Nella giornata del 25 aprile e nella notte del 25/26, a Como, dove Mussolini era fuggito arrivando in serata da Milano, si concentrano numerose formazioni fasciste, provenienti dalle zone circostanti, in buona parte condotte dall’irriducibile Alessandro Pavolini, segretario del PFR. L’afflusso durò tutta la notte e continuò nella mattinata del 26. Giorgio Bocca parla di 6.000-7.000 uomini, ampiamente sufficienti per asserragliarsi a difesa di possibili attacchi partigiani e attendere l’arrivo degli Alleati, ai quali arrendersi, avendo probabilmente salva la vita.
Bastava che il capo del fascismo avesse lo stesso coraggio di un qualsiasi Comandante Partigiano e fosse disposto ad affrontare lo scontro coi partigiani (che erano – nella zona – non molto numerosi, vedi Figura 3a, si stima in poche centinaia il loro numero) e poi la Giustizia degli Alleati, che arrivarono a Como il giorno 28. Invece, Mussolini, scartata definitivamente l’opzione Valtellina, volle tentare la fuga in Svizzera, dicendo in contemporanea a Fritza Birzer che invece si sarebbe fatto scortare fino a Merano, e lasciando ancora intendere a Pavolini che Como fosse ancora una “tappa” verso il ridotto in Valtellina.
L’ex duce decise quindi di abbandonare i suoi ultimi fedeli, “sciogliendoli dalla fedeltà al giuramento” e partendo di nascosto con i ministri e gerarchi alle 4:40 del mattino del 26 aprile, direzione Menaggio, e da qui prendendo poi una valle laterale verso il confine svizzero, cercando di ingannare anche i suoi guardiani tedeschi che lo volevano “scortare” , appunto, almeno a Merano e magari in Germania.
Nessuno dei capi fascisti – presenti in folto numero a Como quella sera – ebbe il coraggio o la decisione di restare a Como per organizzare la difesa e affrontare lo scontro coi partigiani: tutti seguirono Mussolini.
Alessandro Pavolini, insieme a Idreno Utimpergher, Comandante della Brigata Nera di Lucca, la mattina del 26 aprile parte da Milano alla testa di una colonna di 178 veicoli, che contava – pare – quasi 5000 militi. Una volta giunto a Como non vi trova però Mussolini, il quale era appunto partito alle 4:40 del mattino per Menaggio e Grandola. Quel giorno 26 aprile, a Como, regna una confusione estrema. I fascisti sono abituati ad avere un “capo” che dia loro degli ordini, ma quel “capo” è ora uccel di bosco. Così, il 26 aprile, tutti i fascisti arrivati a Como, pensando di fare un’ultima resistenza, in Valtellina o nella città stessa, restarono privi di ordini, abbandonati dall’ex duce e dai loro capi, e alla fine si dispersero, finendo poi a gruppetti in bocca ai partigiani, o nascondendosi. Mussolini fece, come vedremo, entrambe le cose. Pavolini, con un pugno di militi ed un veicolo riconvertito ad autoblindo, partì anch’egli da Como verso Menaggio per cercare di raggiungere l’ex duce. Mancavano solo due giorni all’esecuzione.
Fig. 4. Fuga di Mussolini – Percorso da Como a Menaggio, 26 aprile 1945. I tempi di percorrenza non sono esatti, essendo quelli di oggi. |
Verso le 4 del mattino del 26 aprile Mussolini e i suoi gerarchi abbandonano precipitosamente Como muovendosi verso nord, lungo la “Via Regina”, giungendo a Menaggio verso le sei del mattino, senza incontrare ostacoli. Successivamente in mattinata proseguono da Menaggio lungo una strada che ascende verso il confine svizzero lungo una valle laterale, abbandonando quindi la lungolago: arrivano a Grandola, molto vicino al confine. Molta pubblicistica, revisionista e non, nega l’intenzione di Mussolini di fuggire in Svizzera, basandosi più che altro sulle dichiarazioni pubbliche che l’ex-duce stesso fece nei mesi e nelle settimane precedenti. Appare invece evidente che Mussolini all’ultimo cambiò idea e – perlomeno – percorrendo la riva occidentale e non quella orientale, come aveva invece suggerito Pavolini la sera del 25 aprile – non si precluse la possibilità di fuga. L’abbandono del lungolago per ascendere verso Grandola e il confine svizzero, poi, mettono in evidenza quali fossero le sue intenzioni, quella mattina del 26 aprile. Assai significative sono le dichiarazioni dello stesso capo della sua scorta tedesca, Fritz Birzer, in una intervista rilasciata quasi quarant’anni dopo i fatti e della quale riportiamo alcuni stralci: Quando durante la sosta alla prefettura di Como, riuscii a mettermi in contatto telefonico con un aiutante dell’ambasciatore Rahn che si trovava al consolato tedesco di Milano e gli chiesi istruzioni, temendo un tentativo di fuga di Mussolini in Svizzera, la risposta che ricevetti fu: “Qui non c’è più nessuno, non so cosa dirle. Agisca come meglio crede e se Karl Heinz tenta di fuggire, lo uccida”. Karl Heinz era il nome in “codice” usato da noi tedeschi per riferirci a Mussolini. Dopo la telefonata al consolato mi recai dal comandante del presidio militare tedesco di Como e gli dissi: “Signor Ortskommandant, sono qui col Duce e temo che voglia tagliare la corda. Che cosa mi consiglia di fare?” Mi rispose: “Io ho a disposizione trenta uomini, e lei quanti ne ha?” “Una trentina anch’io”, precisai. “Bene’ – osservò il capitano – allora insieme abbiamo sessanta uomini e siamo abbastanza forti per trattenerlo. Lo faccia prigioniero!” Fu a Como che incominciai a capirlo. Per recarsi in Valtellina, da Milano, non si passa da Como, e tanto meno si sceglie la via occidentale del lago. Ma i miei dubbi aumentarono quando Mussolini tentò di partire da Como a mia insaputa, alle 4.40 del 26 aprile. Perché voleva andarsene senza la sua scorta tedesca, da lui tante volte elogiata? E tutti sanno che glielo impedii con i mitra dei miei uomini puntati. A Grandola poi i miei dubbi si fecero più consistenti. Perché Mussolini era salito in quella località, a pochi chilometri dal confine svizzero, abbandonando la litoranea Menaggio-Dongo? E perché aveva mandato Buffarini-Guidi e il ministro Tarchi al confine? Soltanto al ritorno da Grandola verso Menaggio, nella sera del 26, Mussolini mi disse: “Birzer, dica ai suoi uomini di prepararsi, partiamo subito per Merano”. Nella scorta di Mussolini – dal 26 – era presente anche il Capitano Otto Kisnat (Kriminal Inspektor alle dipendenze dei servizi segreti di sicurezza del SD “Sichereits Dienst” e addetto alla persona di Mussolini). Kisnat era partito assieme al convoglio di Mussolini da Gargnano verso Milano, il 18 aprile, ed era rimasto a Milano fino al 24 aprile; aveva poi fatto ritorno sul Garda e si era ricongiunto a Mussolini nel pomeriggio del 26, a Grandola. Kisnat è stato ancor più categorico di Birzer. In una sua intervista del 1968 al giornale “Epoca” (Epoca, 18 e 25 agosto, 1968, n° 934-935) egli riferisce un particolare riguardante, l’arresto di Buffarini Guidi e Tarchi, del quale si parlerà nel seguito; Kisnat asserisce che Mussolini gli disse all’hotel «Miravalle» di Grandola: «Li ho mandati io a trattare con le autorità di confine la possibilità di passare in Svizzera col mio seguito... ma ora ciò non è più possibile. Partiremo domani, presto, per Merano». Da queste testimonianze, e da un semplice sguardo ad una cartina geografica, si può quindi capire il motivo della precipitosa partenza di Mussolini, in direzione Svizzera. L’edizione del 26 aprile del Corriere della Sera, esce dedicando la sua prima pagina all‘insurrezione di Milano contro i nazifascisti e riporta la notizia della fuga di Mussolini da Milano: essa diviene di dominio pubblico e si scatena la caccia all’uomo, da parte di partigiani ed alleati, con lo scopo comune di catturarlo, ma con idee diverse – come vedremo – sulla sua sorte dopo l’arresto.
Fig. 5. Prima pagina del Corriere della Sera del 26 aprile 1945. “Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni”. Il proclama del CLN “Arrendersi o perire”. |
Mussolini e il suo ampio seguito si fermano a pranzo presso la caserma della Milizia Confinaria con sede all’ex albergo Miravalle, a Grandola. Lì Mussolini è raggiunto da Clara Petacci, ed è sempre presente con lui la scorta tedesca che aveva ricevuto l’ordine da Hitler di dirigerlo verso la Germania. Qui apprende della sua condanna a morte da parte del CLN (vedi in seguito il Decreto) e fa considerazioni sulla presunta ingratitudine del Comandante del CLN, generale Raffaele Cadorna, che ha firmato il Decreto di condanna: “Con tutto quello che ho fatto per riabilitare la memoria di suo padre”. Parla del Generale Luigi Cadorna, famigerato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano durante la Prima Guerra Mondiale, responsabile di sconsiderati attacchi che portarono allo sterminio di centinaia di migliaia di soldati italiani, della disfatta di Caporetto, sostituito dopo questa da Armando Diaz. Nel pomeriggio, mentre è a Grandola, arriva a Mussolini la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, che tentavano per primi l’espatrio forzando la dogana, sono stati invece arrestati a metà strada, a Porlezza, circa 8-10 km più avanti, dai partigiani. Mentre due automobili con i gerarchi in avanscoperta sono state bloccate, una terza è riuscita a tornare indietro e ad avvertire l’ex duce. Nel frattempo la radio annuncia che anche Milano è stata liberata e che i responsabili della disfatta nazionale, trovati con le armi in mano, saranno puniti con la pena di morte. Mussolini capisce che fuggire in Svizzera non è più possibile, e torna a Menaggio, sperando di mescolarsi ai tedeschi in fuga verso la Germania, o di arrendersi agli alleati.
Fig. 6. Il progettato percorso della fuga in Svizzera di Mussolini, 26 aprile 1945, partendo da Grandola, a soli 15 km dal confine. I tempi di percorrenza non sono esatti, essendo quelli odierni. |
Mussolini ritorna in tarda serata del 26 aprile a Menaggio, lago di Como. L’ultimo tentativo di fuga verso la Svizzera è abortito, dopo essere arrivato, in giornata, a soli 15 km dal confine. Meta della fuga era la tranquilla cittadina di confine Albogasio sul Lago di Lugano, un valico con la Svizzera che si pensava fosse poco sorvegliato, a due passi da Lugano: il percorso, da farsi interamente in automobile, prevedeva di percorrere l’attuale Strada Statale 340 lungo il tratto della sponda nord del Lago di Lugano in territorio italiano, passando da Porlezza, Cima e appunto Albogasio; ma a metà strada, fra Grandola e il confine, a Porlezza, due gerarchi fascisti (Buffarini Guidi e Tarchi), che erano andati in avanscoperta, nonostante i documenti falsi e la loro non eccessiva notorietà, oltretutto in piccolo gruppo, vengono comunque riconosciuti ed arrestati dai partigiani. Mussolini non aveva alcuna speranza di passare. Un’altra possibilità che si offriva a Mussolini era quella di salire per la strada secondaria che arriva al paesino di Buggiolo e quindi percorrere un tratto a piedi – di cui la maggior parte in agevole sentiero – per giungere alle reti di confine, per boschi e sentieri ben noti ai contrabbandieri; questa ipotesi è riportata dal diario di don Nemesio Farina, il “parroco dei contrabbandieri”, pubblicato con il titolo “I fioretti del cardinal Schuster”. Si sostiene che, addirittura, l’arcivescovo di Milano Schuster – alla fine del colloquio del pomeriggio del 25 aprile – avrebbe consigliato all’ex-duce di dirigersi verso quella zona, “una piccola valle ospitale che gli avrebbe offerto una quasi certa salvezza, essendo libera da formazioni partigiane ed affidata a sacerdoti che avevano aiutato in quegli anni molti fuggitivi ad arrivare in Svizzera“. Le affermazioni di Schuster, tuttavia, se vere, non erano tuttavia più aggiornate: anche quella zona era presidiata, sebbene in minor misura rispetto ad altre, dai partigiani. Inoltre, una fuga del genere può essere tentata da pochi singoli, non da un gruppo di oltre un centinaio di persone, famiglie comprese, in una valle presidiata da partigiani in armi. Le tergiversazioni di Mussolini sono state fatali: ogni via di fuga è chiusa, ed il cerchio si stringe. Pavolini raggiunge in serata Mussolini e i suoi a Menaggio: ma non con i 5000 militi che erano partiti con lui la mattina; egli giunge con Uttimpergher e appena pochi militi, a bordo di un veicolo convertito ad autoblindo: sono bastati due giorni di indecisa attesa, e le ultime migliaia di “irriducibili” si sono trasformate in unità. Proprio in quelle ore, a Milano, la X MAS di Junio Valerio Borghese si arrende al CLN senza sparare un colpo, aggrappandosi a un sofisma (“Ammainammo la bandiera e smobilitammo”). Borghese fu poi arrestato, ma, nel dopoguerra, scontò in tutto tre soli anni di carcere. Lo ritroviamo poi molto attivo nella politica dell’Italia repubblicana, fino al famigerato “golpe Borghese” del 1970. Sopraggiunge a Menaggio, in quelle ore, un convoglio militare tedesco – della contraerea “Flak” – in ritirata verso Merano e la Germania, che si ferma appunto nel paese per la notte: 38 autocarri e 200 soldati ben armati. Fritz Birzer, il tenente tedesco che come abbiamo detto “scortava” Mussolini, senza mollarlo un momento, caldeggia l’idea di aggregarsi tutti alla ben munita colonna tedesca, la mattina seguente, proseguendo per Merano. L’ultima decisione fatale per l’ex duce, che trascorre la sua ultima notte da uomo libero.
Fig. 9. L’autoblindo di Pavolini. Dongo, aprile 1945. |
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