Chi conosce bene il check point “container” per esserci passato decine di volte, sa che i militari ordinano di fermarsi, o di spostarsi, o di passare, sempre in modo brusco e imbracciando il mitra.
La situazione emotiva di chi è sotto il tiro di quei mitra non è mai serena, ma anzi provoca disorientamento se per caso una delle urla è diretta proprio a chi è sotto tiro.
Questo disorientamento ha portato all’uccisione di diversi palestinesi innocenti, come la giovane donna incinta di 5 mesi che toccava il cielo con un dito per aver avuto il permesso sognato da una vita di andare a Gerusalemme, ma che venne freddata, insieme al suo giovanissimo fratello che l’accompagnava, al check point di Qalandia per aver sbagliato marciapiede.
Questa sorte è toccata a tanti palestinesi innocenti, ed è giustificata da una parola magica dagli effetti criminogeni: “sicurezza”. Sicurezza per Israele.
Quella sicurezza che è molto più che legittima difesa. È addirittura molto più che eccesso di legittima difesa. È eliminazione di un ipotetico nemico solo per paura mista a odio e condita dalla consapevolezza dell’impunità del reato.
Quando in nome della sicurezza viene ucciso un disperato attentatore solitario, o un presunto attentatore o, anche, uno o più innocenti assoluti, il reato viene derubricato a gesto difensivo e scompare perché, parafrasando ancora una volta il giornalista israeliano Gideon Levy, il sangue palestinese è merce senza valore.
Vogliamo interpretare anche noi il video diffuso dall’IDF perché i pochi media che hanno dato notizia dell’omicidio lo hanno già interpretato secondo la lettura che ne dà Israele.
Nel video si vede Ahmad che parte in velocità dalla sua posizione a sinistra della carreggiata e la sua auto non va normalmente a destra, ma fa quasi un angolo retto e sembra dirigersi proprio sulla piattaforma dei controllori. Urta contro il cordolo. Una soldatessa schizza indietro spaventata e cade a terra circa un metro e mezzo oltre l’auto.
Ahmad ferma immediatamente la macchina e scende. Vuole vedere i danni provocati? Vuole chiedere scusa? Vuole spiegare il perché del suo gesto? Non possiamo saperlo visto che è stato ferito e poi lasciato morire.
La reazione dei militari che gli hanno sparato appena sceso dalla macchina probabilmente era dettata dalla paura. È comprensibile. Ma è importante notare che la macchina non è stata fermata dagli spari, ma è stato lo stesso conducente che l’ha fermata ed è sceso.
Chi vuole investire qualcuno NON SI FERMA ma procede. Chi vuole investire qualcuno non scende dalla propria auto dopo aver spento il motore. Ma la reazione dei soldati è normale, diciamo pure legale pensando a quel concetto di “sicurezza” che investe ogni azione israeliana.
Non è invece legale, sebbene per gli israeliani sia comportamento consuetudinario, lasciar morire un ferito inerme e quindi non pericoloso.
Sappiamo che Ahmad era in ritardo. Ipotizziamo che fosse agitato per il ritardo o distratto o magari stesse parlando al cellulare quando i militari gli hanno fatto cenno di avvicinarsi per il controllo. A quel punto invece che avvicinarsi lentamente ha “sgasato”, la macchina non era la sua, era presa a noleggio, e può aver (sempre ipotizzando) pigiato male sulla frizione o sull’acceleratore e invece di affiancare il cordolo gli è salito sopra con una ruota.
Forse un eccesso di fiducia verso i militari, o forse un istante di totale stupidità dovuto alla situazione emotiva del momento lo ha fatto scendere dall’auto. È stata la sua condanna a morte. Senza processo.
Forse lo avrebbero ucciso anche se fosse rimasto in macchina e, in quel caso, si sarebbe con maggiore probabilità potuto pensare che volesse investire i militari. Ma avendo lui stesso bloccato il veicolo ed essendo sceso, l’ipotesi dell’investimento, data per certa da Israele e dagli squallidissimi hoolingans della tifoseria sionista allocata sui social, non regge.
Ciò nondimeno la reazione dei militari, la prima reazione, quella di sparare all’uomo che scendeva dall’auto, è comprensibile in quanto dettata dalla paura che porta a sparare prima di capire. Ma la morte per dissanguamento dell’ipotetico nemico, quella no, quella si chiama omicidio.
Proviamo ora a entrare totalmente nell’interpretazione colpevolista: Ahmad voleva investire i soldati. Ma perché proprio il giorno del matrimonio di sua sorella? I matrimoni in Palestina hanno un enorme valore e quindi la cosa sembra strana, ma nella mente di un ragazzo nato sotto occupazione militare e che di nefandezze ne ha viste tante, può essere scattato questo folle impulso distruttivo. Allora voleva uccidere i militari. Ok.
Quindi i militari, non avendo fatto in tempo a sparargli mentre era in auto ed era ancora un pericolo, gli hanno sparato quando è sceso, inerme, e poi lo hanno lasciato morire per dissanguamento.
La paura può essere un’attenuante del ferimento, ma non della mancanza di soccorso. La voluta mancanza di soccorso si prefigura come omicidio volontario anche nel caso in cui Ahmad fosse colpevole.
A questo punto ci preme insistere su un concetto che va oltre la triste fine del povero Ahmad, colpevole o innocente che fosse.
Il concetto che ci interessa, perché riguarda l’umanità e non soltanto le vittime o i martiri palestinesi, è quello che traccia un solco tra giustizia e vendetta, tra civiltà e barbarie, tra la cosiddetta legge della giungla e quella del diritto.
È il principio dell’habeas corpus, quello che fece la sua comparsa già nel 1215 e che si concretizzò dal punto di vista giuridico nel 1679, quindi non è un’innovazione strana ma è quel principio al quale, almeno formalmente, fanno riferimento tutti i sistemi giuridici moderni, se democratici.
L’habeas corpus rappresenta il diritto del presunto colpevole di essere giudicato da una Corte e poi, eventualmente, essere condannato. Solo i regimi totalitari, non catalogabili come Stati di diritto, eludono sistematicamente l’habeas corpus. Sono i regimi tristemente famosi per gli squadroni della morte, quelli che somministrano la pena capitale senza processo.
L’esercito di occupazione militare israeliana – sia nella Palestina occupata da 53 anni, sia in quella parte di Palestina storica che Ben Gurion autoproclamò Stato di Israele occupando, non solo giuridicamente, ma anche fisicamente, case e terre palestinesi iniziando una mai terminata pulizia etnica funzionale a quel fenomeno storico conosciuto come colonialismo d’insediamento – ignora completamente, verso i palestinesi, il principio giuridico dell’habeas corpus.
E questo, agli occhi di qualunque cittadino pensante onesto, sia esso ateo o ebreo o di qualunque credo religioso e fede politica democratica, non può passare inosservato e non può essere giustificato, pena ottenere l’effetto domino che vediamo da tempo manifestarsi in quegli Stati che sostengono e imitano Israele fino ad assumerne istruttori militari e tecnologie repressive coperte dal manto offerto dal termine “sicurezza”.
Per questo ogni condanna a morte extragiudiziale dovrebbe far tremare l’assetto democratico di quei paesi che per interessi economici o politici, sostengono l’illegalità criminale di Israele lasciando che sprofondi sempre più verso la barbarie tipica di uno Stato etnico di stampo fascista allontanandosi dalla favola dell’unica democrazia del Medio Oriente.
Agitare come una clava la minaccia di “scomunica” per antisemitismo contro chiunque critichi i crimini israeliani non migliora la realtà, anzi consente a Israele, supportato dal peggior presidente che gli Usa abbiano avuto fino ad oggi, di arrivare più in fretta in fondo alla china.
Assecondare Israele, con giustificazionismi o silenzi mediatici dei suoi crimini come le condanne a morte senza processo, ci pone tutti come complici. Per questo l’omicidio di Ahmad Erekat, una delle centinaia di uccisioni impunite, ci deve interrogare quanto meno come democratici, a prescindere dal fatto di essere o meno sostenitori della causa palestinese.
Israele va sanzionato e i suoi militari pure. Lo chiede il Diritto universale, non lo chiedono solo i palestinesi.
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