di Michele Giorgio
Marwan
Barghouti è in isolamento nel penitenziario di Jalame, tagliato fuori da
ciò che accade all’esterno della sua cella, ma lo sciopero della fame
“Libertà e Dignità” che ha proclamato lunedì scorso per ottenere
migliori condizioni di vita nelle carceri israeliane raccoglie continue
adesioni. Ai 1500 detenuti – in buona parte di Fatah, il partito di cui Barghouti è il segretario in Cisgiordania – si sono unite anche le 58 detenute palestinesi nel carcere di Hasharon.
Gli avvocati da parte loro boicotteranno le corti militari israeliane
che nel 90% dei casi condannano al carcere i loro assistiti. Ne ha
scritto Barghouti nella sua lettera pubblicata il 16 aprile dal New York
Times suscitando l’ira di Israele che considera il dirigente di Fatah
non un nuovo Mandela bensì un terrorista condannato a cinque ergastoli
per aver organizzato attentati contro civili. Accusa che Barghouti
respinge.
Nonostante la reazione di Israele, che ha adottato contromisure
immediate e ha escluso, per bocca del ministro per la Sicurezza interna
Gilad Erdan, qualsiasi ipotesi di trattativa con gli scioperanti, la
protesta ha avuto un forte impatto internazionale e sta mobilitando
migliaia di palestinesi come non accadeva da tempo. Tanto da scuotere i
vertici di Fatah rimasti freddi fino a lunedì di fronte
all’iniziativa di Barghouti, temendone i riflessi nelle strade della
Cisgiordania e le insidie per la stessa Autorità nazionale palestinese.
Dopo l’appello a sostegno della lotta dei prigionieri lanciato dal presidente dell’Anp (e leader di Fatah) Abu Mazen, ieri il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat
ha chiesto ai palestinesi «ovunque siano di sostenere il movimento
nazionale dei prigionieri contro le politiche razziste che violano
gravemente la legge umanitaria internazionale e i diritti umani». Erekat
si è anche appellato alla comunità internazionale e ai firmatari della
Quarta Convenzione di Ginevra sostenendo che «è tempo di intraprendere
azioni concrete» per costringere il governo Netanyahu «a rispettare i suoi obblighi». Erekat infine si è rivolto al Tribunale Penale dell’Aja affinché concluda rapidamente «l’inchiesta preliminare e apra un’indagine su Israele per crimini di guerra».
Nel gruppo dirigente di Fatah a Ramallah non c’è unanimità di giudizio nei confronti dello sciopero organizzato da Barghouti. Saeb Erakat e gli ex capi dei servizi di sicurezza Jibril Rajoub e Tawfiq Tirawi appaiono inclini, con accenti diversi, a sostenerlo, anche per guadagnare consensi tra i palestinesi. Altri
dirigenti sono più cauti e mettono in guardia dai contraccolpi politici
della mobilitazione della base del partito e di tanti palestinesi. Tra questi c’è l’ex governatore di Nablus, Mahmoud al Aloul,
che percepisce la protesta come una sfida alla sua posizione visto che a
inizio anno è stato nominato vice presidente, carica che molti
militanti del partito pensavano fosse destinata proprio a Barghouti, il
più votato tra i membri del Comitato centrale al congresso di Fatah alla
fine del 2016.
Esita anche Majd Faraj, il comandante
dell’intelligence dell’Anp, consapevole che il peggioramento delle
condizioni di salute dei prigionieri che fanno lo sciopero della fame
potrebbe innescare ampie manifestazioni di protesta contro Israele che
la polizia palestinese sarebbe chiamata a contenere se non addirittura a
reprimere con ovvie ripercussioni interne.
Faraj si prepara a partire, il 25 aprile, assieme ad altri
rappresentanti dell’Anp, per gli Stati Uniti dove preparerà la visita
ufficiale di Abu Mazen che, il 3 maggio, sarà ricevuto alla Casa Bianca
da Donald Trump.
Faraj teme che eventuali scontri tra palestinesi e forze
militari israeliane possano indebolire l’immagine di Abu Mazen agli
occhi di Trump davanti al quale invece il presidente dell’Anp vorrebbe
presentarsi avendo il pieno controllo della situazione in Cisgiordania e
mostrando un atteggiamento intransigente nei confronti di Hamas. Se
da un lato una delegazione di Fatah è andata a Gaza per discutere di
riconciliazione con il movimento islamico, dall’altro i contrasti tra le
due parti esplosi negli ultimi giorni, dopo il taglio del 30%
al salario degli ex dipendenti dell’Anp nella Striscia e il mancato
pagamento da parte del governo di Ramallah del gasolio per la locale
centrale elettrica (ora ferma con grave disagio per la popolazione), indicano la volontà della leadership palestinese di mantenere una posizione dura verso Hamas.
“Abu Mazen – spiegava una fonte di Fatah – sta dicendo al capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar
che non è più disposto a finanziare la stabilità di Gaza mentre gli
islamisti non appaiono pronti a rinunciare al pieno controllo della
Striscia”.
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