marzo» sono una base di partenza
che va sviluppata e approfondita, nella direzione di allargare lo spazio
del nostro femminismo di parte. In occasione dello sciopero, gli «8
punti» non sono stati semplicemente una piattaforma rivendicativa capace
di articolare le diverse facce della violenza sulle donne. Essi hanno
soprattutto tracciato le coordinate di un discorso che parte
dalle donne ma riguarda tutti, che non s’illude che lo Stato possa
paternalisticamente offrire le risposte ma riconosce il problema del
potere che sta dentro all’ordine del diritto. Gli «8 punti»
sono la base affinché il nostro femminismo possa esplicitare la propria
intenzione sociale e transnazionale. L’8 marzo ha chiarito che la lotta
delle donne per il salario, il reddito, il welfare e la libertà di
movimento non può essere pensata solo sul piano nazionale, così come non
riguarda soltanto un segmento del lavoro particolarmente svantaggiato e
chiamato a difendersi dai tagli previsti in ogni legge di bilancio. Una
volta riconosciuti i punti in cui aggredire praticamente l’oppressione
imposta dal patriarcato neoliberale, dobbiamo avere il coraggio e
l’ambizione di riconoscere le sue connessioni globali, pena il costante
ritorno della solita violenza. La capacità che il percorso di
Non una di meno ha avuto finora di tenere insieme diverse facce di
questa violenza deve essere intensificata: ogni tavolo non può
che farsi carico di superare l’intervento settoriale per mettersi in
comunicazione politica con gli altri. Solo così possiamo riconoscere che
la lotta delle migranti non si inscrive dentro a codici culturali o
identitari, ma indica nel razzismo istituzionale una leva essenziale per
l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro produttivo,
riproduttivo e sessuale attraverso il regime dei confini. Il nostro
femminismo di parte va oltre i confini dello specialismo, delle identità
e del separatismo, per costruire un campo globale di
connessione politica e una pratica di sovversione sociale che interpella
tutti coloro che hanno la necessità di trasformare lo stato di cose
presente.
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