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16/02/2020

Algoritmo ed Intelligenza Artificiale: il carattere “di classe” della tecnologia

Il Novecento è stato il secolo della tecnologia per eccellenza e ci ha trasportato nell’era virtuale della prima rivoluzione digitale.

Negli anni 2000 il mondo virtuale si è così sviluppato mettendosi in relazione con quello reale al punto da confondersi nell’altro.

Il mondo della realtà virtuale è pieno di sorprese, di incognite ancora sconosciute ai più; alcune di queste nascondono però delle verità molto inquietanti che non sempre ci si attendeva.

Immaginiamo un mondo determinato oramai da qualcosa creato dalla Scienza ma che, come un ologramma, un oggetto riflesso da uno specchio, può mostrare anche un “lato oscuro” che se sfuggisse al controllo potrebbe diventare, in senso lato, minaccioso, pericoloso.

Quale il rapporto che si creerebbe fra la società in cui viviamo e la Scienza stessa? Dietro le riflessioni su questo rapporto si nasconde l’aspetto che più ci interessa: una prospettiva di classe celata dietro la presunta modernità di una serie di concetti legati ai cosiddetti dispositivi digitali od oggetti legati al mondo virtuale che ormai ci circondano e usiamo per buona parte della nostra giornata, ludica o lavorativa; a questo punto una domanda sorge spontanea e indispensabile: a quale platea vengono indirizzati i dati, i risultati delle operazioni, di qualsiasi tipo esse siano, meramente meccaniche o finanziarie, effettuate da tali strumenti? E a quale utilizzo sono destinati?

Questo è il punto: la tecnologia, che negli anni '70 la nostra generazione considerava rivoluzionaria, nel XXI secolo non è un campo neutro bensì è diventata organica al capitale, traendo profitto dal commercio di dati inconsapevolmente espropriati ai consumatori, ed in alcuni casi si è subordinata addirittura all’industria della guerra, non solo cibernetica ma anche economica.

Nel mondo virtuale tutto può essere finto.

(Dal documentario Lo and behold. Internet il futuro è oggi, prodotto e diretto da Werner Herzog, 2016)
La storia dell’uomo è frutto di un processo evolutivo, legato alle rivoluzioni industriali che ne hanno segnato i diversi stadi e caratterizzato i cambiamenti nella società.

Nel 1784, con il vapore e l’automazione (Industry 1.0), abbiamo cominciato ad abbandonare la vita contadina e i campi popolando le città.

Nel 1870, con l’avvento dell’elettricità, che portò alla produzione di massa e alla prima catena di montaggio (Industry 2.0), abbiamo iniziato a modificare il rapporto tra giorno e notte e delegato alle macchine (soprattutto gli elettrodomestici) molti compiti che prima gravavano sulle nostre spalle.

Poi nel 1970, con la nascita dell’informatica, è partita la prima digitalizzazione (Industry 3.0) e abbiamo messo in discussione i concetti stessi di informazione, editoria, leadership, geografia e molto altro ancora.

Più recentemente, ma non esiste ancora una data di riferimento univoca, con l’avvento e l’espansione dell’intelligenza artificiale e lo sviluppo della robotica ci siamo ritrovati, nostro malgrado nella seconda rivoluzione digitale: l’Industry 4.0, processo che porterà alla produzione industriale del tutto automatizzata e interconnessa.

Per essere chiari, stiamo parlando dell’utilizzo, integrazione ed interazione totale di tecnologie digitali nei processi di fabbricazione dei beni fisici, in primo luogo nel settore della produzione: stampanti 3D, IoT (“Internet delle cose”), utilizzo di robot et similia (pur essendo inglese, il termine “Industry”, sul quale per brevità abbiamo uniformato anche i precedenti, in realtà è stato coniato dal governo tedesco nel decennio scorso, per indicare la digitalizzazione dei processi produttivi N.d.r.)

Ognuna di queste fasi storiche è stata dunque caratterizzata da un salto qualitativo nel processo e nello sviluppo tecnologici.

Il piccolo ma doveroso preambolo “storico” serve a introdurre gli argomenti sui quali volevamo porre attenzione: l’algoritmo, il “prodotto” di cui forse si è parlato di più in questi ultimi tempi, e la cui applicazione è al momento egemone, sia nel mondo del lavoro che nella nostra vita quotidiana, e l’Intelligenza Artificiale (di seguito per brevità A.I. N.d.r.), di cui l’algoritmo è il principale “strumento”, per usare un termine un po’ improprio, ma che rende l’idea.

Due obiettivi ci interessano: capire se e come la tecnologia sia divenuta strumento di sfruttamento ed accumulazione capitalistico e come si inserisce in un contesto di “guerra non guerreggiata”; che status le sia stato conferito, fra le pieghe dei nuovi scenari di guerra alcuni dei quali – come la cyber war – abbiamo già illustrato in precedenza; e come possa dunque riuscire ad influenzare i destini del pianeta.

Nel contesto attuale, capitalistico e neoliberale, è davvero molto difficile credere che le tecnologie digitali vengano costruite per il “bene comune”.

Stante che la tecnologia ormai è subordinata al capitale, iniziamo quindi il nostro viaggio definendo prima, ed in breve, il concetto di Intelligenza Artificiale.

Possiamo riferirci all’A.I. come la disciplina che studia se e in che modo si possano riprodurre i processi mentali più complessi mediante l’uso di un computer. Un sistema di software potenzialmente in grado di sostituirsi in tutto e per tutto all’uomo nell’analisi di dati di qualsiasi tipo. Lo strumento o meglio il procedimento che il software utilizza per compiere quest’ultima operazione è l’algoritmo, sul quale poggia maggiormente la funzionalità della A.I. stessa.

Ma come si costruisce un algoritmo?

La definizione generale è chiara, ma come ogni concetto può essere empiricamente declinato in infiniti modi: un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui.

In termini semplici, si forma incrociando migliaia di dati, e tracce informatiche che ognuno di noi rilascia ogni volta che utilizza un motore di ricerca per trovare notizie su di un argomento, (Google ad esempio); oppure quando, molto più frequentemente soprattutto fra le giovani generazioni ma non solo, utilizzando un social network (Facebook, Instagram e così via) digitiamo un “like”, lasciando, in questo caso, chiari segni delle nostre preferenze. L’elaborazione di questi dati, in base ad un determinato numero di modelli matematici, facilita la previsione di un risultato richiesto all’inizio del processo.

Questo risultato, definito appunto dall’algoritmo, viene poi utilizzato da chi lo ha richiesto (singola persona, gruppo multinazionale, pmi) magari per la creazione di un prodotto anziché un altro, oppure per definire i ritmi di lavoro di una produzione, o ancora per inviare pubblicità e promozioni di oggetti od eventi rispondenti alle preferenze del soggetto. Questi prodotti vengono poi offerti e venduti in base alle profilazioni effettuate, facendo guadagnare le stesse grandi multinazionali della tecnologia che ci hanno espropriato più o meno consapevolmente i dati. È una classica “partita di giro”.

Aggiungiamo che lo sviluppo tecnologico, asservito al capitale per il tramite delle multinazionali della tecnologia, compie il passaggio di cui sopra utilizzando il miraggio della gratuità di una serie di servizi entrando così nel processo di produzione, “a gamba tesa”, o per dirla in termini più formali, in modo poco ortodosso.

Ogni piattaforma web più o meno social, non acquisisce solo i nostri gusti attraverso i nostri “like” ma anche i nostri dati, in barba alla vecchia e cara legge sulla privacy. Il commercio dei dati (Big data in gergo) è al momento quello più redditizio dopo quello della droga e quello delle armi... tanto per dire.

Ciascuno di noi inoltre, da utilizzatore delle piattaforme od altro, diventa più o meno consapevolmente, un “lavoratore” non salariato delle multinazionali della tecnologia. I nostri dati, le nostre tracce espropriati con l’inganno del “tuttoaggratis” diventano fonte di profitto.

Passiamo al secondo punto: l’utilizzo del risultato, molto frequentemente duale così come tutta la tecnologia: IoT, 5G, comunicazione ed informazione, A.I., robotica.

Banalmente anche una qualsiasi arma da fuoco può essere utilizzata a scopo sportivo in una gara di tiro (uso civile) o per massacrare civili inermi (uso militare). Da questa dualità, simile a quella fra pubblico e privato, ne discende giocoforza un’altra, che non attiene solo al campo del reale ma alle categorie in genere, forse addirittura a quelle che si riferiscono alla filosofia: la dualità civile/militare (o pubblico/privato) si porta dietro necessariamente il concetto, filosofico appunto, di morale ed immorale. (Per un approfondimento sull’argomento richiamiamo gli atti del Convegno “Il complesso militare industriale europeo” organizzato da Eurostop a Napoli il 25 gennaio scorso, ed in particolare la relazione di Mauro Luongo)

Al momento vorremmo soffermarci ad un ambito che richiama immagini, diciamo così soltanto “positive”, ma poi, riflettendo sull’argomento, un dubbio è pacifico che venga e mi pongo una domanda: applicando il processo atto a creare un algoritmo di una qualsiasi A.I., alla finanza, si potrebbero prevedere le performance di un titolo in borsa? Oppure, e questo è sicuramente più inquietante, potrebbe un algoritmo essere deliberatamente “alterato” ed influenzare di conseguenza l’andamento di un titolo o di un mercato ad altrui vantaggio?

Se la risposta fosse positiva, metteremmo in mano ad un “sistema”, basato su di un algoritmo, il futuro della nostra economia, familiare o nazionale che sia.

Ribadiamo che al momento, la tecnologia non è un campo neutro bensì organica al modello di accumulazione capitalistico e, assodato che si è in grado di sviluppare un algoritmo che “preveda” la tendenza di un mercato o di un titolo attraverso l’analisi di grandi volumi di informazioni, potremmo anche immaginare di creare un A.I. capace di imparare dai propri errori, così da migliorarsi autonomamente, e poter addirittura sviluppare modelli di trading indipendenti. Questo è piuttosto affascinante ma altrettanto inquietante, se ci siamo appena posti il quesito di cui sopra.

Qualcuno, comunque l’ha già realizzata e facciamo un minimo di storia: esistono software che costruiscono, per così dire, sistemi predittivi anche su variabili “imprevedibili”; non analizzando solo dati che riguardano i mercati finanziari o i titoli, ma anche le normali conversazioni che si svolgono sui social, così da poter intuire le preferenze della popolazione, per fasce di età o per estrazione sociale; ma per farlo, il programma deve comprendere il senso delle frasi: nessun tipo di A.I. o di software può ancora generare sentimenti, impulsi, ma è capace della cosiddetta “comprensione profonda”. Per meglio dire, l’algoritmo realizzerà dapprima l’analisi grammaticale del testo, poi quella logica, per giungere infine al “riconoscimento semantico” del termine. Secondo gli studi della Expert System S.p.A., una software house italiana fondata a Modena nel 1989 specializzata nell’analisi e nella gestione delle informazioni non strutturate tramite un approccio semantico, la A.I. “riconosce” il significato della parola.

Prendiamo ad esempio il lemma “tavolo”, che può essere riferito sia all’oggetto di arredamento che al momento di un negoziato. Se insieme a quel termine, l’A.I. trova anche il vocabolo “bicchiere” o “sedia”, allora comprende, desume dal contesto, che si tratta dell’oggetto di arredamento, altrimenti, pensa di trovarsi davanti ad un contesto differente, ad esempio un tavolo negoziale di qualunque tipo (sindacale, politico ecc.).

Applicando questo ragionamento al mondo finanziario, per rimanere nel campo delle ipotesi, ne potrebbe discendere la seguente deduzione: appurato che l’algoritmo studia le performance di un titolo anche in un arco di dieci anni, e che arriva a prevedere addirittura la volatilità o le anomalie stesse nel flusso degli ordini, se a questo processo aggiungessimo anche le caratteristiche legate alla suddetta comprensione semantica (dal momento che l’A.I. abbiamo detto memorizza e studia anche tutte le conversazioni in rete e/o nei social) si potrebbe giungere ad affermare che un algoritmo riuscirebbe, con uno scarto d’errore veramente limitato, a “consigliare” all’investitore (sia egli un broker, o un singolo azionista) se vendere o acquistare un determinato titolo.

Al settore della ricerca ora il passo successivo: rendere gli algoritmi sempre più sofisticati in modo da far progredire la specie trasformandola, via via, in una sorta di intelligenza autonoma, concetto che già avevamo introdotto poco sopra.

È il processo che in gergo informatico si chiama “machine learning”, l’apprendimento automatico; ed è proprio l’algoritmo il motore che lo alimenta. Questo fa sì che un A.I., giusto per terminare la nostra riflessione, può “costruirsi” sistemi predittivi praticamente su tutto, dai volumi, alla volatilità, fino alle anomalie. In questo senso si può affermare che sarebbe capace anche di falsare la realtà dei dati e quindi pilotare, ovviamente in senso biunivoco, e qui torna il concetto di dualità, scelte di ogni tipo. Questo, stante la finanziarizzazione dell’economia reale, rimanendo nel campo della finanza e degli investimenti il quadro; a voi l’esito che ne potete dedurre

Da qui alla produzione deliberata, dolosa di crack economici il passo potrebbe essere breve: un altro tassello della guerra non guerreggiata, che subiamo da diversi lustri oramai. È la guerra economica in questo caso, che si svolge ogni giorno sotto gli occhi inconsapevoli di noi tutti, guerra fra potenze a scapito delle classi subalterne a cui vengono chiesti sempre più numerosi ed enormi sacrifici per “salvare” le proprie nazioni dal tracollo economico e dai vari deficit pubblici. Ma questa non è quella “pura” dei vari dazi, né quella “indotta” dalla manipolazione mediatica del “Coronavirus” ma è pur sempre guerra economica bellezza!

Alcuni decenni fa, scrittori più lungimiranti di altri lo avevano evocato, e sono stati “ghettizzati”, relegati nel genere della “sci fi” (la nostrana fantascienza) ai tempi considerata inattendibile, solo per sognatori ma si sa nemo propheta in patria. Un nome per tutti: lo scrittore e biochimico russo Isaac Asimov che il 2 gennaio scorso avrebbe compiuto cento anni ma che ci ha lasciati troppo presto, nel 1992, trasmettendoci comunque una formidabile eredità: il “ciclo della Fondazione” ed il romanzo “Io robot” fra gli altri.

Un’ultima riflessione che potrebbe salvarci da quella che è una colonizzazione virtuale a tutti gli effetti e a cui è nostro dovere ribellarci: un algoritmo, non potrà mai prevedere, o per meglio dire, suscitare passioni; ancora più difficile sarebbe stabilire una relazione prossemica fra una macchina, che produce un algoritmo attraverso una lettura di dati raccolti anche attraverso un social, ed una persona fisica; cosa ancora possibile solo fra due esseri umani.

Su questo argomento ci sono scuole di pensiero diverse: c’è chi afferma che sfruttando gli algoritmi che riguardano il sentiment (tradotto dall’inglese significa “sentimento” ma anche “opinione” N.d.r.) il sistema possa funzionare, mentre altri sono più cauti.

Noi ci schieriamo dalla parte della seconda scuola: un robot (che pensa utilizzando un A.I.) può dare informazioni (sul passaggio di un ordine, sulla correttezza del prezzo di un titolo addirittura), ma non crediamo sia possibile che la sua predittività raggiunga un livello tale da poter sostituire un qualsiasi investitore. Troppi fattori e variabili “imprevedibili”, che fanno capo a qualcosa che l’uomo moderno ha imparato a chiamare “coscienza”, e che una macchina NON può trattare. Un robot avrà incarichi da front office, niente di più, potrà far risparmiare tempo ad un broker, che lo dedicherà al cliente, ma qui si ferma.

Ed è già molto.

Erogazioni, mutui e prestiti, settore sicurezza e compliance: questi i campi dove un A.I. può essere utilizzata al meglio e può snellire una situazione.

Non altri dove ad intervenire dovrebbe essere la “coscienza”.

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